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Rinviata la Cop26 sul clima, cambiamenti e migrazioni continuano

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Valerio Calzolaio

Novembre senza Cop. Nel 2020 sono stati rinviati gli appuntamenti di aggiornamento del negoziato climatico abitualmente previsti alla fine di ogni anno. La ventiseiesima Conferenza delle parti sui cambiamenti climatici antropici globali era stata convocata un anno fa e fissata per il periodo dal 9 al 19 novembre 2020 nel Regno Unito, a Glasgow, la città più grande della Scozia e la quarta più grande del paese. Causa pandemia (e un poco anche per lo stallo sostanziale dei negoziati) è stata rinviata di un anno. Si terrà tra più di un anno, sempre a Glasgow a fine 2021, dall’1 al 12 dicembre.Ancora nelle ultimissime settimane abbiamo documentato con i nuovi studi a disposizione come anche durante questo ultimo anno, contrassegnato a livello globale soprattutto dalla malattia Covid-19, si siano continuamente manifestati con evidenza molti previsti effetti del riscaldamento del pianeta. Il 2020 non ha certo invertito la tendenza, viviamo in un altro degli anni più caldi del secolo, tutti gli eventi meteo si verificano in un contesto di cambiamento strutturale estremo. Il pericolo della crisi climatica non è scomparso, resta qui, pronto a colpire ancora: il ritmo di emissioni di CO2 derivate dall’attività umana sta aumentando così tanto da attivare meccanismi irreversibili di danno alla Terra e al nostro climaIlmondo dell’acqua sta morendo: la popolazione di organismi delle specie che vivono nelle acque dolci, dal 1970 al 2014, è diminuita dell’83%. La correlazione fra l’aumento della temperatura media globale e l’intensificazione della violenza degli uragani non è più una mera ipotesi, ma una realtà scientificamente dimostrata. Oltre agli altri noti sconvolgimenti, il disgelo dei ghiacciai potrebbe rappresentare la causa scatenante di una nuova potenziale minaccia: la dispersione di patogeni nell’ambiente, come nel caso dei 33 gruppi virali (28 dei quali sconosciuti) intrappolati da millenni nel ghiaccio del Guliya in Tibet.

Per circa 25 anni novembre è stato il mese della periodica Conferenza delle Parti dell’accordo internazionale determinatosi con la United Nations Framework Convention on Climate Change (UNCFFF), firmato a Rio nel 1992, entrato in vigore con la primavera di due anni dopo, il 21 marzo 1994. I firmatari erano 165 nazioni, al momento attuale hanno ratificato la convenzione 196 “parti” (Stati) dell’Onu. La prima Cop si svolse a Berlino dal 28 marzo al 7 aprile 1995, la seconda a Ginevra dall’8 al 19 luglio 1996 (vi partecipai in rappresentanza del governo italiano, come anche alle successive quattro, poi ad alcune altre con differenti mandati, parlamentari o regionali o Onu), la terza a Kyoto dall’1 al 13 dicembre 1997. Dopo di allora, con rarissime eccezioni, è stato novembre il mese più interessato dalle circa due settimane dei periodici incontri intergovernativi (spesso previsti anche o protrattisi fino a inizio dicembre) per fare il punto sulla riduzione delle emissioni e sulle politiche di adattamento. Cop25 si è svolta a Madrid dal 2 al 13 dicembre 2019. Appare fin d’ora prevedibile che a Glasgow nel dicembre 2021 Cop26 prenderà tristemente atto della conclusione del vigore del Protocollo di Kyoto del 1997 e tenterà anche di fare il punto sulla precaria inadeguata attuazione dopo sei anni dal successivo Accordo di Parigi della Cop21 nel 2015. Come è noto il negoziato climatico non è finora progredito con buoni risultati concreti e gli scenari restano drammatici. In questi anni pochi Stati hanno mantenuto impegni o promesse per tagli più consistenti alle proprie emissioni e per efficaci piani di mitigazione e adattamento. Comunque, in ognuna delle annuali (spesso ripetitive e inconcludenti) conferenze ufficiali, alcune riunioni istituzionali e vari eventi paralleli sono stati dedicati ai molteplici diacronici fenomeni migratori connessi al riscaldamento del pianeta.

