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Il Socrate cristiano, saggio su Filippo Neri.

Fonte internet

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di Raimondo Giustozzi

Vanità delle vanità, tutto è vanità.

È accaduto agli uomini veramente sapienti ciò che accade alle spighe di grano: esse si elevano e si innalzano, la testa dritta e fiera finché sono vuote; ma quando sono colme e pregne di grano nella loro maturità cominciano a diventare umili e ad abbassare il capo” (Michel De Montaigne). “La sola saggezza che possiamo sperare di ottenere è la saggezza dell’umiltà” (Thomas Stern Eliot). “L’essenza della Filosofia è lo spirito di semplicità” (Henry Bergson). Sono tre citazioni messe dal prof. Gennaro Cassiani a introduzione del suo saggio Il Socrate cristiano, saggio su Filippo Neri (1515- 1595), edizioni Campano, Pisa, 2009.

Il libro, in brossura, di duecento otto pagine, è diviso in sei capitoli, preceduti da una breve introduzione. I sei capitoli sono: Maschere di “ineptia” e “fatuità”, in guisa “un altro Simon Salo”, un “gymnasium” dell’arte della vita secondo il Vangelo, a me stesso la “terapia” della scrittura introversa, “Adesso mi acconcio bene”. Ostensioni di ineptiafatuitas con regia ascetica e sentimento del contrario, ea quae rudibus annis imbibimus, quelle cose che abbiamo imparato negli anni infantili, chiudono il libro.

Noterelle.

Le inezie (ineptia in latino) sono cose fatte, proprio da uomo sciocco, inetto. La fatuità (fatuitas in latino) è la frivolezza, tipico di una persona fatua, superficiale, insignificante, inconcludente sul piano pratico. Simon Salo era un eremita orientale che amava passare da uomo stravagante e pazzo nei comportamenti. Il Ginnasio (Gymnasium in latino) è un termine ricco di significato, nel nostro caso sta per l’arte da apprendere, per vivere secondo il Vangelo. L’ostensione, dal verbo latino ostendere – mostrare, è mettere in mostra qualcosa da esibire alla vista degli altri. L’espressione ea quae rudibus annis imbibimus sta per quelle cose che abbiamo assorbito nei primi anni di vita.

Il titolo del libro “Il Socrate cristiano, saggio su Filippo Neri (1515 – 1595)” è la riproposizione di quello dato da Federico Borromeo nel Philagios. Scrive, infatti, il porporato milanese: “Si poteva dire ch’egli fosse un Socrate cristiano”. Filippo Neri, come Socrate, non ha lasciato scritto nulla. Sono stati i suoi figli spirituali che hanno parlato di lui, delle sue attività, del suo pensiero, durante il processo di canonizzazione. Filippo Neri è un personaggio atipico nel senso classico del termine greco (traslitterato in a- topos), senza luogo, fuori posto, dunque strano, assurdo, inclassificabile, sviante. nel caso di Socrate è stato il suo discepolo Platone a tramandarci il suo pensiero. Filippo Neri come Socrate non erudisce, ma alleva i propri discepoli. Ambedue costituiscono l’amalgama integrale tra vita e pensiero. Si offrono come mediatori tra la realtà umana e la vita ideale.

Dice l’Ecclesiaste: Vanità delle vanità, tutto è vanità”. Giacomo Leopardi nel canto A se stesso traduce il Vanitas vanitatum con “L’infinita vanità del tutto”. Francesco Guccini in Dio è morto smaschera tutte le falsità di cui è circondata la nostra vita: “Il perbenismo interessato / la dignità fatta di vuoto / l’ipocrisia di chi sta sempre / con la ragione e mai col torto”. Il cantautore di Pavana va insomma più in là della vanità. Il Sabatini Coletti, dizionario della Lingua Italiana definisce la vanità come “compiacimento di sé, che si concretizza nel desiderio di essere ammirato per le proprie qualità, spesso solo presunte”. Continua lo stesso vocabolario dicendo che la vanità è un’intima debolezza. Spesso si usa lusingare la vanità di qualcuno. Tra tutte le tentazioni, credo che la vanità sia la più immediata. In ognuno di noi si nasconde il desiderio di voler piacere a tutti, nonostante i propri limiti caratteriali. Chi dimostra scarsa socievolezza e disponibilità nei confronti del prossimo innalza sempre tra sé gli altri una barriera. Anche lui, anzi forse più di tutti, è tentato dalla vanità. L’irascibile, scontroso e lunatico non si mette mai nei panni dell’interlocutore che a forza di sopportare tutte le bizze del primo alza su i muri anche lui. Il risultato è l’incomunicabilità.

