di Valerio Calzolaio
Nelle pratiche politiche non sarebbe male valutare e comparare i comportamenti isomorfici. Agire in pratica come si declama in teoria, nei comizi e nelle riunioni; colmare un poco gli infiniti spazi fra il dire e il fare; comunicare un progetto ideale con i propri comportamenti materiali. Suggeriamo l’adozione dell’isomorfia come prova di democrazia per le scelte politiche collettive, un razionale principio isomorfico, accettare una reciproca reversibile relazione fra il far parte del tutto e il dover/poter/voler fare parte di una parte (prendere partito), fra il già fatto e il da fare (credibilità), fra il detto e il fatto (legittimità), fra quel che si dice di voler fare e il fare nella dimensione pubblica (responsabilità), privilegiando dunque decisioni fra differenti aperte opzioni, scelte le più reversibili possibile. Visto che parliamo e scriviamo e ascoltiamo e leggiamo, i comportamenti diventano anche forma di autocoscienza condivisa. Le parole necessitano di argomenti dialettici non dogmatici, quando riguardano scelte politiche pubbliche allora comportamenti e parole sono forse misurabili e valutabili attraverso strumenti cognitivi collettivi, il più possibile condivisi. Si sta formando un nuovo inedito governo in Italia, seguiamo la vicenda con scienza politica.
Intanto un nuovo governo si è formato ed è operativo negli Stati Uniti. Riusciamo già a vederne le novità per molte rilevanti dinamiche politiche internazionali ed abbiamo recentemente approfondito il tema del rapporto fra Presidenza Biden ed eventuale ripresa di un negoziato climatico più rapido ed efficace. Un qualche principio isomorfico vale ovviamente anche in un significato esterno alle comunità in cui si pratica la politica nazionale, vale a dire fra i comportamenti interni al proprio paese, che via via (in modo più o meno democraticamente scelto) ha i propri rappresentanti e i propri governanti, e i comportamenti che quel paese assume all’estero, nei confronti degli altri paesi e delle istituzioni internazionali. In tal senso, sarebbe meglio muoversi attraverso gli stessi meditati principi, con sincronia e coerenza, cercando di far maturare a tutti i livelli del pianeta i valori della democrazia (se si è democratici), del rispetto dei diritti umani (se li si rispetta anche fra connazionali), dello sviluppo sostenibile (se si combattono inquinamenti ed emissioni climalteranti). Appare positivo e interessante notare come nuove politiche ambientali e climatiche siano state subito annunciate e avviate anche all’interno degli Stati Uniti, meglio sottolinearlo subito, con sincronia e coerenza appunto.
Una grande mole di ordini esecutivi
Vari immediati ordini esecutivi hanno rovesciato fin dagli ultimi giorni del gennaio 2021 la deregulation americana imposta dal precedente presidente in favore dell’energia fossile, nei quattro anni 2017-2020. Pur assemblando fatti immediati e annunci futuri, gesti simbolici e indirizzi concreti, Biden ha fra l’altro: chiesto direttamente all’Epa (Environmental Protection Agency) di ripristinare le identiche riduzioni obbligatorie nelle emissioni di CO2 introdotte dal Presidente Obama prima dell’arrivo di Trump; elevato le politiche per la riduzione delle emissioni e l’adattamento ai cambiamenti climatici antropici a “priorità per la sicurezza nazionale”; annunciato la fine dei sussidi federali per le energie derivanti da idrocarburi (fine che necessiterà comunque di un delicato passaggio parlamentare); annunciato la subitanea moratoria e il tendenziale blocco delle concessioni per la ricerca e l’estrazione dei combustibili fossili sui terreni e sui fiumi federali (questione sentitissima nelle aree riservate alle comunità dei cosiddetti nativi americani), comprese quelle relative all’oleodotto Keystone X1; prospettato un piano di riconversione per creare un milione di posti di lavoro con investimenti nelle attività ecologicamente sostenibili, le stesse del Green New Deal prospettato da tanti esponenti del Partito Democratico, pur senza chiamarlo così; attivato tutte le agenzie federali per predisporre un piano di tutela degli ecosistemi su almeno il 30% delle terre e delle acque di pertinenza degli Stati Uniti nei prossimi 10 anni; istituito un ufficio presso la Casa Bianca specificamente preposto a questioni di giustizia ambientale, soprattutto per monitorare eventuali impatti sulle comunità a basso reddito e sulle minoranze.
