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Dialoghi in corso. Negazionismo. Ma di che si tratta, esattamente?

Fonte MicroMega

Fonte MicroMega

Come si può combattere la menzogna storica? Con la galera? No. La morte dell’ultimo esponente provvisto di una certa notorietà del “negazionismo”, Robert Faurisson, offre l’occasione per ripensare a che cosa sia questa corrente ideologica più che storiografica, e alla battaglia da farsi.

di Angelo d’Orsi

Era nato nel Regno Unito, Robert Faurisson, nel 1929, da padre francese e madre scozzese; è mancato il 21 ottobre scorso. Anche da morto questo letterato fattosi storico e ideologo suscita riprovazione e ingiurie, ma del resto si può dire che oltre metà della sua lunga vita la impegnò in polemiche e provocazioni, lui che era stato un insegnante liceale modello e poi un buon docente universitario, che tuttavia imboccò presto la strada del negazionismo, ossia la teoria non tanto della inesistenza delle camere a gas e dei forni crematori ad Auschwitz, quanto del loro uso a meri fini “igienici”. E a seguire, la contestazione sui numeri della shoah, ricorrendo ad almanaccate valutazioni tecniche (le camere non erano abbastanza capaci per eliminare tanti individui, le bocche delle “docce” non abbastanza grandi, i forni per cremare i cadaveri non abbastanza potenti e così via…).
Tuttavia a Faurisson non spetta il “merito” di aver inventato la teoria negazionista.

Ma di che si tratta, esattamente?

In termini riassuntivi, è negazionista chi nega verità acquisite nella storia, che altro non sono che le verità accertate dalla storiografia, anche se non si può dimenticare che tutto il lavoro storiografico è fondato su una continua “revisione”, ossia un lavoro di aggiunta, correzione e rivisitazione di quanto accertato, in base all’acquisizione di fonti nuove, al perfezionamento delle tecniche della ricerca e anche alla soggettività dei singoli studiosi nelle diverse epoche: ciascuno, in sintesi, pone domande nuove anche a questioni “risolte”. Ma chi si colloca sul terreno negazionista, nega per partito preso, nega spinto da fini ideologici o direttamente politici, non certo perché la sua negazione trovi qualche appiglio documentale o testimoniale. Così come il revisionismo, pratica ideologica, si differenzia dalla revisione, che è come accennavo una pratica storiografica.
La verità su cui in particolare i negazionisti di accaniscono, appunto, è la pratica sistematica, “scientifica” e “industriale” di sterminio messa in atto dai nazisti contro gli ebrei (e contro i sinti e i rom, e ancora: slavi, omosessuali, Testimoni di Genova, “comunisti”, i primi a finire nei lager…). Un grande storico, Pierre Vidal-Naquet, che fu uno dei più tenaci avversari del revisionismo e del negazionismo, lo definisce come “ la dottrina secondo la quale il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli zingari non è esistito, ma appartiene al mito, alla diceria, alla truffa”.

Il movimento negazionista nasce nella Francia del Secondo Dopoguerra, prendendo le mosse da quanto, in precedenza, avevano prodotto due intellettuali filofascisti, Maurice Bardèche e Robert Brasillach (questi, condannato a morte per collaborazionismo con i nazisti). Essi non negavano l’esistenza dei lager, ma, preparando la strada a successive più decise negazioni, affermavano che le morti di prigionieri, di cui si aveva notizia, erano dovute a cause “naturali”: fame, epidemie, freddo, tutti fenomeni spiegabili con le condizioni non precisamente ospitali di un campo di internamento, condizioni che andavano peggiorando con l’avanzata delle truppe sovietiche (che sarebbero state le prime a entrare ad Auschwitz, com’è noto, e come troppo spesso si dimentica il 27 gennaio 1945). Attribuire tutte le “colpe” ai sovietici, d’altronde, fu il filo conduttore della interpretazione fornita dai due scrittori. Ma il vero “inventore” del negazionismo fu un altro francese, Paul Rassinier, un uomo che aveva militato a sinistra e, addirittura, era stato nei campi di concentramento tedeschi. Riprendendo le tesi di Bardèche e Brasillach, in una serie di scritti a partire dal 1949, egli prima cerca di scaricare tutto sulle “responsabilità” dell’Unione Sovietica; quindi minimizza la pratica genocida dei nazisti; infine arriva a negarla del tutto, in una perversa escalation: la Shoah diventa nei suoi libri “un’impostura”, la più macabra e tragica delle innumerevoli imposture della storia. E, rovesciando la pratica storiografica, che consiste nel porre domande alle fonti, suscitando interrogativi, e provando, con metodo rigoroso, ad arricchire il quadro delle conoscenze sui fatti di cui ci si occupa, Rassinier, e tutti coloro che si sono posti sulla sua strada, tra i quali emerge a un ceto punto Faurisson), hanno provato a “dimostrare” che Auschwitz non è mai esistito: ossia non c’è mai stata la volontà e la pratica di eliminare gli internati, e che quello dell’Olocausto è null’altro che un mito, da sfruttare a fini politici.