Fatterello.

Don Lorenzo Milani, nel libro Esperienze Pastorali amava dare vigore alle proprie idee ricorrendo alla narrazione di piccoli fatti. Fatterelli, infatti, era il titolo che dava ad alcuni racconti. È quello che vorrei fare anch’io. In una non meglio precisata parrocchia, qualche anno fa, in un giorno di fine gennaio, piovoso e con un vento da tramontana gelido, il parroco, microfono in mano, dice da un palchetto improvvisato, piantato in aperta campagna in mezzo al terreno imbevuto d’acqua: “Voialtri non me potete vedé ma sulla pergamena c’è scritto il nome mio”. È in atto la posa della prima pietra per la costituenda nuova chiesa. Ma uno ha proprio bisogno di dire questo davanti ad un pubblico indistinto che non vedeva l’ora di andare a casa per il freddo intenso? I rapporti tra le persone sono dettati da un me potete vedé e non me potete vedé? È il desiderio tipicamente femminile di dover piacere a tutti. Vanità delle vanità, tutto è vanità. Oppure quello stesso parroco era in quell’occasione un grande dissimulatore come san Filippo Neri.

Filippo Neri filosofo esistenziale (Introduzione)

Filippo Neri, padrone di un linguaggio immaginifico e lirico nello stesso tempo, amava passare da una trattazione su Tommaso di Kempis a Taulero con estrema facilità, mentre chi lo ascoltava, pendeva dalle sue labbra. Eppure, giunto al termine del proprio percorso terreno, ordinò di bruciare il proprio archivio privato, pensando che tutto ciò che poteva anche adombrare una qualsiasi vanità doveva essere distrutto. Altro che gloriarsi perché uno trova scritto il proprio nome su una pergamena. Vanità delle vanità, tutto è vanità: le opere, le pergamene, il potere, l’autorità, il ruolo che uno occupa nella scala sociale. Filippo Neri s’intendeva di astronomia, usava l’astrolabio, amava circondarsi di quadri con soggetto religioso, scriveva sonetti, educava alla musica chi frequentava l’oratorio. Aveva musicato lo Stabat Mater di Jacopone da Todi. Indirizzava lettere a persone del proprio tempo. Spesso non le spediva mai perché ci trovava sempre qualcosa d’insignificante. Era in grado di orientare lo gnomone dell’orologio solare che era solito disporre sull’altare dove celebrava la messa mattutina. La biblioteca dell’oratorio era dotata di tremila volumi. Leggeva Euclide, Aristotile, Boezio, Alessandro Piccolomini, Gregorio Morelli, Giovanni Padovani. Eppure non mise mai in mostra il proprio sapere. Solo chi è consapevole di non sapere è il saggio per eccellenza. Sapere viene dal verbo latino sapio, significa dare sapore, come il sale lo dà alle vivande. Il sapere dà sapore alla vita, diversamente è solo saccenteria e ce ne sono di saccenti, arroganti, prepotenti, presuntuosi e anche ciucci. Vanità delle vanità, tutto è vanità. Lo dice L’Ecclesiaste o Qoèlet.

Nello studiolo di Filippo Neri furono trovate monete, era un eccellente numismatico, mappamondi, lenti d’ingrandimento, medaglie, orologi, pitture, bassorilievi, le famose sfere d’ottone costruite da lui stesso, per scaldarsi le mani nelle notti d’inverno, mentre leggeva libri al chiaro di luna. Il sacerdote era uomo di vasta cultura ma amava anzitutto nascondere quello che sapeva e non gloriarsene. Nel proprio studio, quando era solo, a notte tarda, leggeva e lavorava, ma nelle ore del giorno era qui che riceveva tutti i suoi figli e tutta la gente che andava da lui per una parola di conforto e di aiuto. Una nota costante della sua personalità era la riservatezza, come si conveniva ad un grande confessore. La carità, esercitata in mille modi, era la traduzione della semplicità evangelica, prova di umiltà per lui che la praticava e edificazione per chi la riceveva. Federico Borromeo, uno dei suoi figli spirituali a lui più legato, è stato definito dagli studiosi eclettico, singolare, sincretistico, versatile, poliedrico, enciclopedico, complesso e enigmatico. Le caratteristiche del porporato milanese erano le stesse del santo fiorentino.