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Non è tutto oro quel che luccica, si dirà. Vedremo.
Per intanto è corretto apprezzare il metodo tempestivo e la coerenza isomorfica fra scelte interne e ruolo internazionale. Sicuramente il primo elemento di verifica non sarà ambientale ma sanitario, gli Stati Uniti hanno pagato un prezzo enorme di vite (soprattutto di povere vite) al negazionismo ondeggiante di Trump. Biden ha presentato l’American Rescue Plan per contrastare l’emergenza pandemica e rilanciato Fauci verso l’Oms. Speriamo che nei prossimi mesi se ne vedano gli effetti, interni e globali. Si tratta di quattro dettagliati programmi urgenti, comunque non è certo che vedano premiato l’approccio unitario e bi-partigiano del Presidente in carica verso una cittadinanza e un elettorato molto divisi, per ragioni sia di classe sociale che di colore della pelle, questioni spesso connesse. La vicepresidente Kamala Harris sembra molto consapevole degli ostacoli presenti e della determinazione necessaria a scavalcarli: “la coscienza civile e la solidarietà non bastano. Dobbiamo accettare delle dure verità sul razzismo sistemico che ha permesso che questo accadesse.” Questo, ovvero il suprematismo bianco. È appena uscito un bel libro italiano che può aiutarci a capire: Giovanna Pancheri, Rinascita americana. La nazione di Donald Trump e la sfida di Joe Biden, Sem Milano 2021.
Giornalismo sul campo
Pancheri (Roma, 1980) è una giornalista bravissima, da oltre 15 anni a Sky TG24. Per i telespettatori italiani è divenuta un volto noto e fresco, una voce chiara, un riferimento efficace e affidabile, soprattutto nei sette anni europei a Bruxelles (dal 2009) e nel quadriennio americano vagabondo con base a New York (dal settembre 2016). Arrivò qualche mese prima delle elezioni presidenziali conclusesi con la vittoria di Donald Trump, è ritornata definitivamente in patria qualche giorno fa, dopo l’insediamento di Joe Biden, prendendosi solo un lungo indispensabile intervallo sanitario italiano (da metà marzo a metà giugno 2020), quando rientrò ipotizzando un breve periodo e scoprì di essere contagiata dalla malattia Covid-19. Si è chiusa in autoisolamento per oltre due mesi e molto ha scritto, recuperando appunti e rivedendo servizi. Prima (e dopo) ha girato gli States in lungo e in largo, dietro alle ultime grandi urgenze informative e alla ricerca dei movimenti profondi nella vita sociale, civile e culturale.
Nel lavoro giornalistico Pancheri ha profuso lo sforzo di evitare che le proprie opinioni (pur radicate e motivate) fossero alla base delle domande di cui cercava risposta nei fatti o nelle interviste. Ha cercato con successo di essere una lente d’ingrandimento, non un prisma che può distorcere l’immagine, di permettere a chi la seguiva di avere tutti gli ingredienti per farsi personali fondate opinioni, non di vedersi inculcare idee altrui. Ha riferito informazioni il più possibile verificate con numeri, dati e riscontri oggettivi. Ovviamente, un testo cartaceo è diverso dalla breve narrazione video a corredo delle immagini e dei dialoghi, una raccolta di argomenti approfonditi diversa dal servizio tematico immediato. Il suo volume risulta pertanto una descrizione utile e seria della nazione che più ha segnato il mondo nell’ultimo secolo, dopo una presidenza aspra e divisiva, all’inizio di una presidenza aperta di fronte a sfide inedite: i tanti votanti ancora per Trump, i tanti morti per il virus.
