La Califfa (1064) è il primo romanzo di Alberto Bevilacqua (Parma, 27 giugno 1934 – Roma, 9 settembre 2013) che ha esordito come scrittore nel 1961 con un libro di poesie, L’amicizia perduta, in seguito si è dedicato alla narrativa, pubblicando numerosi romanzi. Lo scrittore parmense fu ospite aTuttoingioco, biennale d’arte, pensiero e società, che si tenne nel centro storico di Civitanova Alta dal 10 luglio al 6 settembre 2009. Furono nove fine settimana, per un totale di ventisette serate, trascorse con tanta gente, in piazza ad ascoltare personaggi del cinema, della televisione, dello spettacolo, nei caffè letterari, negli spazi predisposti ad ascoltare musica, dissertazioni filosofiche e scientifiche e in visita alle mostre. Alberto Bevilacqua parlò sul tema Eros e tango, domenica 2 agosto 2009, alle 21,30, sul palco sistemato in piazza della Libertà. Al termine della sua lectio magistralis ebbe parole di elogio per l’iniziativa in oggetto, augurandosi anche che proseguisse negli anni successivi. Per una piccola cittadina di provincia era motivo di vanto e di orgoglio una biennale d’arte pensata e programmata con grande professionalità dal suo direttore artistico, prof. Evio Hermas Ercoli.
Il Festival Tuttoingioco e Alberto Bevilacqua
Alberto Bevilacqua fu intervistato da Giancarlo Trapanese, giornalista della Rai. Suggestive alcune riflessioni di Alberto Bevilacqua sulla realtà affettiva del nostro tempo. L’incontro uomo- donna è sempre più sporcato e mercificato. Sembra che non ci sia più spazio allo stupore. Tutto viene catturato da un’industria mass mediateca in cerca solo di gossip. La gente è spaesata, disorientata, ha paura di tutto, anche delle cose più banali, è irritata per un nonnulla. Anche lo smarrimento dei bagagli nell’aeroporto diventa un dramma. Lo si percepisce, viaggiando. L’infanzia e l’adolescenza, nell’innocenza e nella solitudine che una volta le caratterizzava, non esistono più con i connotati di un tempo. Eppure la memoria ha il potere di suscitare emozioni e nostalgia. Chiusi nei propri bisogni quotidiani, gli uomini e le donne di oggi non hanno più speranza. E’ difficile programmare il proprio domani, complice la crisi economica e non solo. Si vive di piccolo cabotaggio.
Bello l’incontro con Alberto Bevilacqua. Le duemila persone che affollavano la piazza avranno portato a casa senz’altro spunti di riflessioni valide per vivere al meglio il proprio quotidiano. La cultura, come capacità di coltivare il proprio animo con il bello e il buono, è il compito dello scrittore che si fa interprete di quelle cose che sono nell’aria, che sono di tutti e che lui solo sa mettere in un libro, romanzo o saggio che sia. A ruba anche i libri di Alberto Bevilacqua acquistati dai visitatori della Biennale. Da conoscere e da leggere il primo romanzo dello scrittore parmense, best seller dei primi anni sessanta, già primo al premio Campiello: “La Califfa”.
La festa per la chiusura della manifestazione si tenne domenica 6 settembre 2009, dalle 24,00 in poi, sotto un enorme tendone piazzato nell’area della tranvia, per vincere anche i rigori della sera, pervasa da un vento che, ricordo, era in qualche momento anche gelido. “Mi nasconda la notte ed il dolce vento”. Anche la Luna, nel massimo del suo splendore, alta nel cielo, faceva da contorno all’evento: “La Luna si nasconde e poi riappare/ lenta vicenda, inutilmente mossa/, sopra il mio capo stanco di guardare” (Sandro Penna). Nostalgia per un evento che aveva termine? Sì. Si sa che ogni inizio ha con sé una fine che si vorrebbe non finisse mai. Nostalgia allora, come dolore per un ritorno al passato che si fa memoria. Non c’è mai un presente. C’è la memoria del passato e l’attesa del futuro. E’ quanto vissero in tanti al termine dei saluti del Direttore Artistico del Festival prof. Evio Hermas Ercoli in piazza della Libertà, poi sotto il tendone, dove la band “Burro e salvia” intratteneva il numeroso pubblico con canzoni e canzonette degli anni trenta e quaranta.