Maschere di ineptia e fatuità (Primo capitolo)

Le bizzarrie di Filippo Neri erano note ai romani del suo tempo. Saltava i gradini delle chiese due o tre alla volta, andava in giro vestito in modo dimesso, tonaca nera e scarpe bianche, portava i capelli e la barba rasati solo a metà, qualche volta aveva un cuscino turchino in testa, mentre annusava un mazzo di ginestre. Recitava versi profani al cospetto di ecclesiastici, “altre volte, come stralunato, saltellava balordamente in presenza di uomini di rango, di cardinali e alti prelati; toccava altresì il menti di uomini e dame, menava schiaffi, tirava barbe, appoggiava i suoi occhiali sul naso delle signore” (G. Cassiani, ibidem, pag. 23). L’umiltà intellettuale gli imponeva di simulare d’avere poco senno. Faceva questo per inibire le manifestazioni di riverenza che molti avrebbero voluto manifestargli, incontrandolo per strada o a casa. Molti lo ritenevano santo quando era ancora in vita. Voleva insomma che tutti lo considerassero come una persona normale. Disprezzava la gloria e gli onori e riteneva di dover comportarsi proprio così in una città dove tutti ambivano ad essere riveriti. Voleva passare per sciocco e inetto perché era l’unico modo per pensare alle cose dello spirito. Questo emerse in tutte le testimonianze rese nel processo di canonizzazione.

In guisa di un altro Simon Salo (secondo capitolo)

Le stranezze nel vestire e nei comportamenti sembrano rimandare alla figura del buffone presente nella tradizione burlesca popolare già in voga nel medioevo. Filippo Neri conosceva molto bene il teatro popolare del proprio tempo e quello dei tempi passati. Cesare Baronio, uno dei suoi figli spirituali, ritiene che questo modo di comportarsi fosse in linea con quanto San Paolo scriveva nella prima lettera ai Corinzi: “Chi vuole essere sapiente divenga uno stolto”. Agostino Cusani, nel processo di canonizzazione di Filippo Neri, dichiarava che queste sue apparenti stranezze fossero la manifestazione della semplicità evangelica e della santità rusticana propria dei Padri della Chiesa. Pietro Giacomo Bacci, il primo biografo del santo fiorentino, andava oltre queste ipotesi. Riteneva che Filippo Neri, quando assumeva atteggiamenti che andavano contro ogni etichetta dettata dalle buone maniere, “Agiva a similitudine di Simone Salo, a guisa di un altro Simone Salo, ovvero del siriano Simone di Emesa (oggi Homs), figura di spicco tra i monaci folli, idioti, ebbri del IV – VI secolo d. C., molto celebri per le loro follie nella folla: quelle tipiche misure di isolamento nella moltitudine adottata dagli eremiti cristiani orientali nel momento in cui, lasciato il deserto, prese dimora in una collettività, dove l’idiozia era in grado di isolare più di una cella” (Ibidem G. Cassiani).

Riflessione di chi scrive. La città di Homs, risalente al 2.300 a. C. ottocentomila abitanti, in Siria, oggi è ridotta ad un cumulo di macerie a seguito della lunga guerra che sta insanguinando questa parte del mondo dal 15 marzo 2011. Ogni uomo libero deve sentirsi cittadino del mondo, non solo di Berlino, come dichiarava J. F. Kennedy. L’indignazione deve prevalere sull’assuefazione, e sull’indifferenza. La guerra civile in Siria sta continuando più della seconda guerra mondiale, con distruzioni inenarrabili e perdite di vite umane, tra le quali soprattutto i bambini.

