di STEFANO BARDI
Bari, città di 319.482 abitanti dislocata su un territorio comunale che inizia a nord nella città di Giovinazzo e termina a sud-ovest, nella città di Loseto. Territorio il barese costituito da fasce pianeggianti denominate conche che si espandono fino nelle città di Capurso, Triggiano, Bitritto, Modugno e Bitonto. Città, Bari, accarezzata da un clima mediterraneo con inverni miti ed estati calde, afose e temporalesche; e basata sull’agricoltura orto-frutticola, sull’industria chimica, petrolchimica, tessile, meccanica e sui servizi informatico- elettronici e fieristico-commerciali. Città geo-territorialmente parlando costituita dalle Murge, ovvero, altopiani carsico-tettonici inizianti nel barese e terminanti nel territorio basilicatense della città di Matera. Territorio, il murgese, costituito da rilievi collinari calcareo-rocciosi, da doline, da gravine e più nel dettaglio la Murgia all’interno del territorio provinciale barese, è caratterizzata da rilievi montuosi al di sopra dei 600 metri di latitudine, dalla scarsezza dei fiumi e dalla presenza di corsi d’acqua sotterranei in grado di creare grotte, canali carsici e pozzi artesiani.
Città infine quella di Bari, che, come ci mostra il critico e accademico Daniele Maria Pegorari, è rappresentata da due principali correnti stilistiche. La prima corrente poetica è quella della poesia sperimentale nata alla fine degli anni Sessanta per arrivare fino ai giorni nostri ed è rappresentata, dai poeti Lino Angiuli e Francesco Giannoccaro. Poeta, il primo, che poetizza la sua natalità geografica, antropologica e psichica in chiave comico-irreale dove i reminiscenziali manufatti e gli intimi luoghi cari al poeta, si uniscono fra di loro per creare un nuovo mondo animato da ombre e corporalità inedite. Poesia inoltre la sua dai toni dialettali, dove il dialetto è concepito da Lino Angiuli come un gigantesco camposanto in cui la lingua italiana e il dialetto si fondono fraternamente fra di loro, in modo così da creare una nuova lingua poetica dai toni elegiaco-liturgici. Poeta, il secondo, che concepisce la poesia come un amicale cammino nel quale incontrare nuovi amici in grado di capire, patire, conservare gli altrui dolorosi patimenti spirituali, ma anche, come un desolato e triste pianto di ribellione contro la società dei suoi tempi governata dall’assenza dei valori etici, politici, sociali e sanitari. Un pianto, infine in grado di liberare gli intimi affetti del poeta imprigionati in emarginate, irreali, false e blasfeme tenebrosità sociali. La seconda corrente poetica, si basa sulla poesia del quotidiano e sulla poesia impegnata raccolte nell’esperienza della rivista barese “Vallisa” dal 1981 ai giorni nostri. Poesia questa rappresentata dalla lirica proletaria e operaia in chiave etica di Daniele Giancane, dalla poesia intesa come una fotografia della quotidiana decomposizione sociale di Enrico Bagnato, dalla poesia popolare in chiave angelico-evangelica di Anna Santoliquido e dalla poesia cosmica, antropologica, corporale e filosofica di Fortunato Buttiglione[1].
Accanto a queste due correnti poetiche, ne va aggiunta una terza basata sulla spiritualità e sulla carnalità trattata da un poeta sul quale niente o quasi niente è stato scritto, ovvero, il poeta, politico ed ex governatore regionale Nicola Vendola detto Nichi Vendola (Bari, 1958). Mandato politico che lo portò al governo della Puglia dal 2005 al 2015 e che fu contraddistinto dall’Apulia Film Commission che trasformò i porti di Bari e Lecce in cineporti, dall’utilizzo dell’energia eolica e solare, dalla mutazione del lavoro tradizionale in lavoro progettuale e dalla partecipazione dei giovani sui problemi locali attraverso l’utilizzo di tecnologie telematiche e di start up, in grado di dare immediate risposte e risoluzioni pratiche. Parole, che, devono essere affiancate da quelle sulla sua attività poetica dal 1973 al 2003 e ora raccolta, nell’opera omnia Ultimo mare del 2003.
