Raimondo Giustozzi
“C’è un giorno che ci siamo perduti / come smarrire un anello in un prato / e c’era tutto un programma futuro / che non abbiamo avverato” (Ivano Fossati).
“Chi ha tempo non aspetti tempo”, “Le ore del mattino hanno l’oro in bocca”, “Il tempo è denaro”. Sono alcuni proverbi popolari, tutti volti ad indicare l’utilità di un buon uso del tempo. Eppure, in queste settimane di paura, di angoscia e di trepidazione per la pandemia in atto, il termine sembra aver perso quei connotati che aveva prima di quello che stiamo vivendo. La fitta trama della nostra esistenza quotidiana si dipanava attraverso molteplici impegni. Si andava di fretta. Non era raro incontrare qualche persona con la quale fermarsi a parlare. Non sempre era possibile. Ci si sentiva rispondere: Vado di fretta, vado stretto. Le espressioni stavano ad indicare che l’interlocutore aveva tempi ridotti, quasi contingentati. In un tempo durante il quale tutto è come sospeso, stiamo imparando invece altre cose. Non è più possibile nemmeno incontraci, pena il contagio. Forse, questa limitazione rimarrà anche quando tutto finirà e si spera quanto prima. Stiamo imparando che il tempo ha forse altri valori che non possono essere racchiusi solo in una dimensione economica e di profitto.
Là dove è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore. Il tesoro è nascosto nelle memorie del passato, quello dell’infanzia, della giovinezza e dell’età adulta. Il presente è incerto, il futuro ancora più fosco. Rimane solo il ricordo del passato fatto di gioie, di fatiche, di dolori, ma anche di traguardi raggiunti. Questo conosciamo. Ed è sempre dal passato che dobbiamo ripartire per ripensare alla strada percorsa. La solitudine, il distanziamento sociale, ci obbligano ad essere soli con noi stessi. Non sono limitazioni ma opportunità: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” (Sant’Agostino, la vera religione). Traduzione: Non uscire da te stesso, rientra in te, nell’intimo dell’uomo risiede la verità. “Ogni volta che sono stato in mezzo agli uomini, sono ritornato meno uomo” (Seneca. Epist. VII, 3). Le chiacchiere continue, le compagnie mutevoli di finti amici, spesso, fanno di noi quello che vogliono. Il silenzio è una cosa preziosa di cui non si può fare a meno.
Come sarà il futuro? Zygmunt Bauman, il sociologo della “società liquida”, in una lectio magistralis, tenuta venerdì 1° agosto 2014, dalle 21,00 alle 23,00, nella piazza della libertà, a Civitanova Alta, invitato dalla biennale di cultura, società e politica “Futura Festival”, rispose sostanzialmente che il futuro sarà come noi vogliamo che sia. Non nascondo che ci rimasi un po’ male. Tante parole per sostenere quello che il buon senso suggerisce ad ognuno, anche se non si chiama Bauman. Le magnifiche sorti progressive dell’umanità sono venute meno con due immani conflitti mondiali. Il dramma del Coronavirus e della conseguente crisi economica si aggiunge a queste tristi pagine del passato. Non solo il futuro è fosco ma anche il presente non lo è da meno. “Mala tempora currunt”. Viviamo giorni tristi.
Sulla stampa e in televisione le informazioni si accavallano, tanto che molti hanno coniato un neologismo, Infodemia, la sovrabbondanza di informazioni, quasi una epidemia diversa da quella reale. La notizia sulla fuga del virus da un laboratorio nella città di Wuhan ha un fondamento di verità? Emmanuel Macron, Angela Merkel, Donald Trump, tutti dicono che le autorità cinesi sono invitate ad essere trasparenti e a non nascondere la verità. Se a sostenere questa versione dei fatti sono capi di stato, cosa deve pensare la gente comune? Si fa presto ad avere pensieri cattivi. Se il Coronavirus è nato in natura, perché non lo si dice chiaramente? Lo chiedono i troppi morti, anziani e sono la maggioranza, ma anche giovani che ci hanno lasciato. Sta scomparendo tutta una generazione che ha conosciuto la guerra e passata la tempesta, dopo essersi rimboccata le maniche, è stata protagonista del miracolo economico, lavorando sodo. La sanità italiana e quella regionale deve fare chiarezza sui troppi decessi avvenuti nelle case di riposo (RSA). Gli operatori sanitari di queste strutture lamentano di essere stati lasciati soli di fronte all’emergenza. E’ vero?