Simone è il servo occulto di Dio. Risana, profetizza, converte. Quando si accorge che questi doni ricevuti hanno l’approvazione del mondo, allora compie gesti tanto stolti e offensivi da innescare disgusto e violenta riprovazione. Diventa “salos” (traslitterato dal greco antico), idiota, sciocco e stolto: “Oltraggia religiosi e notabili, sgambetta i passanti, scaglia pietre, gesticola convulsamente. Se oltrepassa il portale di una chiesa lo fa solo per disturbare la liturgia; appena può si rimpinza a crepapelle di pasticceria, s’ingozza di lupini. Eccentrico, sbracato, gioviale e brutale è un provocatore che vuole rovesciare l’attività edificante” (G. Cassiani). Filippo Neri conosceva assai bene tutte le vite dei Padri del deserto e con lui il cardinale Federico Borromeo il quale elogiava oltre ogni misura i folli per Cristo, egiziani e siriani. Su questo filone si innestava l’amore per la filosofia greca, soprattutto quella socratica. Sapere di non sapere era già l’apertura alla visione cristiana della vita e la rotta da percorrere.

Un Gymnasium dell’arte della vita secondo il Vangelo (terzo capitolo).

In questo terzo capitolo il prof. Gennaro Cassiani sviluppa la tesi dell’Oratorio fondato da Filippo Neri come il luogo (Gymnasium) della Filosofia Cristiana, “dedicato alla cura dialogica dell’anima situato sul lungo itinerario segnato da scomparse (o, più propriamente, andamenti carsici) e successive riapparizioni alla luce del sole dell’antica concezione dello sudium sapientiae come “modo di vivere” cristiano, arte della vita cristiano, mestiere di vivere secondo il dettato evangelico” (G. Cassiani, ibidem). L’Oratorio di Filippo Neri è stato sempre visto come l’esperienza di un umanesimo cristiano. La definizione, sostiene lo studioso, è fuorviante. La Vallicella non era un cenacolo culturale ma luogo dove si incontravano le anime attorno a padre Filippo. Il nutrimento spirituale avveniva attraverso la lettura del vangelo, dei testi patristici, visti solo come strumenti per la riflessione. Quanti frequentavano l’Oratorio amavano soprattutto di Filippo Neri la conversazione garbata, condita da una sottile ironia.

A me stesso. La terapia della scrittura introversa (quarto capitolo).

Filippo Neri non ha scritto nessun libro sulla sua personale esperienza di Dio. Il novello Socrate ha fatto della propria vita un modello per i propri allievi. Deliberò di consegnarsi ai posteri sotto il manto del silenzio. Completamente assorbito ad incontrare anime, giudicò insensato rubare il proprio tempo per affidare il proprio fare pedagogico ad un testo scritto. Furono i suoi allievi che riordinarono i suoi detti e li raccolsero in piccoli volumi. Anche nel lungo processo di canonizzazione, i suoi figli spirituali, il cardinal Federico Borromeo in testa, si rifiutarono quasi sempre di affidare ad uno scritto quanto ricordavano del loro padre spirituale. In questa loro astinenza verbale è tutta la fedeltà verso il loro maestro. Il silenzio è imitazione della divinità, qui è tutto l’insegnamento di padre Filippo. Tutto ciò che va oltre l’umiltà, la prudenza e la carità non trova spazio nella scuola filippina. Questo non vuol dire condannare la pubblicazione di libri, ma non era nel loro costume farlo. Gli scritti di Federico Borromeo, sui quali il porporato milanese interviene di continuo quasi in un umiliante lavoro di cesellatura, sono appunti personali nei quali fissa i propri ricordi. E’ molto restio ad inviare un proprio scritto su Filippo Neri al processo di canonizzazione. Lo manda con ritardo. La parola scritta restringe, impedisce la ricerca della verità che nasce sempre da un dialogo. La scrittura introversa, quella che nasce dal dialogo con se stesso, è la sola foriera di verità.

Adesso mi acconcio bene. Ostensioni di ineptia – fatuitas con regia ascetica e sentimento del contrario (quinto capitolo).