Il 1983 è l’anno della raccolta Prima della battaglia contente le poesie, dal 1973 al 1983. Opera, in cui, la battaglia simboleggia il cammino terreno verso le braccia della Morte. Cammino, che, come ci mostra Nichi Vendola rivela ai nostri occhi la Vita per quello che in realtà è, ovvero, una nave popolata da spettri dagli occhi versanti calde lacrime, dalle nostalgie brumosamente[2] luminose e dalle carni musicalmente paradisiache[3]. Spettri, questi, che altro non sono che i riflessi della nostra anima dannatamente alla ricerca, di verginei e ambigui amori[4]. Spettri in poche che simboleggiano gli Uomini, poiché, condannati a conservare nel loro cuore i palpitanti, frenetici, passionali, fugaci, dolorosi amori da loro consumati durante la loro terrena esistenza[5] e ormai mutati in nostalgie dalle sacre parole e dalle infettanti lacrime, che, si lasciano stringere dalle calorose braccia della Morte[6]. Un’altra condanna per gli Uomini durante il loro cammino, è quella di vedere i propri sogni mutare in vacue, carnevalesche, anonime e decomposte fotografie dagli infettanti visi femminili versanti pianti colmi di ambigui, mortali e divini attimi esistenziali[7], ma anche, in flash-back capaci di mostrarci il terreno corpo come un mondo animato da depravate carni[8] e ansiosi profumi[9]. Carni infine che lanciano urla colme di un arcaico dolore in grado di uccidere i più luminosi, cristallini, verginei pensieri e allo stesso tempo declamanti canti purificatori, in grado di trasformare i nostri amori in chimeriche visioni durante l’eterno riposo[10].
Il 1997 è l’anno della raccolta La debolezza contenente le poesie, dal 1983 al 1997. Debolezza, qui poetizzata da Nichi Vendola, come la fragilità degli Uomini divisa in cinque sezioni: La debolezza, L’alba di poi, Angeli, Dissipazioni e Filo rosso. Fragilità declamanti timide e impaurite parole innanzi alla Morte, che, acceca furiosamente i loro taciti, ancestrali, cosmici e oceanici sguardi[11] che vengono accarezzati e schiaffeggiati nel loro lapidale silenzio, da un vento colmo di strazianti gioie[12]. Fragilità dalle brumose ombre e dall’incerto cammino pari al terreno cammino, poiché, com’esso segue le folli strade che conducono nelle braccia di colui che è per antonomasia il sovrano delle fugaci e mendaci esistenze, ovvero, Satana[13]. Fragilità infine, dalla paurosa voce che si nutre dei suoi stessi dolori e psichedelica allo stesso tempo, in grado di infettare le verginità, le cristallinità e le puerilità della sua anima[14]. Debolezze quelle umane, che, secondo Nichi Vendola non sono solo destinate al male assoluto e al patimento più lacerante, ma anche, alla divina purificazione in modo così da poter rinascere in dilucoli[15] bagnati da umide brezze, in grado di far fiorire a nuova vita rimpianti cosmico-ancestrali[16]. Dilucoli, qui poetizzati da Nichi Vendola, come dei Mondi non illuminati da intensi colori e animati da palpitanti emozioni, ma, come universi popolati da scheletrici fiori d’acciaio, coccolati da funerei requiem in grado di mutare i timidi sogni in sanguinanti, casti, depravati incubi e abitati da angeli dalle cineree chiome, dalle velenose carezze, dagli schizofrenici aneliti e dal dissanguato spirito pari ad uno scarnificato campo di grano. Anima, quella degli angeli vendoliani, in eterno cammino all’interno di riflessi che riproducono abbracci e pianti di commiato intrappolati, in interminabili viaggi di spettrali velieri[17]; e angeli dalle membra emananti aspre, dolci, fuligginose e blasfeme ombre rappresentanti perfette nudità terrene del tutto estranee ai loro velati sguardi[18]. Membra infine destinate a consumare la loro patetica esistenza in un cammino di sangue che muta le loro reminiscenze, in insipidi flash-back psichici, insignificanti ombre prive di vita e destinato a concludersi in un dolce, elisiaco e dolce commiato dalle reminiscenziali nostalgie diventate ormai affetti, parole, sguardi e voci insignificanti[19].