Il corposo saggio di Pancheri inizia e finisce con testi scritti a commento dei risultati elettorali del 2016 e del 2020, prologo ed epilogo connessi al discorso d’insediamento di Trump il 20 gennaio 2017 e all’alba del voto che il 3 novembre 2020 ha portato alla vittoria di Biden e alla mala sconfitta dello stesso Trump. I nove capitoli illustrano gli Usa contemporanei attraverso cruciali argomenti generali, riassumendo i viaggi e gli incontri dell’inviata in ogni anfratto dell’enorme territorio americano e terminando sempre con un puntuale corretto riferimento alle omogenee drammatiche novità imposte a ogni politica dalla sopraggiunta pandemia del coronavirus (il fattore C). I temi trattati sono: Sanità, Trumpcare; Economia, la società senza consumi; Lavoro, jobs, jobs, jobs?; Immigrazione, il muro del contagio; Razzismo, White Lives Matter (il capitolo più lungo); Sicurezza, alle armi!; Ambiente, si scrive inquinamento, si legge pandemia; Esteri, il virus straniero; Washington, palude o sabbie mobili? (il più breve).
La “rinascita” del titolo fa riferimento al discorso pronunciato da Lincoln il 19 novembre 1863 inaugurando il cimitero militare di Gettysburg e inciso alla sinistra della statua del Lincoln Memorial a Capitol Hill: auspicava una “rinascita di libertà”. In vari passaggi emerge l’incertezza sul sostantivo: rinascita o decadenza?, si rinasce stando poi meglio o peggio?, è stata una rinascita Trump o la sarà Biden, oppure entrambe, in contrapposizione?, e non si chiama forse (purtroppo) American Renaissance anche il movimento di destra neo razzista fondato nel 1990 da Jared Taylor con le sue teorie di supremazia genetica bianca contro ogni meticciamento? La narrazione è corredata di poche note e di molti spunti statistici e comparati (con citazione precisa di siti e studi), ricostruisce incontri con tante persone di ogni tipo e pensiero, alterna il tempo passato e il presente per garantire solida immediatezza. Le digressioni personali dell’autrice sono rare ed eleganti: spiega come fare qualche volta buon viso a cattivo gioco, accenna alle inevitabili scosse di disgusto e sconforto di fronte ad alcune dichiarazioni, invita a distinguere la difesa della libertà d’espressione dagli attacchi alle libertà civili e ai diritti universali. Il filo costante è quanto avvenuto davvero durante la presidenza Trump, i fatti dopo le promesse, i risultati dopo gli annunci, ben sapendo che ha rappresentato un’America reale e radicata, con la quale fare comunque i conti, pur se per contenerne e ridurne danni o impatti.
Il quinto capitolo del volume è dedicato proprio alle politiche ambientali americane nazionali cui sopra abbiamo fatto riferimento. Anche in questo campo Trump ha lasciato a Biden un’eredità inquinata. Pancheri introduce riportando l’intervista che fece al presidente dell’associazione dei produttori del carbone del Kentucky, che si pronunciò chiaramente contro i paletti ambientali “imposti” nell’era Obama e contro l’accordo di Parigi. Descrive poi alcuni eventi meteorologici estremi verificatisi negli ultimi quattro anni e che dovette commentare in drammatica diretta, l’impatto geologico dell’industria mineraria e i due intelligenti simpatici imprenditori per le centrali di energia solare negli Appalachi, la progressiva diffusa presa di coscienza dell’opinione pubblica americana di fronte ai cambiamenti climatici antropici globali (dall’agosto 2018 grazie anche alle due “amazzoni” Greta Thunberg e Alexandria Ocasio-Cortez). Invertire la rotta non sarà facile, tuttavia è realistico e possibile. D’altra parte, il principio isomorfico può aiutare: non è facilmente comprensibile rappresentare efficacemente un’istituzione pubblica che dichiara solennemente di lottare contro la fame nel mondo e, contemporaneamente, organizzare frequenti sontuosi banchetti con cento elucubrate portate, qualcosa stride, di primo acchito.
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