Civitanova Marche Alta con Tuttoingioco si trasformò davvero in una piccola cittadella della cultura. I festival successivi, Popsophia e Futura Festival non hanno mai raggiunto il successo di Tuttoingioco che rimane negli annali della cittadina adriatica come l’evento unico ed eccezionale. In una cornice di personaggi davvero unica non poteva mancare Alberto Bevilacqua, direttore anche di film di successo, per lo più tratti dai suoi romanzi come La Califfa (1970), con Romy Schneider nella parte di Irene Corsini, La Califfa del romanzo e Ugo Tognazzi, Annibale Doberdò, il ricco industriale di Parma, l’altro protagonista del libro. Altri film sempre diretti da Alberto Bevilacqua, riduzioni di suoi romanzi, Questa specie d’amore (1971), Attenti al buffone (1973), La donna delle meraviglie (1985). Il romanzo Questa specie d’amore (1966) vinse il premio Campiello, L’occhio del gatto (1968) il premio Strega. Meritano anche di essere letti: Umana avventura (1974), Unascandalosa giovinezza (1978), Il curioso delle donne (1983), La grande Giò (1986), I sensi incantati (1991), L’eros (1994), lettera alla madre sulla felicità (1995), Anima amante (1996),Gialloparma (1997), Sorrisi dal mistero (1998), Gli anni struggenti (2000), Viaggio al principio del giorno (2001), Attraverso il tuo corpo (2003). Non meno importanti sono le raccolte di poesie: L’indignazione (1973), Lacrudeltà (1976), Immagine e somiglianza (1982), Vita mia (1985), Il corpo desiderato (1988), Messaggi segreti (1992), Poesie d’amore (1996). Alberto Bevilacqua è stato anche giornalista e le sue opere sono state ampiamente tradotte in Europa, Stati Uniti, Brasile, Cina e Giappone.
Trama e personaggi del romanzo
Il romanzo è diviso in due parti più un epilogo; ciascuna delle due parti è suddivisa poi in sette – otto capitoli di differente ampiezza, indicati con un numero romano, frazionati in piccoli paragrafi che sono indicati con cifre arabe. Il narratore è onnisciente, in quanto sa tutto della storia raccontata e di volta in volta passa la parola alla Califfa, Irene Giovanardi in Corsini, che racconta i fatti dal suo punto di vista. E’ un artificio stilistico che rende piacevole la lettura del romanzo. Tutti il libro è“una storia a più livelli che Borges definì una narrazione ariostesca, una storia popolare, ambientata in una Parma che oscilla fra Rinascimento e Provincia, con i protagonisti scolpiti: il vescovo, l’industriale, il partigiano, la prostituta. Su tutti, però, trionfa Irene Corsini”.
Irene Giovanardi, detta la Califfa, è una giovane donna che vive nell’Oltretorrente,un quartiere popolare di Parma. Alberto Bevilacqua conosceva molto bene il quartiere, essendoci nato. La seconda guerra mondiale è terminata da poco. La vita è avara con lei. Sposa GuidoCorsini, un ex partigiano che alleva piccioni per il tiro a volo. Desiderosa di emanciparsi, trova lavoro nell’azienda alimentare di Ubaldo Farinacci, il suo primo datore di lavoro, ma è licenziata con la prima riduzione del personale. Sono gli anni del dopo guerra. La donna, durante l’occupazione aveva maturato una sua libertà d’azione, impedita agli uomini che venivano requisiti e portati in Germania, se fossero incappati nelle retate nazi fasciste. “Nel dopoguerra comincia la prima grande rivoluzione fra i sessi. E’ proprio la guerra, con il suo sconvolgimento e con la Resistenza, a scomporre e a ricomporre i nuclei familiari. Tutto salta. I padri in battaglia, i fratelli a lottare, le donne escono dalle case per combattere la loro guerra alla ricerca di un pezzo di pane, di un po’ d’acqua per lavarsi, ma intanto escono, anche sole, per la prima volta. Saltano i punti di riferimento: le città, le provenienze, le radici strappate a forza costringono le persone a spostarsi da un luogo a un altro lungo la penisola, dai paesi alle città, dal nord e dal sud estremi alle grandi metropoli, Milano, Torino, Roma. Sradicate, ma piene di speranze, le nuove ragazze del dopoguerra hanno già rinnegato il ruolo di casalinga e madre assegnato loro dal vecchio regime. Cercano come Irene Corsini, uno spazio diverso” (Barbara Palombelli,Una donna sola sotto il sole del Novecento, introduzione a La Califfa, pagg. 7- 11, Corriere della Sera, I grandi romanzi italiani, RCS Quotidiani, Mondadori, Milano 2003).