Rileggere i classici al tempo del Coronavirus. I Promessi Sposi (A. Manzoni),
la peste (A. Camus), la Foiba Grande (C. Sgorlon).
Stando in casa, si ha tempo per riprendere in mano alcuni romanzi letti negli anni del Liceo, con particolare riferimento alle pagine dedicate alla peste: I Promessi Sposi, di A. Manzoni, la peste, di A. Camus, la Foiba Grande, di C. Sgorlon.
I Promessi Sposi (A. Manzoni)
“Renzo s’era appena avviato, che vide il padre Felice comparire nel portico della cappella, e affacciarsi sull’arco di mezzo del lato che guarda verso la città; davanti al quale era radunata la comitiva, al piano, nella strada di mezzo; e subito dal suo contegno s’accorse che aveva cominciata la predica” (A. Manzoni, I Promessi Sposi, capitolo XXXVI, pp. 597- 598, Roma, 2004). Nella terribile epidemia di peste che flagellò Milano e la Lombardia dall’autunno 1629 al maggio 1630, il Lazzaretto di Milano fu affidato alle cure dei padri cappuccini. Tra questi si segnalarono padre Felice Casati, noto per la vita caritatevole e molto stimato, coadiuvato nel lavoro da padre Michele Pozzobonelli, più giovane ma animato anche lui da fervore caritatevole. Molti religiosi si ammalarono e morirono. Anche padre Casati venne colpito dalla peste ma guarì e continuò a prodigarsi nella vita terribile del lazzaretto. Andava dove era richiesta la sua presenza, per testimoniare di persona la carità: “Per me, disse, e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero. Se la pigrizia, se l’indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevol tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandolo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica… Era la maniera d’un uomo che chiamava privilegio quello di servir gli appestati, perché lo teneva per tale; che confessava di non averci degnamente corrisposto, perché sentiva di non averci corrisposto degnamente; che chiedeva perdono, perché era persuaso d’averne bisogno. Ma la gente che s’era veduti d’intorno quei cappuccini non occupati d’altro che di servirla, e tanti n’aveva veduti morire, e quello che parlava per tutti, sempre il primo alla fatica, come nell’autorità, se non quando s’era trovato anche lui in fin di morte; pensate con che singhiozzi, con che lacrime rispose a tali parole” (pp. 599- 600). E’ un dovere di tutti ricordare medici, farmacisti, sacerdoti, infermieri che in queste settimane di tristezza indicibile sono morti per stare accanto agli ammalati.
La peste (A. Camus)
L’incipit del romanzo la peste di Albert Camus inizia così: “I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano, una città dell’Algeria”. Orano è colpita da un’epidemia inesorabile e tremenda, annunciata da una grande moria di topi. Isolata con un cordone sanitario dal resto del mondo, affamata, incapace di fermare la pestilenza, la città diventa il palcoscenico per le passioni di un’umanità al limite tra disgregazione e solidarietà. I temi del romanzo sono: la fede religiosa, l’edonismo di chi non crede nelle astrazioni, ma neppure è capace di “essere felice da solo”, il semplice sentimento del proprio dovere. L’indifferenza, il panico, lo spirito burocratico e l’egoismo gretto sono gli alleati del morbo. Tra i personaggi principali c’è il dottor Bernard Rieux, il medico che, al di fuori di ogni scelta politica o religiosa, trova nell’esercizio della sua professione la giustificazione del suo esistere: “Ho troppo vissuto negli ospedali per amar l’idea d’un castigo collettivo”. “Lei, crede in Dio”, chiede Jean Tarrou al dottor Rieux?”. “No, ma che vuol dire questo? Sono nella notte, e cerco di vederci chiaro. Da molto tempo ho finito di trovare originale la cosa”. “Perché lei stesso mostra tanta devozione, se non crede in Dio? La sua risposta mi aiuterà forse a dare la mia”, aggiunge Tarrou. “Senza uscire dall’ombra, il dottore disse che aveva ormai risposto, che se avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe trascurato di guarire gli uomini, lasciandone la cura a lui. Ma che nessuno al mondo, no, nemmeno Paneloux, che credeva di credervi, credeva in un Dio di tal genere” (A. Camus, la peste, pp. 96,97, tascabili Bompiani, marzo 2010). Il dott. Rieux si realizza nella lotta per strappare alla morte i suoi malati e si ribella contro l’assurdità della morte che non può accettare come espiazione: “Se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”. “Le vostre vittorie saranno sempre provvisorie”, replica Jean Tarrou. “Sempre, lo so. Ma questo non è una ragione per smettere di lottare”. Il gesuita, padre Paneloux, sconvolto dalla crudeltà degli avvenimenti, a un certo punto metterà in dubbio la validità della massima “sia fatta la tua volontà”. “Fratelli miei”, disse infine Paneloux dal pulpito, “l’amore di Dio è un amore difficile: suppone un totale abbandono di se stessi e il disprezzo per la propria persona. Ma lui solo può cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, lui solo in ogni caso può renderla necessaria, in quanto è impossibile capirla. Ecco la difficile lezione che volevo condividere con voi; ecco la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, a cui bisogna avvicinarsi” (Ibidem, pag. 176).