Il 2001 è l’anno del poemetto Lamento in morte di Carlo Giuliani dedicato all’attivista no-global deceduto il 20 luglio 2001, durante gli scontri del G8 a Genova. Poemetto dai toni neniosi, denunziatori, epici e antropologici allo stesso tempo, poiché, ancora oggi dopo diciannove anni dal G8 la città di Genova ci appare come un luogo governato dall’avido sangue della Legge che stuprò il sangue degli innocenti, spaccò le adolescenziali cristallinità, picchiò gli ingenui risi[20], ma soprattutto, uccise, bruciò, scarnificò, sconsacrò e infettò la Democrazia[21]. Cose ancor peggiori di tutte queste furono l’occultamento, l’omertà e il rinnegamento delle violenti azioni sulle spezzate ali di tanti ragazzi e ragazzi perché si ribellarono al potere totalitario dei celerini attraverso la pace, il silenzio e l’amore[22]. Legge sanguinaria e totalitaria da Nichi Vendola condannata attraverso la voce degli innocenti ingiustamente incarcerati, poiché, solo la loro voce è in grado di mostrarci che cosa sono in verità la Legge e l’universo dei celerini, ovvero, un universo composto a sua volta da vittime sottomesse ad un oscuro padrone dalla bocca avida di sangue e dallo spirito privo di emozioni[23]. Universo, quello di Genova, in cui ancora oggi il cadavere del giovane no-global Carlo Giuliani chiede giustizia per la sua dipartita, che, attraverso quest’opera simboleggia la conquista della Libertà sputata con orgoglio in faccia ai celerini e il celeste perdono dei suoi terreni peccati[24]. Cadavere infine, quello del giovane no-global romano, simboleggiante il corpo degli Uomini, ovvero, un universo animato da paure, eccitazioni, angosce, ferite, verginità e destinato a versare gioiose lacrime di dolore[25].
Il 2003 è l’anno della raccolta Ultimo mare inserita nell’opera omnia omonima sempre dello stesso anno, insieme alle raccolte poetiche fin qui analizzate. Opera, quest’ultima, dal poeta intesa come una guida di viaggio per gli Uomini attraverso i punti cardinali incominciando dalle estremità profumate di morte e di silenzio[26] per giungere alle ignude, misteriose, confuse ed erotiche quotidianità animate da incomprensibili partenze, umide assenze, ritorni chimericamente sterili, arrugginite emozioni, affannate fughe e scheggiate ombre del tutto irriconoscibili[27].
[1] DANIELE MARIA PEGORARI, La poesia in Terra di Bari in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009, pp. 154-156, 158-159, 161-163, 165-166.
[2] Con l’aggettivo brumosamente si rimanda alla nebbia.
[3] NICHI VENDOLA, Ultimo mare, San Cesario di Lecce, Manni, 2003, p. 119. “[…] Domani morirò con triste grazia. / Domani, ieri / e mordo nei ricordi. / Ai corpi vili, s’adattano gli accordi”.
[4] Ivi, p. 121. “[…] Ignaro di orologi / vago tra la palude ed il deserto / in cerca di cristalli / di rose. / Amo anche le ombre”.
[5] Ivi, p. 124. “[…] Tu che corri che fuggi che inciampi / che vivi”.
[6] Ivi, p. 127. “[…] Amor mio, amor mio / parlami ancora le tue parole d’incenso / e di neve struggenti / stringi questa mano che stringe la tua morte […]”.
[7] Ivi, p. 138. “[…] gocce di chemio / e di rimmel. / Questa donna che spacca il muso / pure gli angeli”.
[8] Ivi, p. 137. “[…] questo tuo corpo emigra / da lampione a lampione / senza tregua”.
[9] Ivi, p. 143. “Black-out dell’odore / e un letto che muore sudore. / Perle, schizzi di nulla: […]”.
[10] Ivi, p. 135. “[…] Il cerchio disperante / della roccia / si chiude attorno al tempo mio / che non ha tempo / come una spirale di nulla / che sfiora ma non rompe / la tua rotondità”.
[11] Ivi, p. 45. “[…] al collo meridiano dei silenzi / al punto estremo della mia / radice”.
[12] Ivi, p. 47. “[…] al battito di brezza / del lutto permanente”.
[13] Ivi, p. 51. “[…] a passi svelti / come un’impostura”.
[14] Ivi, p. 57. “[…] di fughe di cicoria e anfetamina / è come sfinge sotto un temporale: / finge, seduce e – sibillina – / alla Nube sacrifica i ragazzi”.
[15] Dilucoli = sinonimo di albe.
[16] Ivi, p. 63. “[…] Germogliano rimpianti / mattutini”.
[17] Ivi, p. 94. “[…] di specchi / vorticosi / narciso mio / straniero / tramonto e congettura / d’un veliero”.