Sulla condizione della donna durante il ventennio fascista, sugli anni di guerra e del dopoguerra, sono da leggere anche le belle pagine dei tre saggi, scritti dall’indimenticabile Gianfranco Vené (Monfalcone 1935 – Milano 1992), scomparso prematuramente. I tre saggi:Mille lire al mese, la vita quotidiana della famiglia nell’Italia fascista, Mondadori, Milano, 1988, Coprifuoco, Vita quotidiana degli italiani nella guerra civile, Mondadori, Milano, 1989, Vola colomba, vita italiana degli italiani negli anni del dopoguerra, 1945-1960,Mondadori, Milano, 1990, costituiscono un punto di riferimento importante perché ricostruiscono,con grande efficacia, gli ultimi settant’anni di storia italiana con le trasformazioni culturali, mentali e di costume che attraversano tutte le classi sociali.
“Si fa presto a dire: quella è una slandra, una donna di rifiuti. Ti mettono la croce addosso e addio, poi fanno le orecchie del sordo. Insomma, non ti ripulisci più perché, l’onestà di andare in fondo alle cose, chi ce l’ha in questa Italia lazzarona, dove tutti, i loro peccati, li nascondono come beni di contrabbando, solo per puntare il dito contro le debolezze degli altri? Questa è la cristiana carità che io conosco, questo il volersi bene dei fratelli… Io, invece, una di quelle che badano all’apparenza e poi fanno i comodi allo scuro, non lo sono stata mai: l’Irene Corsini, detta Califfa, quello che ha dentro ce l’ha in faccia e costi quel che costi! Per questo, chi m’incontrava in quei giorni amari, evitava persino di guardarmi, tanto mi si leggeva in faccia quanto mi accanivo sulla tragedia della mia vita. Califfa mia – mi dicevo, sei proprio arrivata in fondo, peggio di così, solo la galera e la morte! E pensare, invece, che tanto dovevo aspettarmi dalla vita” (A. Bevilacqua, La Califfa, pag. 17, Mondadori, Milano, 2003).
E’ l’incipit del romanzo. Irene Corsini, già donna nei primi anni del dopoguerra conosce un giovane, Guido Corsini, un ex partigiano. Sognano insieme il futuro. Sono animati da tanti buoni propositi. Si danno da fare in ogni modo. Prestano le loro braccia per lavori saltuari. Non stanno mai con le mani in mano. Quando avranno messo da parte qualche gruzzoletto, andranno ad abitare nei quartieri della Parma che conta. Si rotolano ebbri d’amore e di passione sul greto del torrente. Si rincorrono a perdifiato per i campi punteggiati di papaveri e fiordalisi. Tutto sembra andare per il verso giusto quando all’improvviso, in un giorno imprecisato, bussa alla sua porta una donna che viene da Udine e ha in mano una fotografia che reca i volti di due giovani. Sono i suoi due figli, di diciannove e venti anni, costretti ad indossare una divisa fascista e uccisi dai partigiani. La donna cerca Guido, il marito di Irene. Questi, quando rincasa, trova la donna che sta lì ad aspettarlo. Davanti alla fotografia che gli viene mostrata con gesto di sfida, Guido rimane come impietrito. La donna gli sputa addosso. Il giovane non sa reagire all’affronto subito. Irene, sbalordita davanti al proprio uomo, gli pulisce il volto con un fazzoletto. E’ il primo schiaffo che La Califfa ha dalla vita. Si celebra il processo. Guido viene condannato a tre anni di reclusione. Irene Corsini, accompagnata dall’amica Viola, la prostituta, assiste impassibile alla lettura della sentenza. Nei primi anni del dopoguerra, ex partigiani, per eccesso di zelo o per vendetta, commisero dei delitti ai danni di fascisti.
Guido esce dal carcere dopo tre anni ma è un altro uomo. Non ha voglia di trovarsi un lavoro. Ritiene di essere stato vittima di un’ingiustizia. Ne ha per tutti. Picchia la moglie, dorme fino a mezzogiorno, beve e scivola nell’inettitudine più completa. Irene tenta di recuperare il proprio uomo che si trascina invece con l’inerzia di un rifiuto. Eppure l’aveva scelto lei stessa “perché ci aveva visto quell’istinto di approfittare della vita che mai nessuno era riuscito a trasmetterle, né suo padre, né sua madre, né coloro tra i quali era cresciuta e che, accomunati da na stessa condanna, per nient’altro avevano vissuto che per il profitto altrui… Giudo seduto dietro i vetri delle osterie, nelle bestemmie, licenziato, cacciato via dai lavori per arroganza, per inabilità, evitato dai compagni di un tempo: un uomo che aveva affrettato la sua vecchiaia ed ora affrettava la propria morte, solo perché gli altri non avevano saputo guarirlo con la dovuta pietà, attribuendogli colpe che forse non aveva commesso e responsabilità ingigantite proprio dalla sua rassegnazione”(pag. 47).