Anche padre Paneloux si unirà alle squadre di volontari che si danno da fare per aiutare quanti sono nella sofferenza, fino a morire di peste anche lui. Jean Tarrou è il viveur che, dopo un passato ricco di esperienze, si ribella alla società costituita e, volontario dei servizi sanitari per combattere l’epidemia, ne muore quando questa è stata pressoché debellata. Raymond Rambert è il giornalista straniero che si trova per caso nella città. Cerca con ogni mezzo di andarsene, ma infine resta e si unisce alle squadre di soccorso perché capisce che un uomo non può abbandonare altri uomini che soffrono. Accanto a questi personaggi principali si muovono altri secondari, ma non meno importanti: Othon, il giudice istruttore, Joseph Grand, l’impiegato che è alle prese con la stesura dell’incipit di un racconto che non riesce mai a terminare, Gottard, Castel, il dottore che riesce a confezionare il siero per mezzo del quale riuscirà a debellare la peste. La lotta contro il male è l’argomento di questa cronaca, che alla fine il lettore apprende essere opera del dottor Rieux. La peste sarà vinta, ma sul male che essa rappresenta non ci possono essere vittorie definitive. Un dramma collettivo dunque, la peste si riveste di un evidente significato simbolico, spinge i protagonisti del romanzo a cogliere i valori connessi all’esistenza umana: “Quello che s’impara in mezzo ai flagelli è che vi sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare”. E questi valori sono tanto più sostanziali e profondi quando si riferiscono all’essere umano come “l’altro”, come “il prossimo”. Sollecitato da una situazione esterna avversa, l’uomo scopre di essere accomunato agli altri uomini dall’esistenza di sentimenti e aspirazioni simili, a cominciare dal desiderio di reagire alla disperazione e alla morte.
La Foiba Grande (C. Sgorlon)
“La peste nera scoppiò molte volte nella nostra penisola, e si diffuse come l’olio, entrando nei vicoli dei paesi e delle città distesi a prendere il sole sulle coste rocciose, facendo macello.(…) Le città venete della costa languivano semispente, come per un terribile saccheggio dei pirati. L’anziano podestà di Capodistria, ricevute notizie dai suoi messi, si ficco le mani nei capelli… Sia Capodistria che il suo circondario erano estinti, e mancavano perfino le braccia per seppellire i morti”(C. Sgorlon, La Foiba Grande, pagg.7- 8, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1992).
Inizia così La Foiba Grande, uno dei più bei romanzi di Carlo Sgorlon (Casacco, 26 luglio 1930 – Udine, 25 dicembre 2009). “Mentre ero a metà del lavoro è cominciata la guerra civile tra i popoli slavi del sud, che in qualche modo ha risvegliato in molti i fantasmi di quei tragici fatti lontani”, scrive Sgorlon nelle nove righe di introduzione. Le pagine sulla peste che si abbatte come un flagello su tutta la penisola istriana è quanto mai attuale con la pandemia del Coronavirus di questi giorni che ci fa stare chiusi in casa in rispetto delle norme anti-contagio decretate dal governo.