[18] Ivi, p. 96. “[…] dei nudi corpi in nuda prospettiva / lungo una gotica siepaglia […]-[…] (arato amato annerito / rinnegato)”.
[19] Ivi, p.112. “[…] Sognare, forse Nino / come perduto dentro il suo maglione / come fanciullo dentro un’equazione / e gli occhi gli occhi / dopo ogni perché”.
[20] Ivi, p. 21. “[…] la morte all’imbrunire / lontano dal cancello / chiuso dentro l’imbuto / di un altro carosello / di carri armati e irati / di un celerino a uccello / ti spezzano i carati / del sogno tuo degli anni / l’ora del manganello / rintocca nei tuoi panni / l’ostia di nuovi giorni / si frange a questo luglio […]”.
[21] Ivi, pp. 28-29. “[…] Una maglietta sporca / Un grido senza soglia / Cova una morte porca / La sua più viva voglia / Lasciate questa stanza / Lasciate i ragazzini / Lasciate quei capelli / Lasciate gli orecchini / Lasciate gli occhi belli / L’idrante non li spegne / Piange il termosifone / Mattanza dei calzini / Urlano i rubinetti / Crocifissi assassini / Scappano le pagelle / Inciampano i volantini / Volti di casco nero / Guanti senza più tatto / Spezzare braccia al pero / Pisciare in faccia al gatto / Strappare i riccioloni / Ammutolire il matto / Al Diaz questi bambini / Imparano lo sfratto / L’igiene dei celerini / Il fascio al suo contatto […]”.
[22] Ivi, pp. 31-33. “[…] Grida non supplicare / Vola con le falene / Nudo da scorticare / Nella palestra oscura / Morire di paura / Ore da cavalcare / Sibila triste notte / Tenebra muta e botte / Sull’occhio tumefatto / Dal guanto che ti fotte / Olfatto / Non sentire / Il sangue che raggruma / La vita e le sue spire / La fine a spuma a spuma /Mamma vieni che sfuma / L’alba delle mie ire / Mi sento di morire / Mi portano lassù / Nel bianco corridoio / In piedi a nessun gesù / Ecco ora muoio muoio / Mamma non vieni più / Mi strappano gli anelli / Mi segano nel cuoio / Ancora manganelli / Presto presto che muoio / Mi sputa nella bocca / Mi sputa nella bocca / Mi sputa nella bocca / Saliva d’albicocca / Saliva che mi fende / Straripa tra le tende / Ogni mio corpo tocca / Tracima ficca offende / Saliva come un veto / Nell’atrio a Bolzaneto / Che lenta al dopo ascende / Guardiana nel pineto / Rotoli come onde / Di un mare scolorato […]-[…] Lasciami tacere / Lascia ch’io non ti veda / Ascia ascia e colpire / La nuca il mento il cuore / È lunga lunga strada / Io non cammino più / Mi fermo a Bolzaneto / Non grido e scendo giù”.
[23] Ivi, p. 34. “[…] Fuori i carabinieri / limano questo conto / secchi di detersivo / per ripulire il tiro / truccando la cartella. / Ti miro / sentinella / ad occhi chiusi; / io gli abusi / non dico […]”.
[24] Ivi, p. 27. “[…] non dire al carabiniere / cos’è la verità / morta con l’estintore / è un guizzo d’autorità […]-[…] nel cielo tuo a spirale / nella tua morte lesta / nel lutto che ci desta / al corpo tuo che sale”.
[25] Ivi, p. 37. “[…] Una vita a rincorrersi piano / con il panno piegato nel sole / con un lieve rintocco di viole / poi non piangi il dolore che duole”.
[26] Ivi, pp. 15-16. “[…] le ossa dei bambini disseccati / i nostri geroglifici laccati / delle macerie all’ora della cena / la polvere da sparo e le trielina / il cielo imploso e rosso e bianco e nero / e questo rutilante cerchio assiro / che chiude i conti dell’eternità […]-[…] quando resta la nostra carcassa / tu ti calcoli un rapido sonno […]”.
[27] Ivi, p. 18. “[…] Fu un secolo avvolto nel telo / di troppe partenze spartite partite / sparite / e ritorni penitenze astinenze / dal sogno. / Giorni di bassa marea / di astri ossidati nel volo / di corse braccate dall’asma / a sgranare le ombre di sabbia […]”.
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