Irene Corsini non si perde d’animo. Fa da mamma premurosa verso il figlioletto Attilio avuto da Guido. La vita le riserva altre disgrazie. Attilio, il bambino coccolato, muore in tenera età. In visita alla tomba del figlio, Irene Corsini esclama: “Perché, Attilio, perché. Sono stata io a coprirti la faccia col lenzuolo, sono stata io a toglierti per sempre dai miei occhi, con le mie mani. Perdonami, Attilio” (pag. 49). Poco lontano dal torrente Parma, Irene ascolta i ragazzi che hanno la stessa età del suo bambino che non c’è più. Poteva essere là con loro a gridare e a scherzare. Irene è prostrata nel proprio dolore ma non si abbatte.
Se il marito è un fallito, lei si rimbocca le maniche ed entra a lavorare nell’azienda alimentare di Ubaldo Farinacci. I prodotti dietetici dell’azienda non hanno mercato, nonostante le sbruffonate del suo titolare che nel giorno dell’inaugurazione ha attorno il sindaco e i suoi lacchè. Iniziano i licenziamenti. Le prime a rimetterci sono le donne. Irene Corsini non ci sta, è sempre in prima fila a manifestare contro i primi licenziamenti: “Mani sui fianchi e con vampate di ribellione che la inorgoglivano come tante scariche elettriche, cominciò a gridare: Parci, fetenti, fatti vedere Farinacci che ti sputo in faccia, tanto di te non ho mica paura e neanche dei tuoi sbirri! Califfa, Califfa, le gridarono – ma che ti sgoli a fare, tanto il coltello dalla parte del manico ce l’hanno loro” (pag. 25).
Non è sola a combattere contro l’ingiustizia. Tutti nel suo quartiere, situato oltre il torrente Parma, si ribellano e lottano, tra questi un vecchio socialista, di nome Mazza, chiamato da tutti “Giustizia e Libertà”, perché in gioventù ave va militato nell’omonimo partito politico. “Il Giustizia e Libertà russava soffiando, mordente e indeciso, a scatti, così come parlava e forse in quei sibili si sfogava il consueto farnetichio del suo cervello sulle sue quattro idee fisse: quella benedetta giustizia degli uomini che era stata avara con lui, per tutta la vita, quel cambio della guardia tra ricchi e poveri, tra intelligenti e ignoranti; e poi i nomi dei suoi nemici, masticati a mascella dura, come le cicche del suo toscano”(pag. 50).Il povero Mazza aveva combattuto per cinquant’anni, subito il confino, la galera, preso le bastonate dai fascisti per non essersi mai tolto il cappello in faccia ai potenti di turno. Il risultato di tutto questo era che combatteva ancora contro i pidocchi e la miseria sua e quella di altri come lui. Nell’azienda alimentare di Ubaldo Farinacci,Irene conosce Vito Alibrandi, giovane promessa del Parma calcio. Tra i due inizia una relazione amorosa, anche se la donna è ancora sposata con Guido.
Tra gli altri personaggi del romanzo c’è mons EgistoMartinolli che ha la potestà di vicario del vescovo, “potestatem ordinariam, sed vicariam”. Si reca solo una volta all’anno del quartiere dell’oltre torrente, la domenica prima di Pasqua. E’ un figlio del popolo, viene dalla campagna. Sta dalla parte di chi ha il potere. Vede negli abitanti del quartiere, dove abitano Viola, Irene, Mazza e tanti altri disperati, solo dei pericolosi sovversivi, comunisti pronti a fare barricate, a dimostrazioni di piazza. Califfa ha un’idea tutta sua del monsignore: “Per me, diceva, non è peggio degli altri e chi dice che è un ruffiano esagera. E’ solo un prete indeciso, che non riesce a farla pulita la sua religione e siccome non ha né pazienza né astuzia, cerca di fingere di riuscirsi. Voglio dire che se uno accetta di vendere per mestiere la speranza, non dovrebbe boicottare il prodotto, stando al gioco anche quando non ci crede” (pag. 55). Mazza, quando lo vedeva nel proprio quartiere insieme con un codazzo di pretini e di guardie comunali, commentava che la sua più di una visita pastorale sembrava proprio un rastrellamento. Il monsignore tuttavia non era sciocco, solo codardo. Non sapeva schierarsi con i più poveri come Cristo dice nel vangelo. Gli industrialotti locali lo tirano per la giacca e gli reggono il baldacchino. Pretendono che stia zitto davanti alle loro malefatte. E lui obbedisce. Deve subire suo malgrado le visite di un altro monsignore mandato da Roma, ma anche nei confronti di questo suo superiore vede quasi un intruso che viene a minacciare la sua tranquillità e la sua quotidianità fatta di omissioni e mancanza di coraggio.