L’urgenza di una convenzione quadro per contrastare gli effetti delle eccessive emissioni di gas serra (riscaldanti e inquinanti il pianeta) era in larga parte derivata dalla pubblicazione nel 1990 del primo rapporto dell’IPCC (International Panel on Climate Change). L’IPCC è un organo intergovernativo di consulenza scientifica dell’ONU, costituito nel 1988 attraverso un’iniziativa promossa dalla World Meteorological Organization (WMO) e dall’UN Environment Programme (UNEP) per coordinare i risultati della letteratura scientifica disponibile, attraverso il contributo di esperti e scienziati. L’IPCC non conduce ricerche in proprio né effettua osservazioni climatiche autonome. Valuta analisi e ricerche sul climain modo trasparente e obiettivo, con rapporti di periodicità non contingente (variabile, prima ogni 5, poi ogni 6, poi ogni 7 anni), e fornisce, su specifica richiesta, pareri scientifici, tecnici e socio economici alla Cop dell’UNFCCC (e dal 1998 del Protocollo di Kyoto) o alla Conferenza delle Parti di altre Convenzioni ONU. Le attività sono svolte da tre gruppi di lavoro: Gruppo I – scienza del clima; Gruppo II – impatti, vulnerabilità e adattamento ai cambiamenti del clima; Gruppo III – mitigazioni dei cambiamenti climatici e questioni socio economiche, costituiti da migliaia di ricercatori scelti per i loro meriti scientifici, principalmente sulla base delle proposte presentate da governi, accademie e istituti. I gruppi interagiscono con altri scienziati e ricercatori attraverso i punti focali nazionali. Il lavoro svolto dagli studiosi subisce poivarie successive revisioni scientifiche (sia da parte di esperti governativi che da parte di esperti indipendenti) prima di essere discusso e approvato dall’Assemblea Plenaria. I volumi del V° rapporto uscirono fra il settembre 2013 e il novembre 2014, quelli del VI° erano previsti per il 2021, usciranno invece nel corso del 2022, sempre causa pandemia.

Accenni alle migrazioni forzate connesse ai cambiamenti climatici vi sono in tutti i rapporti finora pubblicati dall’IPCC, ovviamente rintracciabili soprattutto nei materiali del secondo gruppo di lavoro, laddove si studiano la vulnerabilità e l’adattamento delle specie, compresa la nostra. La scala temporale dei tre gruppi è elemento rilevante: il primo deve andare molto indietro nel tempo, verso antiche generazioni anche di altre specie; il secondo descrive fenomeni contemporanei, eventi delle attuali generazioni; il terzo deve prevedere scenari per le future generazioni, sulla base del passato ricostruito e del presente descritto. Ognuna di queste scale temporali è radicalmente diversa da quella della politica e delle scelte istituzionali (purtroppo). Il primo rapporto IPCC (1990) inaugurò, dunque, il riconoscimento del nesso cambio climatico – migrazioni. Nel rapporto del secondo gruppo di lavoro sugli impatti potenziali si affermava che uno dei più gravi sarebbe stato proprio quello della mobilità umana, della migrazione dei popoli, milioni di persone displaced da erosione costiera, inondazioni, degrado agricolo. Il secondo (1995) ribadì il nesso, enfatizzando l’enorme probabile dimensione quantitativa, con un forte richiamo alle prime analisi e proiezioni sugli environmental refugees già esistenti. Il terzo insisteva soprattutto sul rischioso intreccio ulteriore: cambio climatico – migrazioni – instabilità e conflitti; del resto uscì nel 2001, l’anno dell’11 settembre e, da allora, ogni questione fu analizzata prioritariamente in termini di sicurezza. Il quarto (2007) parlava diffusamente di migrazioni forzate per le specie animali (pesci e uccelli). La migrazione degli uccelli è un impatto (very high confidence), legato all’anticipo della stagione primaverile. La migrazione dei pesci fluviali e marini è un impatto (high confidence) legato al riscaldamento anticipato delle acque. Le migrazioni umane forzate erano pure segnalate e si accennava anche all’evidenza del nesso tra conflitti etnici e cambiamenti climatici. In altre parti si faceva spesso riferimento alle comunità inondate, delocalizzate, evacuate, forzate a migrare, con numeri enormi, soprattutto nei sistemi costieri, nelle aree a crescente siccità e/o scarsità d’acqua, con ovvi continui riferimenti all’Africa (anche all’Asia e all’Australia). Che i rifugiati climatici esistono a causa dei cambiamenti climatici antropici globali è, insomma, un dato acquisito a livello del sistema dell’Onu dedicato alle tematiche ambientali, ecologiche e scientifiche.