Certamente, l’Olocausto è anche un mito, e lo hanno scritto seri studiosi ebrei laici, servitori soltanto della verità della Storia, non degli interessi dei gruppi dirigenti di Israele, che su quel mito è stato fondato e quel mito usa, in una vergognosa politica di apartheid e di oppressione contro i Palestinesi. Ma, altrettanto indubitabile – la storia si fa coi documenti, e i documenti sono infiniti, e univoci al riguardo – è che alcuni lager erano non solo campi di concentramento, ma di sterminio. E che in essi venne attuata, con una perfetta organizzazione di tipo “industriale”, il tentativo di eliminazione fisica di tutti gli internati, e perfino dei loro resti, dal gas asfissiante nelle “docce”, al passaggio delle centinaia di migliaia di cadaveri nei forni crematori, fino all’estremo atto, la riduzione in cenere dei resti incombusti gettati in apposite fosse provviste di brace. Abbiamo, fra i tanti, persino i documenti che rivelano inoppugnabilmente le tangenti date alle SS per indurre a preferire una certa ditta produttrice di forni e camini, anziché altre; abbiamo le fotografie, i filmati, le testimonianze dei sopravvissuti. Alcuni dei quali sono diventati scrittori proprio per raccontare quella disumana esperienza. Primo Levi non avrebbe mai regalato al mondo i suoi capolavori, senza Auschwitz.

Verso Faurisson, come verso il britannico David Irving, purtroppo si è proceduto a colpi di leggi, modo sbagliato di combattere le teorie negazioniste, che, proprio per questa ragione, non sono cessate, e non cesseranno. Sono finiti in galera, sono stati oggetto di aggressioni fisiche (Faurisson in Italia!). Modi non solo inaccettabili sul piano morale, ma errati dal punto di vista della “politica della verità”. Morto un Faurisson se ne troverà un altro. Anche i loro oppositori, con buone o spesso cattive motivazioni (spesso la battaglia antinegazionista è diventata monopolio di gruppi ebraici sionisti per giustificare Israele), mostrano, alla stregua dei negazionisti, scarso rispetto verso la storia. La storia non può essere trasformata in un talk show televisivo, nel quale tutte le opinioni hanno uguale liceità; la storia non può essere confusa con la chiacchiera, la scienza non può diventare opinionismo. Ma non si può neppure portare la ricerca storica in aule di tribunale; esiste un solo tribunale, che è quello della scienza storica, appunto, e le false teorie si combattono usando documenti autentici, e non norme di legge, fonti certe non il divieto di parlare ai negazionisti.

La battaglia contro il negazionismo richiede un lavoro culturale, e specificamente storiografico: una battaglia in difesa del metodo storico, ossia, in ultima analisi, una “apologia della storia”, per citare l’ultimo libro di Marc Bloch, il maggior storico del secolo XX, rimasto incompiuto dopo il suo arresto da parte dei nazisti di Klaus Barbie, che fucilandolo lo consegnarono all’immortalità. Quella che non guadagnerà mai Robert Faurisson. Pace all’anima sua.

by MicroMega

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