Mastrangelo, di origine meridionale, si era trasferito a Parma molti anni prima in cerca di fortuna e in breve tempo era entrato nel cerchio delle persone che contano: Ubaldo Farinacci, Giacinto Gazza e Annibale Doberdò. Giacinto Gazza è lo stretto collaboratore di Doberdò, l’industriale più potente della città emiliana. Il suo atteggiamento nei confronti del padrone è improntato al più bieco servilismo, tanto che Doberdò viene sempre più disgustato. E’ l’unico comunque che andrà a salutare la Califfa dopo il funerale del padrone. Secondo Mazza, tutti e tre messi assieme formavano quasi una piramide alla cui base stava Mastrangelo, il più debole di tutti. Ha sempre bisogno di denaro da investire nell’acquisto di terreni e appartamenti. Ma privo di capacità, non sa trovare mercato. Ricorre a prestiti. L’unico che lo sopporta ma fino ad un certo punto è Annibale Doberdò. Ma anche lui gli chiude i rubinetti, dicendoglielo chiaramente: “Senta, caro amico, io non sto mica dietro questa scrivania per reggere il lume alle mattate dei puttanieri. Lei ha giocato troppo sul mio credito, oserei dire che mi ha preso per i fondelli -Vuol dire che mi chiude la porta in faccia – Per ora, sì, poi si vedrà” (pag. 69).
Intanto all’Oltretorrente fervono i preparativi per la festa popolare chiamata della manna. Era un’antica usanza che il popolo di Israele celebrava in ricordo della manna caduta dal cielo nel deserto mentre andavano, guidati da Mosè, verso la terra promessa, di ritorno dall’Egitto. Il popolo del quartiere la celebrava nel giorno di San Giovanni battista, il ventiquattro giugno di ogni anno. Martinolli, il vicario del vescovo la riteneva una festa pagana, per questo era sempre restio a concederne l’autorizzazione. Don Ersilio Campagna, parroco della locale parrocchia ne era invece sostenitore accanito: “Alla metà di giugno, da quasi trent’anni, dall’anno cioè della sua nomina, don Campagna si buttava nell’avventura, con quella sua aria di eterno reduce (reduce dalla folliache l’aveva inchiodato in quell’avamposto da missione, dal suo fallito desiderio di pace), con il colletto slacciato, la veste sporca di tabacco, le spalle incassate, trascinandosi dietro il Mazza” (pag. 72). Martinolli e don Ersilio Campagna erano invecchiati insieme, la loro giovinezza e la maturità si erano consumate nella reciprocità dei luoghi comuni. Martinolli dà il permesso per celebrare la festa che viene vissuta dal popolo nella coralità di tutti. Poco importava che fosse un rito non riconosciuto dalla chiesa, bastava per distogliere il popolino da altri problemi. Nel corso della festa, Irene è invitata a cantare. La donna lo fa. Da un altro lato della folla assiepata, fa da contrappunto la voce di Vito Alibrandi, l’amante segreto di Irene; ma alla festa è presente anche Guido Corsini che grida verso la propria moglie: “Califfa, facci vedere quello che fai con lui, quando nessuno ti vede! Coraggio” (pag. 82). Irene vorrebbe sotterrarsi per la vergogna, continua a cantare ma con la morte nel cuore. Vuole ancora bene al proprio marito, anche se è un inetto e campa la vita allevando piccioni che poi vengono liberati al tiro a volo dove partecipano tutti i maggiorenti della città, Doberdò, Mastrangelo e il questore Mazzullo. La moglie cerca di spronarlo perché trovi un altro lavoro ma non c’è nulla da fare. Si ritiene vittima di un’ingiustizia. Sfida la celere che interviene per disperdere una manifestazione di operai licenziati. Affronta le canne del mitra imbracciato da un celerino. Questi fa partire un colpo e Guido cade fulminato a terra. Irene accorre sul posto e prima che il proprio uomo cada, grida disperata il suo nome: Guido, Guido: “Guido ode quel grido come al di là delle cose. Non è il grido della donna che lo ha tradito, non un grido di egoismo o di para, solo d’amore, d’amore liberato dalla vergogna e dalla colpa, e lui, Guido, d’improvviso cessa di essere un relitto d’uomo che si è associato ad una causa giusta, che sta rischiando la pelle solo perché non ha più nessuno, più nulla da salvare” (pag. 93- 94).
