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Arte. Ricordo di Modigliani di Osvaldo Licini

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Una grande mostra al museo Guggenheim di Venezia e un bellissimo catalogo edito da Marsilio hanno fatto conoscere a chi non lo conosceva uno dei maggiori pittori italiani del Novecento, Osvaldo Licini, astrattista, poco amato nel dopoguerra dai critici e politici del Partito Comunista, di cui pure era membro, al tempo dei Guttuso e delle varianti del “realismo socialista” e del neorealismo. Era nato nel 1894 (e vi morirà nel 1958) a Monte Vidon Corrado, nelle Marche; si formò a Bologna (e fu amico di Morandi), a Firenze, e a Parigi, dopo la prima guerra mondiale, che aveva fatto rimanendovi ferito e restando di conseguenza claudicante per tutta la vita. A Parigi fu amico e sodale di Modigliani, come ebbe a raccontare nel breve testo che pubblichiamo, riproposto anni fa in un volume di suoi scritti e lettere curato da Zeno Birolli con il titolo Errante erotico eretico (Feltrinelli 1974). Le sue Amalasunte (leopardiani omaggi alla luna) e i suoi Angeli Ribelli sono tra i capolavori della pittura europea, non solo italiana. Attivo nella Resistenza, Licini fu anche sindaco comunista del suo paese dopo la guerra per più legislature. Siamo felici che la mostra veneziana abbia permesso di conoscerlo a tanti che ne ignoravano la grandezza.

 

LaStampa-NAZIONALE

LaStampa-NAZIONALE

Il testo che segue. del 1934. è tratto da Errante, erotico, eretico. Gli scritti letterari e tutte le lettere di Osvaldo Licini. a cura di Sara Baratta, Francesco Bortoli e Zeno Birolli, Feltrinelli 1974).

Una sera al Caffè del “Petit Napolitain” a una tavolata di pittori, Modigliani disegnò il mio ritratto. La sua faccia era tutta un monumento. Le famose smorfie di Modigliani, quando disegnava, non furono mai una posa.

“Disegnare è possedere”, gridava, “un atto di conoscenza e di possesso piú profondo e concreto del coito, che solo il sogno o la morte possono dare”. Si poneva di fronte all’uomo, questo enigma-miracolo delle forme, tutto il suo istinto carnale e mistico proteso al congiungimento magico per cui ogni distanza e limite fra sé e quel mondo annullava.

Di queste fusioni armoniche del suo “angiolo” con le forme, testimoniano i disegni, che sono la prova piú convincente di come egli abbia saputo trascendere la realtà: ritmi brevi, pure essenzialità, virgulti di forza per fulminei concentrati umani.

Le contrazioni spasmodiche dei suoi muscoli facciali e delle sue mani non erano che l’espressione esterna di una profonda emozione interiore, di un combattimento fra il suo spirito e la materia, per imprimerla di quel mondo che portava dentro di sé, vogliamo dire del suo sentimento, cioè del suo stile.

Lo conobbi nell’autunno del millenovecentodiciassette a Parigi, durante la guerra. Ma la prima volta che intesi parlare di lui fu a Firenze nel ’15, da una pittrice francese giovane di molto talento, che mi disse:

“A Parigi il futurismo non attacca. Ma c’è un pittore italiano di genio della stessa forza di Picasso. È bello come un astro. Si chiama Modigliani”.

Confesso che diffidai delle parole della donna, che è portata per la ragione del sesso a supervalutare l’Artista, quando è molto bello fisicamente.

“Si vous allez à Paris n’oubliez pas d’aller à la ‘Rotonde’. Vous y rencontrerez des peintres et des poètes dans ception du mot.”

Ferito andai a Parigi in convalescenza, dove si trovava l’aia madre, e anche perché mi ero giurato di vedere il Louvre. Alla “Rotonde” conobbi Picasso, Cocteau, Cendrars, Ortiz, Kisling, eccetera. Ma Modigliani non si vedeva. Mi dissero che non metteva più piede alla “Rotonde” da quando l’avevano cacciato di peso i camerieri, una sera, che ubbriaco dava in escandescenza e disturbava i clienti. Si parlava spesso di lui. Questo essere straordinario. Una viva simpatia accompagnava il suo nome. Una volta capitò Zborowski, il mercante di Modigliani, e mi portò a casa sua.