“L’Istria stava morendo. Il podestà consumò due giorni a rimescolare pensieri nel macinino della mente, poi prese le sue decisioni. Era d’indole tenace, anzi ostinata. Scrisse due relazioni di suo pugno, che non facevano se non ribadire sempre daccapo l’idea che la penisola andava ripopolata in ogni modo, ma non disponeva di mezzi e persone per far pervenire i suo scritti a Venezia. Anch’egli, pur vivendo nel cuore del disastro, difettava di notizie e di collegamenti. Le voci correnti modificavano tutti i giorno il numero dei morti, e anche le vittime della vecchiaia, della renella o della gotta venivano introdotte nel registro della peste”(C. Sgorlon, La Foiba Grande, pagg.7- 9, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1992). Anche oggi, tanti deceduti per Coronavirus in realtà avevano molte altre patologie pregresse e sono morte non per, ma con il nuovo micidiale virus che sta falciano la popolazione mondiale. La storia si ripete.
Passata l’epidemia, le città dell’Istria iniziano a ripopolarsi per merito dell’anziano podestà di Capodistria. Umizza, piccola cittadina immaginaria, posta all’interno dell’Istria, poco lontana dal canale di Leme, epicentro della storia, torna a rivivere: “Artigiani dalmati o romeni, fieri e abili avevano sposato ragazze istriane, stiriane, carinziane, venute giù lungo i contrafforti carsici o dalle Alpi Dinariche e Caravanche, all’epoca di Maria Teresa. Il sangue della gente era molto mescolato. A Umizza tutti avevano una nonna croata o tedesca, un bisnonno ungherese, un prozio friulano o qualche ascendente che veniva dalle montagne dalmate. Benedetto Polo, l’uomo più singolare del paese, ricordava una bisnonna bellunese e un trisavolo raguseo” (pag. 13). Da Umizza e dai suoi abitanti, protagonisti del romanzo, inizia una nuova storia attraverso le due guerre mondiali fino al tragico epilogo degli infoibati e alla decisione dei pochi superstiti di etnia italiana di prendere la strada dell’esilio verso quella patria, l’Italia che si era dimostrata nei loro confronti troppo lontana e disinteressata sul loro destino. Ma di questo si parlerà in altri articoli tesi a costruire una biblioteca dell’Adriatico attraverso la recensione di altri romanzi e saggi.
Spigolature e altro
In questi giorni di tristezza, di affanni e di tribolazione mi piace proporre ai lettori alcune spigolature: l’ascolto del brano la storia simo noi, scritto da Francesco De Gregori e C’è tempo, di Ivano Fossati, interpretati da Fiorella Mannoia. Sono due canzoni laiche ma dense di tanta speranza. Il loro ascolto ci aiuta a immaginare il nostro futuro ancorato ai ricordi del passato. Sono coloro che non ci sono più ad aver scritto pagine di storia personale e collettiva.
La storia siamo noi. https://www.youtube.com/watch?v=N4tbUStH5EQ
“La Storia siamo noi / Nessuno si senta offeso / Siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo / La Storia siamo noi, attenzione / Nessuno si senta escluso / La Storia siamo noi / Siamo noi queste onde nel mare / Questo rumore che rompe il silenzio / Questo silenzio così duro da masticare / E poi ti dicono tutti sono uguali / Tutti rubano alla stessa maniera / Ma è solo un modo per convincerci / A restare in casa quando viene la sera // Però la Storia non si ferma davvero / Davanti a un portone / La Storia entra dentro le nostre stanze e le brucia / La Storia dà torto e dà ragione / La Storia siamo noi / Siamo noi che scriviamo le lettere / Siamo noi che abbiamo tutto da vincere e / Tutto da perdere / E poi la gente / Perché è la gente che fa la Storia / Quando si tratta di scegliere e di andare / Te la ritrovi tutta con gli occhi aperti / che sanno benissimo cosa fare // Quelli che hanno letto un milione di libri / insieme a quelli che non sanno nemmeno parlare / Ed è per questo che la Storia dà i brividi / Perché nessuno la può negare / La Storia siamo noi / Siamo noi padri e figli / Siamo noi / Bella ciao, che partiamo / La Storia non ha nascondigli / La Storia non passa la mano / La Storia siamo noi / Siamo noi questo piatto di grano” (Francesco De Gregori). Fonte LyricFind. Tutti fanno la storia, sia quelli che hanno letto un milione di libri, sia quelli che non sanno nemmeno parlare.