Irene rimasta sola, l’amante Vito Alibrandi va a Milano per tentare l’avventura calcistica in una grande città, viene accolta nella propria casa dall’amica Viola che ha un gran numero di figli avuti con più uomini. Irene fa loro da seconda mamma. Viola, per ringraziarla, le acquista un bel vestito di seta che le calza a pennello. L’occasione per indossarlo è la prima del teatro Regio dove Irene viene osservata da Annibale Doberdò che le manda un mazzo di fiori con scritto il suo nome: Annibale Doberdò. Così Irene Giovanardi, La Califfa diventa l’amante del più ricco industriale di Parma, sposato con Clementina Marchi con la quale ha avuto un figlio, Giampiero Doberdò. Per lei, l’industriale affitta il più bell’appartamento situato nel centro di Parma, là dove più volte, Irene aveva sognato di andarci a vivere con il suo Guido. La vittoria di Califfa sulle proprie disgrazie è la stessa di Viola che stravede per la sua amica. Irene, valigetta in mano si reca nella nuova dimora, dove riceve le visite di Doberdò. E’ la seconda parte del romanzo.
Annibale Doberdò, Clementina Marchi e Giampiero Doberdò
“Annibale Doberdò, piccolo proprietario terriero, titolare di quella fabbrichetta di conserva che spandeva il suo fumo su uno dei pochi sobborghi tranquilli (che Doberdò, giovanotto dalla faccia sanguigna e pronto a rimboccarsi le maniche lui stesso, faceva lavorare chi più poteva) egli avrebbe dovuto stare dalla parte sua, con quel pazzo consesso di agrari che già finanziavano le prime squadracce d’azione, pensando al fascismo come all’unica via d’uscita. E invece no: faceva la fronda. Dicevano che fosse troppo viva, in lui, l’origine contadina e stimolante il ricordo del padre – un socialista tutto sangue, che s’era fatto da solo, ma senza soprusi -, perché egli potesse chiudere la porta in faccia a quelle donne che, mute affamate e silenziose, venivano a sedersi davanti ai cancelli della fabbrica, e lì facevano notte, come tragici beduini in attesa del miracolo, con i figli avvolti nelle coperte o attaccati ai poveri seni inariditi come le loro anime. Doberdò finiva per aprirli sempre, quei cancelli, e la sua fabbrica, lentamente, s’era tramutata in una specie di ospizio. Sotto quei tetti di ferro, guardati con disprezzo dai signori in paglietta che facevano passare le loro carrozze proprio lì, per ridergli alle spalle, al Doberdò, la fame si cambiava in speranza e, ovviamente, in un guadagno così magro per il proprietario, che la fabbrica minacciò seriamente di sbandare verso il fallimento. Ma Doberdò teneva duro, bestemmiando, puntando i piedi, facendosi largo con certi pugni folti di peli rossicci. Eppure, a guardare bene, Annibale Doberdò era un santo fragile e la folla dei contadini che lo stimavano e lo amavano non avrebbe certo immaginato alcuni veri sentimenti che Doberdò non confessava nemmeno a se stesso. Un santo fragile che faceva la voce grossa per puntiglio o, meglio, per ambizione, per il gusto di passare tra quelle facce che lo riverivano o lo temevano, e tra coloro che lo odiavano, ma erano costretti a contarlo come una persona esplicitamente esplosiva. Si aggiungeva del rancore verso chi possedeva più di lui. Il punto, comunque, era la debolezza di Doberdò. Al contrario di come appariva, infatti, egli era intimamente un debole e, in quanto tale, se da una parte non osava tradire la sua origine, sfruttando questo timore in una compiacente azione di prestigio personale, dall’altra la sua personalità sottilmente ambigua aspirava a qualcos’altro. Non ai guadagni che gli industriali e gli agrari si preparavano avallando le rapine e gli omicidi fascisti; ma alla fierezza sociale di un mondo che gli sfuggiva, al prestigio mondano di un nome che non possedeva, a quella vita affollata di persone colte ed eleganti e, soprattutto, di giovani donne che la sua mente identificava in un solo biancore, turgido tenerissimo e liscio, di pelle muliebre; ché Annibale Doberdò, per le donne, sarebbe stato disposto a tutto; fosse il tradimento di un’idea, come il naufragio dell’apparenza. Per quanto gli aveva permesso di essere uno