Mi mostrò una trentina di tele di Modi dipinte negli anni ’16 e ’17. Le andava a prendere in un ripostiglio oscuro, e sorrideva man mano che me le mostrava e vedeva crescere il mio stupore. Fui preso e vinto quasi subito, dal fascino potente e misterioso di quelle mezze figure di donne estatiche, incatenate a sogni emergenti da fondi semplici ma profondi, con un colore ricco incandescente, impreveduto. Le linee organiche di certe figure affioravano dagli impasti colorati, e riaffondavano nella carne producendo un’impressione di rilievo potentissima, ottenuta col minimo sforzo e senza adoperare le ombre, col semplice gioco della emersione della linea che dava da sola il senso di tutte e quattro le dimensioni.

E quando per ultimo Zborowski mi mostrò alcuni pezzi sensazionali, certi nudi di donna contorti fino allo spasimo, io ebbi l’impressione di trovarmi di fronte a un pittore grande come Tiziano.

M’ero convinto che Modigliani fosse uno dei piti grandi pittori viventi, desiderai conoscerlo.

Dicevo, adunque che io conobbi Modigliani nell’autunno del 1917.

Una sera ero seduto davanti al caffè de la “Rotonde” aspettando un amico. Il cielo era pesante e Parigi al buio. Io guardavo le nuvole che si muovevano lente, frugate attivamente da riflettori di guerra che cercavano Zeppelins, quando sul largo marciapiede sotto i platani nudi, vidi venire un giovane pallido vestito di velluto grigio senza cappello, e con un fazzoletto al collo, che aveva l’aria di un poeta e di un teppista insieme: qualcosa di tragico e di fatale.

Dal modo che me l’avevano descritto, non poteva essere che lui. lo ero vestito da soldato con la caratteristica mantellina grigio-verde della fanteria italiana. Modigliani, completamente eb , mi notò, si avvicinò, e spinto da un demone che era pili forte di lui, ma in italiano, drizzando fieramente la sua testa di poeta maledetto:

“Ti saluto, eroe a calci in curo!”

Ripeto io ero un ammiratore di Modigliani ed ero convinto che fosse il solo pittore capace di riscattare (in quel periodo di magra) l’onore della pittura italiana. Non raccolsi la provocazione e mi limitai a rispondergli:

“Devi essere un imboscato. Ma lascia il culo in pace, e beviamo.” Si sedette bruscamente e mi disse: “Perché non ti sei offeso?”

“Perché mi piace troppo il tuo modo di sporcare le tele.”

Mi chiese se ero pittore. Parlammo della guerra che per lui era una questione di finanze. Era furioso contro la retorica di guerra.

La sua simpatia non andava più agli eserciti stanchi, ma alla Russia in delirio, nella più completa rivolta e in sfacelo.

“La rivoluzione,” urlava, “la sola cosa sacra, più dell’arte, più bella della guerra!”

Io gli ribattei che ero imperialista, conservatore, forcaiolo, che le rivoluzioni bisognava spegnerle nel sangue, che non credevo nella libertà, che la parola popolo non aveva senso, che ero per la sacra autorità, per gli Tzar, per i sovrani di diritto divino, per le aristocrazie, e credevo solo nel genio di pochi uomini eccezionali.

Modigliani si alzò furioso e guardandomi con una smorfia di supremo disgusto e compatimento con occhi che mandavano lampi, urlò, con aria ispirata e messianica col pugno teso, con gesti enfatici ma bellissimi (e con gravissimo scandalo dei borghesi seduti) questo passo di Rimbaud della Saison en enfer: Idiot!

“Quand irons-nous, par delà les grèves et les monts, saluer la naissance du travail nouveau, la sagesse nouvelle. la fuite des tyrans et des démors, la de la superstition – adorer – les premiers! – Noél sur la terre? Les chant des cieux, la marche des peuples! Esclaves ne maudissons pas la vie.”

E partì.

La notte dopo mentre rincasavo, passando vicino a un fanale blu, mi sentii prendere per la mantellina. Era Modigliani che mi domandò: “Dove vai?”

A Parigi durante la guerra suonava il coprifuoco; i caffè si chiudevano alle 10. Quando intese che andavo a letto si meravigliò perché non sapevo che a Parigi c’erano dei caffè clandestini aperti tutta la notte. “Vieni con me, ho dell’oro.” E mi mostrò un biglietto da 10 franchi.

Percorremmo alcune strade c ci trovammo davanti a una porta stretta. Modigliani bussò, disse una parola d’ordine e fu aperto.

Scendemmo alcuni gradini e ci trovammo dentro un caffè Sotterraneo pieno di gente, di luce e di fumo, con le pareti coperte da affiches colorati.

“Modigliani!” fu gridato da tutte le parti.

Era magnifico. Rassomigliava a Baudelaire nella distinzione e nobiltà naturali.