C’è tempo. https://www.youtube.com/watch?v=lwu4DCkMQE8
“Dicono che c’è un tempo per seminare / E uno che hai voglia ad aspettare / Un tempo sognato che viene di notte / E un altro di giorno teso / Come un lino a sventolare // C’è un tempo negato e uno segreto / Un tempo distante che è roba degli altri / Un momento che era meglio partire / E quella volta che noi due era meglio parlarci // C’è un tempo perfetto per fare silenzio / Guardare il passaggio del sole d’estate / E saper raccontare ai nostri bambini quando / È l’ora muta delle fate // C’è un giorno che ci siamo perduti / Come smarrire un anello in un prato / E c’era tutto un programma futuro / Che non abbiamo avverato // È tempo che sfugge, niente paura / Che prima o poi ci riprende / Perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo / Per questo mare infinito di gente // Dio, è proprio… // C’è un tempo d’aspetto come dicevo / Qualcosa di buono che verrà / Un attimo fotografato, dipinto, segnato / E quello dopo perduto via / Senza nemmeno voler sapere come sarebbe stata // La sua fotografia // C’è un tempo bellissimo, tutto sudato / Una stagione ribelle / L’istante in cui scocca l’unica freccia / Che arriva alla volta celeste / E trafigge le stelle / È un giorno che tutta la gente / Si tende la mano / È il medesimo istante per tutti / Che sarà benedetto, io credo / Da molto lontano / È il tempo che è finalmente / O quando ci si capisce / Un tempo in cui mi vedrai / Accanto a te nuovamente / Mano alla mano / Che buffi saremo / Se non ci avranno nemmeno / Avvisato // Dicono che c’è un tempo per seminare / E uno più lungo per aspettare / Io dico che c’era un tempo sognato / Che bisognava sognare” ( Francesco De Gregori). Fonte LyricFind.
La canzone d’autore, assieme alla lettura dei classici, è uno strumento indispensabile per nutrire il nostro animo con la nostalgia della bellezza che è in noi e accanto a noi, nonostante stiamo vivendo un tempo come sospeso.
Canzoni di ispirazione religiosa.
Cade proprio in questo anno il centenario della nascita di Chiara Lubich (Trento, 22 gennaio 1920 – Rocca di Papa, 14 marzo 2008), fondatrice del Movimento dei Focolari, aggregazione di ispirazione cattolica, diffusa in 182 paesi e che ha la propria sede principale a Loppiano, cittadella permanente situata nel comune di Figline e Incisa Valdarno, in particolare nella frazione Burchio e nelle località San Vito, Montelfi, Campogiallo e Tracolle, nella città metropolitana di Firenze, in Toscana. Tra le molteplici iniziative, proprio per impulso di Chiara Lubich, nel 1966, a Loppiano, nasceva il Gen Rosso, un gruppo musicale e artistico internazionale. Il sodalizio, ancora attivo, “vuole diffondere il messaggio della costruzione di un mondo più giusto, pacifico, solidale e unito. La testimonianza di questi valori viene direttamente dai componenti del gruppo e da tecnici e staff, che vivono in prima persona lo stile di vita di comunione e fratellanza legato all’esperienza del Movimento dei Focolari. Durante la sua attività, il Gen Rosso ha realizzato più di 1500 concerti e spettacoli, più di 250 tour in 53 nazioni, 81 album (nelle varie versioni) per un totale di 401 canzoni e oltre 4 milioni di spettatori, oltre a manifestazioni, raduni e workshop” (Fonte Internet, Wikipedia).
L’aggettivo Rosso messo accanto al nome Gen è per la prima batteria di color rosso, donata da Chiara Lubich al gruppo. Quando insegnavo presso la Scuola Media Mestica di Civitanova Marche, in un anno imprecisato, ho avuto la fortuna di conoscere di persona Valerio Lode Ciprì, l’autore di tanti testi scritti per il Gen Rosso e primo componente storico del gruppo. Era venuto per incontrare gli alunni. Conversai con lui sul corridoio della scuola. Trovai meraviglioso incontrarmi con l’autore di tanti testi che mi avevano accompagnato negli anni della mia giovinezza, tra tutti, Sono strade. Il testo è nel link qui sotto riportato.