stupido santo ispirato dall’irruenza, dunque, la sua origine contadina, minacciava di travolgerlo nel più gretto arrivismo. E Annibale Doberdò cessò ufficialmente di lottare con se stesso – dando motivo di ironico trionfo a chi, fino a ieri, l’aveva osteggiato – un giorno che doveva restargli stampato in testa per tutta la vita, come una condanna che lui aveva accolto come la salvezza e il miracolo. E cioè il giorno in cui, nel cortile della sua casa di campagna, irruppe la carrozza padronale di Clementina Marchi, che si trascinava la nobiltà di un nome e i guai di una famiglia, con un piede nella migliore società e l’altro nella fossa dei protesti cambiari.Obbedendo a Clementina, sopportando la sua nevrastenia di casse (…) Annibale Doberdò divenne il simbolo vivente di una categoria sociale che il fascismo doveva arricchire, senza poi travolgerla nel suo crollo, che i preti dovevano benedire anche nei suoi peccati e alla quale la guerra doveva offrire, dal desolato deserto, i fiori amari della speculazione. Doberdò moltiplicò le fabbriche; accoppiò i pomodori col formaggio, fiancheggiò l’industria col commercio; conobbe il meccanismo delle banche svizzere, l’intrico dei finanziamenti statali, il giro del denaro che non esiste, quella selvaggia rapina sociale che consente di far fallire un amico per alzarsi, con i piedi nella sua testa, ancora più in alto nel mare del denaro che entra ed esce, combinò i finanziamenti a strozzo; fece largo a gerarchie e a deputati. Gli bastava spalancare le finestre del suo ufficio e contare, nel cielo della città, le sue ciminiere, vedere come si moltiplicavano nell’azzurro delle sue colline natali, perché certe nostalgie in cui padre madre fratelli e amici irrompevano nel suo animo e gli chiudevano lo stomaco, svanissero, tornando a placarsi nel sonno della sua coscienza. Era facile, troppo facile, perché tutto questo potesse durare a lungo negli anni ma intanto, ciò che doveva tramutarsi in prigione, gli dava il senso di una grande libertà conquistata. Sì, che i telefoni si moltiplicassero, che le chiamate da città a lui sconosciute diventassero sempre più abituali – Londra, Parigi, New York – che i suoi compagni di un tempo scomparissero per sempre dagli affari. Non aveva dunque tempo per le considerazioni, o forse cercava di non averne, e di appurare cosa pensava di quella città che mangiava Doberdò, che calzava Doberdò, che leggeva il giornale finanziato da Doberdò. Lo amava, lo odiava? Inconsapevolmente, non gli importava troppo che fosse odio o amore; l’importante era che fosse indifferenza “ (pagg. 129- 134).
Clementina Marchi è la moglie di Doberdò, un’arpia secondo il Gazza “quando, dalla vetrata del suo ufficio, vedeva spuntare, al culmine dello scalone del palazzo di fronte, Clementina Doberdò”. Era lei l’artefice delle fortune di Doberdò. Esce sempre da casa assieme al marito e al figlio per recarsi in chiesa dove va a confessarsi dal vicario Martinolli. Ci tiene ricevere lungo la strada, il saluto reverente di quanti la blandiscono ma in cuor loro non la possono vedere, come lei d’altronde non può vedere nessuno dall’alto del suo lignaggio. Lo dice chiaro e tondo all’avvocato Cantoni la prima volta che lo conosce. In chiesa si inginocchia davanti alla grata per confessarsi: “Doberdò la fissò un attimo, ne provò pietà e dispetto e, quasi stupendosene lui stesso, ma come già altre volte gli era accaduto negli ultimi tempi, provò anche un odio sottile, inarrestabile, per quella faccia che implorava, per quelle mani tremanti, per quel corpo che né gli anni, né la malattia avevano intaccato nella sua nervosa eleganza” (pag. 136). Quando si accorge che il marito ha un’amante e di che rango sociale, ricorre al vicario mons. Martinolli perché convinca Doberdò a porre fine alla relazione. Questi, nel corso di un’uscita con il commendatore, trova il modo di dirgli che non deve perdurare nel peccato. Doberdò gli risponde: “Caro Monsignore, è inutile che stiamo a discutere. I preti, certe cose, non possono, o non vogliono, afferrarle. Potrei dirle che a quella ragazza io voglio bene, che almeno