Come farfalle vanno al fuoco, attorno a lui si raccolsero le donne. Riconobbi quelle che avevano posato per i ritratti. Ce n’erano di tenere e sentimentali, mescolate a più ardite e sensuali. Ci sedemmo ed egli ordinò dei gelati. Poco dopo la nostra tavola era piena di poeti scrittori e pittori amici di Modigliani.

Si cominciò col celiare e si finì col discutere. Una specie di schermaglia fra Modigliani e tutti gli altri. Le sue frecciate velenose andavano ai pittori di tendenza neoclassica: “In atte non ci sono ritorni o rinascite. Io adoro Raffaello, ma l’idea un altro Raffaello a venire mi fa ridere, è barocca. Come se ci potessero essere due soli in cielo! “

“Gli artisti buoni che verranno, quelli che contano, faranno un’arte nuova e tutta impreveduta. Non saranno né classici romantici. Ma faranno un’arte rivoluzionaria. Saranno quello che saranno, ma faranno un’arte rivoluzionaria.”

Fu discusso se la natura e la bellezza sono o non sono geometriche; si parlò dell’Italia, di Venezia, di Lautréamont, del cubismo, della scultura greca arcaica, della scultura negra che era la sua fissazione.

Quando Modigliani proclamava o disputava d’arte, procedeva per intuizioni e improvvisi trasalimenti e lampi, per affermazioni o negazioni, assolute, categoriche. Niente della funebre pedanteria dei nostri aspiranti accade mici era in lui. I piü repugnanti paradossi – come: “Il paesaggio non esiste,” che per Modi era dogma e per gli altri un’eresia — erano le verità elementari della sua fede. Modigliani ha dimostrato con la sua opera che concentrando tutto su l’uomo su l’espressione dell’uomo, del sentimento umano, e facendone il centro del mondo, si poteva fare una grandissima pittura di portata eterna e universale.

Dicono che Modigliani si ubbriacasse per il semplice gusto delle bevande. Può darsi. Io che l’ho visto ubbriaco in tutte le sue fasi, cinico, amaro, qualche volta sentimentale, notai che quando era magnificamente ubbriaco entrava in una zona meravigliosa dove tutto era poesia assoluta, estasi, delirio. Solo con i suoi fantasmi e con se stesso entrava nello stato di grazia e felicità che solo a lui era dato. E noi gli astemi, i normali, i savi, facevamo da comparse e il sorriso degli sciocchi.

Ogni ubbriacatura di Modigliani fu un capolavoro per quello che disse e per quello che godette. Certi monologhi e soliloqui, e parole di immenso amore o di odio sotto la pioggia o la luna, non saranno dimenticati troppo presto da chi ebbe la fortuna di conoscerlo.

Quel disegno che fece di me una sera, io l’ho perduto insieme ad altre cose mie, che furono distrutte da una donna che mi ha e odiato. Io ne porterò con me eternamente il rammarico amato e la colpa.

Le parole che Modigliani dedicò a me su quel foglio sono queste:

“Caro Licini, la nostalgia dell’Italia, mio primo amore, mi avvicina sempre pitt a te.” Che sono da mettere accanto alle sue ultime piü commosse e meravigliose: “Cara Italia”

L’ultima volta lo incontrai vicino a l’“Observatoire.” Come al solito, ubbriaco, ma tuttavia sembrava trascinato da un vento di idealismo disperato. Mi portò per forza con sé: deambularnmo tutta la notte nella nebbia. Lui declamava pezzi del Paradiso; io gli dicevo brani dei Canti Orfici di Dino Campana, che sapevo a memoria e lui non conosceva. “Firenze, giglio di forza,” eccetera.

I nostri sensi erano tutto un inferno mistico. Alle tre del mattino per caso ci trovammo vicino a casa sua. Gli chiesi di vedere lo studio. Mi disse:

“Monta fino all’ultimo piano, troverai la porta aperta. C’è solo un quadro. Io non vengo, vado a dormire con la mia musa” (credo fosse allora la poetessa inglese). E ci lasciammo.

Salite le scale che erano logore, scivolose e di legno, e giunto mi sembra all’ultimo pianerottolo spinsi una porta che trovai aperta. Entrai al lume dei cerini in un vasto stanzone freddo col pavimento di legno coperto di cartacce. In un angolo un pagliericcio, un cavalletto, e sopra una seggiola delle scatole di sardine, vuote. Su una parete immensa e grigia intravidi appena una figura. Mi diressi a quella col cerino acceso. Colla bocca chiusa nel suo segreto, luminosa, estatica, una giovane donna ideale ma umana mi guardava…

Da quella volta non vidi più Modigliani.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 60 de “Gli asini”: acquistalo, abbonati o fai una donazione per sostenere la rivista.

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