Per avere stime quantitative dei rifugiati climatici e, più in generale degli ecoprofughi, occorre studiare quanto prodotto sia dal sistema dell’Onu che si occupa del fenomeno migratorio, dipartimenti statistici ed economico-sociali, agenzie dedicate ai refugees e organizzazioni internazionali connesse, sia dal mondo delle scienze sociali dei singoli Stati e internazionale. In questi due primi decenni di inizio secolo e millennio sono usciti molti studi accreditati comparati, ne ho parlato spesso in volumi e saggi specifici. Ormai si sa che il numero dei rifugiati climatici è ogni anno di gran lunga superiore a quello dei rifugiati per persecuzioni e guerre. Inoltre, quasi ogni paese conosce ulteriori delocalizzazioni dovute a inquinamenti e disastri, o trasferimenti forzati per scelte urbanistiche e produttive, che riguardano internally displaced people e infoltiscono la schiera degli ecoprofughi. Oggi la pandemia da Covid-19 non ha solo fatto rinviare Cop26 e IPCC Report6, ha soprattutto limitato libertà e possibilità di spostamento, imposto a tanti di noi di restare a casa propria, in tutti i sensi. Ciò non vuol dire che sono meno di prima le persone costrette a fuggire da eventi estremi meteorologici o geomorfologici, oppure da persecuzioni e guerre. A giugno 2020 l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati ha diffuso i dati relativi al 2019, la tendenza alla crescita persiste, vedremo a giugno 2021 quelli relativi al 2020 della pandemia. Purtroppo, molti dati e commenti non valutano il fenomeno migratorio nel suo insieme, ponendo perlopiù l’accento solo sulle immigrazioni, forzate o un poco più libere che siano.

Tutte le analisi recenti sugli effetti dei cambiamenti climatici antropici per le migrazioni forzate confermano il quadro descritto nel passato: il riscaldamento ubiquitario e sincronico altera le abitudini migratorie delle specie in tutti gli ecosistemi; gli eventi meteorologici estremi sono più intensi e frequenti in ogni parte del globo, provocando sempre più decessi e fughe (si veda il 15° Global Climate Risk Index). Anche i fenomeni più lenti delineano scenari di future ingenti migrazioni di massa, sia l’innalzamento del mare (si vedano i dati 2020 dell’Istituto Idrografico della Marina italiana) che mette a rischio le comunità costiere anche del Mediterraneo, decine di milioni di donne e uomini, sia le siccità e la desertificazione incipiente delle aree già secche e parzialmente desertiche, soprattutto dell’Africa. Del resto, primi parziali dati sulle migrazioni forzate in corso (siano essi potenziali refugees o semplicemente altri profughi in fuga da effetti dei cambiamenti climatici, disastri ambientali, sete e fame, sviluppo insostenibile) non indicano un calo drastico rispetto a prima della pandemia, chi era in fuga da tempo vi resta e ciò comporta, ovviamente, sia emigrazioni che immigrazioni forzate. In Italia quest’anno gli arrivi di immigrati fino all’11 ottobre sono stati 25.693, un numero modesto, seppur in aumento, considerato che l’anno scorso nello stesso periodo erano stati 7.939. Gli Stati principali di emigrazione sono Tunisia (41%, via mare ovviamente) e Pakistan (16%, in genere via terra percorrendo la rotta balcanica), gli stessi del 2019. Ci sono meno persone immigrate provenienti dall’Africa subsahariana rispetto agli anni precedenti, comunque complessivamente la maggioranza delle persone che arrivano sono uomini (77%), le donne sono il 6% e i minori accompagnati il 4%, mentre quelli non accompagnati il 13%. Su tutto ciò, sui processi e sui negoziati, novembre 2020innoverà poco, non fa “tendenza”.

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