Sono strade. https://www.youtube.com/watch?v=BAt9FEn_6mY
“Questa terra è piena di cose / Che tanti uomini possono avere. // Sono strade sulle quali cammino, / Sono frutti che posso mangiare, / fiori che hanno un colore / E il loro profumo mi può innamorare. // Sono voci, canzoni, poesie, / Sono gioie, lamenti e silenzio, / Sono uomini, donne e bambini, / Sono sguardi di vivi che posso incontrare. // E se qualcuno mi può dire: / A me non basta, voglio di più, / Io gli rispondo: sì, c’è un mondo / Ancor più grande che puoi scoprir. // C’è una terra fatta di cose / Che ancora pochi sanno vedere. / Sono strade sospese nell’aria / sono frutti di un altro sapore / fiori sbocciati per sempre / perché come fiori han saputo morire. // Sono voci, canzoni, poesie, / Che tu senti se in te c’è il silenzio. / Sono anime che sanno dire / Per chi sa ascoltare parole più vere // Sono strade sospese nell’aria / sono frutti di un altro sapore / sono fiori sbocciati per sempre / perché come fiori han saputo morire / sono voci, canzoni, poesie / che tu senti se in te c’è il silenzio / sono anime che sanno dire / per chi sa ascoltare parole più vere // sono strade sospese nell’aria / sospese/ frutti di un altro sapore / fiori sbocciati per sempre / perché come fiori han saputo morire / voci, canzoni, poesie / che tu senti se in te c’è il silenzio”(Gen Rosso). Fonte Musixmatch. Musica e parole incommensurabili. Altro che tristezza, come mi faceva notare una donna del tutto sciocca per non dire altro, tanti anni fa, quando ero all’università. Nel testo sono racchiusi i sogni propri di quanti vedono nella vita un dono ricevuto per farne dono agli altri. Tanti invece amano la vanità fatta di vuoto riempito dal nulla. Meglio essere un impenitente idealista che un arrivista tra tanti. Solo chi sa morire all’egoismo, innato nel cuore umano, sa amare.
Viaggio nella vita. https://www.youtube.com/watch?v=XWYxw8RYGoQ
“Avevo tanta voglia di viaggiare / Tu mi dicesti: vai ed io partii / Son vivo, dissi allora ad una donna, / a te, amico mio, pensaci tu. / Prendimi per mano, Dio mio, / guidami nel mondo a modo tuo / La strada è tanto lunga e tanto dura, / però con te nel cuor non ho paura. // Io sono ancora giovane Signore, / ma sono tanto vecchio dentro al cuore. / Le cose in cui credevo m’han deluso, /
Io cerco solo amore e libertà. // Prendimi per mano, Dio mio, / guidami nel mondo a modo tuo /
La strada è tanto lunga e tanto dura, / però con te nel cuor non ho paura. // Un giorno mi han proposto un altro viaggio / Il cuore mi diceva non partire. / Quel giorno ero triste e me ne andai, / la strada per tornar non trovo più // Prendimi per mano, Dio mio, / guidami nel mondo a modo tuo / La strada è tanto lunga e tanto dura, / però con te nel cuor non ho paura. // Prendimi per mano, Dio mio, / guidami nel mondo a modo tuo / La strada è tanto lunga e tanto dura, / però con te nel cuor non ho paura. // Per me è vicina ormai la grande sera, / il sole muore verso l’orizzonte / Io sento che il tuo regno è più vicino: / son pronto per il viaggio mio con Te. / Prendimi per mano, Dio mio, / guidami nel mondo a modo tuo / La strada è tanto lunga e tanto dura, / però con te nel cuor non ho paura” (Don Giosy Cento).
Anche questa canzone, cara a don Gabriele Gaspari, sacerdote salesiano, molto conosciuto a Porto Recanati come a Civitanova Marche, può accompagnarci lungo le strade della vita. E’ percorsa da una fede verso Chi ha parole di Vita Eterna. “Le cose in cui credevo m’han deluso”. Nella vita ci sono più domande che risposte. Queste vanno ricercate altrove. Anche chi ha fede attraversa spesso la notte del dubbio. Ce l’hanno detto i grandi mistici. La fede è un dono che al pari di altri doni va coltivato e tenuto stretto.
Raimondo Giustozzi
Invia un commento