Sembra che il Neri ripetesse a se stesso la massima di Bernardo di Chiaravalle: “Spernere mundum, spernere nullum, spernere se ipsum, spernere se sperni”. Secondo Antonio Rosmini, il distico va tradotto con “Spregiare il mondo, altrui non spregiare, spregiare se stesso, ma dispregiare anche l’aver a spregio se stesso”. L’invito a disprezzare di essere disprezzato (spernere se sperni) non voleva dire soltanto di non curarsi affatto dell’opinione che gli altri potevano avere sul proprio conto. Disprezzare di essere disprezzato voleva dire per Filippo Neri riuscire a disprezzare anche il medesimo disprezzo di se stessi, facendo dell’umiltà l’esatto contrario di un esercizio austero che autorizzasse la lusinga. Per il religioso fiorentino l’esercizio che i propri figli spirituali dovevano fare su se stessi era mettere a tacere l’orgoglio. Non bastava sottomettersi a digiuni e penitenze per fare esperienza di Dio. Percorrere questa strada portava ad una superbia che era l’esatto contrario dell’umiltà, quando non comportasse anche una complessione del proprio fisico. Credere di essere umile è il superbo, soleva dire Federico Borromeo, un suo figlio spirituale.

Filippo Neri non voleva che i suoi figli giudicassero le persone dal loro aspetto esteriore ma, vivendo in un mondo di maschere, quale era la Roma del suo tempo, dove ognuno recitava una parte che non era sua, anche lui si metteva addosso una maschera che aveva come obiettivo l’esatto contrario di quanto vedeva praticare dagli altri. Le sue stravaganze erano solo un mascheramento, non il fine ma un mezzo per mettere a tacere la vanità. Il grande dissimulatore seminava dubbi e incertezze che facevano deragliare i saccenti e i vanitosi.

Il mondo di maschere è anche quello in cui viviamo. Perché non proporre di ascoltare Cirano di Francesco Guccini? Chi vive di vuoto riempito dal nulla, potrebbe trovarvi delle risposte che smascherino la propria vanità. https://www.youtube.com/watch?v=T_wnAnIM3cw. E’ una proposta di chi scrive.

Ea quae rudibus annis imbibimus (capitolo VI).

I figli spirituali di Filippo Neri crescevano sugli esempi del maestro che sapeva coniugare la contemplazione di Dio e l’azione a favore dei fratelli. Era solito ripetere che andare in Paradiso non era cosa facile e che per giungere alla perfezione ci si doveva ammantare della discrezione. Il Filippino doveva essere un ministro della fede ben preparato intellettualmente, diffidente verso gli slanci profetici e visionari, nemico degli atteggiamenti cerimoniosi, uomo dalla parola asciutta e non discorsiva. Il Neri riteneva che la perfezione della vita spirituale poteva e doveva essere raggiunta dal prelato come dal padre di famiglia, dall’artigiano, senza separarsi dal mondo, praticando le virtù elementari della carità, della semplicità e della pazienza. Sono i primi rudimenti che impariamo, di cui siamo imbevuti (imbibimus) fin dai primi anni di vita. Nella spiritualità dei padri Filippini non c’è nessun tratto della Controriforma: tribunali, scomuniche e anatemi. Il padre fondatore pensava che la riforma della Chiesa non doveva portare alla creazione di un clero secolare separato dal popolo ma dal rinnovamento complessivo di tutto il popolo cristiano. In sostanza, mentre nelle chiese evangeliche, l’esperienza religiosa del credente veniva soffocata da limiti imposti dal principe e da leggi imposte da  nuove strutture territoriali confessionali (cuius regio eius et religio. I sudditi seguano la religione del proprio governante), Filippo Neri apriva alla modernità. Allacciava rapporti con tutti, senza mai toccare i dogmi e la pratica sacramentale, senza mai mettere in dubbio l’autorità, riuscì ad attirare a sé le anime come la calamita il ferro. Se Martin Lutero con la sua riforma aveva dato vita ad una nuova teologia, Filippi Neri aveva rivendicato il principio della libertà evangelica, come San Paolo e Erasmo da Rotterdam, rifacendosi alla tradizione cristiana delle origini, senza indulgere mai a forme di religiosità esteriore. Filippo Neri era un profondo conoscitore del filosofo olandese e di tanti testi messi all’indice dal Sant’Ufficio. Anche in questo si dimostra uomo e prete decisamente proteso verso la modernità.

Il libro di Gennaro Cassiani si chiude con una bibliografia sul santo fiorentino veramente vasta che restituisce alla ricerca la complessità e la poliedricità di San Filippo Neri. E’ un testo da leggere attentamente. Alcune pagine sono accompagnate da un apparato di note ben più lunghe e ricche del testo stesso.

Raimondo Giustozzi

 

 

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