con lei non debbo guardarmi alle spalle, che comincio a capire tante cose, a guardarmi intorno con altri occhi, Monsignore mio, e più sani, più puliti, più generosi e, se vuole, anche più cristiani ed è stata proprio lei a spingermi a questo, lei, quella ragazza che lei disprezza. – Io non la disprezzo, la compiango! … – Lei non ha diritto di compiangerla! Compiangiamoci tra di noi, piuttosto! Io, lei, il Gazza, Pedrelli, quel farabutto di Mastrangelo, e tutti gli altri… Io con quella ragazza, ci sto bene, da papa ci sto, e voglio continuare a starci, e non mi importa di niente. Anzi, questa è l’occasione giusta per mettere via le ipocrisie, con i falsi pudori e per dire a lei, chiaro e tondo … che non intendo porre fine a questa relazione. E se mi mettono i bastoni tra le ruote, guarda un po’, io ci vado a vivere insieme, notte e giorno, e un figlio ci faccio! Un figlio!… Un figlio sano, bello, santoddio, un figlio come si deve! Un Doberdò col sangue dei Doberdò… Il mio sangue che non è senile, senile sarà lei, mia moglie, e tutti quanti… Il mio sangue che ha i suoi diritti, che mi avete infrollito voi, preti, approfittatori, donnacce da società! Quelle sì che sono donnacce, e lo sa anche lei che lo sono, eppure ci scherza, ci ride, eppure ci va in casa…Glielo dica anche a mia moglie… glielo dica che è basta anche per lei, e che ha smesso di rompermi l’anima, che avete messo tutti, tutti” (pag.204- 207).
Quando tutti e tre, Annibale, Clementina e il figlio Giampieropasseggiavano per il centro, l’avvocato Cantoni li definiva “il padre, il figlio e lo spirito santo”. Annibale era il più patetico, il più scimunito e con poca voglia di studiare il figlio Giampiero. Doberdò deve molto a sua moglie ma sposandola ha perso anche ogni libertà di parola. E’ come un cagnolino al guinzaglio. Clementina sceglie per lui tutte le persone che contano: il vicario Martinolli, l’avvocato Cantoni, il questore Mazzullo, l’industriale Farinacci, Mastrangelo, il Gazza. Tutti sono attorno a Doberdò per riverirlo e spillargli denaro e favori, servili e pronti a tutto. Doberdò non è stupido ma la moglie lo ha quasi reso suo schiavo: “Lo sa benissimo ciò che passa in quei cervelli, dove la frase giusta, la richiesta, la leccata complimentosa si arricciano e si tormentano, pronte a saltare verso di lui come tanti grilli. Le cambiali di Farinacci, le vertenze sindacali di Mastrangelo, il Mi scusi, commendatore, ma da Roma, vorrebbero, del Questore Mazzullo, perfino le partigianerie ruffiane del politicante Gazza e i sospiri poetici dell’avvocato Cantoni” (pag. 99). Con Irene, Annibale Doberdò ritrova la libertà di giudizio. Irene è semplice e schietta, sincera, come lo era Doberdò prima di sposarsi. La risata genuina e le proprie origini contadine, a contatto con la Califfa, si ridestano come d’incanto. Questa rinata libertà permette a Doberdò di cogliere tutte le falsità di cui è attorniato. Meglio lasciar perdere tutto e concedersi una vacanza con la Califfa, magari su un prato dove è possibile, finalmente, dimenticare gli appuntamenti con gli onorevoli di Roma, con il Vicario Martinolli che gli chiede il suo appoggio per l’istituzione di una scuola privata. Meglio bere vino a volontà, apprezzare il canto delle cicale e il ronzio dei mosconi: “C’è da ridere, Califfa mia, per vent’anni mi sono mancate le cicale e i mosconi. Vent’anni come se non esistessero né cicale né mosconi”.
Lo studio di Doberdò è un andirivieni di postulanti, ruffiani, politicanti, religiosi: “Congedato il consulente, alle undici toccò all’insegnante di Giampiero Doberdò. Il ragazzo, glielo dico francamente, mi preoccupa un poco, disse il professore. E’ intelligente, perfettamente ricettivo. Assorbe, digerisce, assimila, ma. – Ma? – chiese Doberdò. – Non restituisce, o non vuole restituire, quello che filtra. – Non capisco – Voglio dire che tiene tutto chiuso dentro di sé, che non collabora con l’insegnante, che, pur nella sua fragilità fisica, direi, è cocciuto, con na sua presunzione, con una sa diffidenza, mi consenta, con i compagni e con gli insegnanti. – Uno stronzo – pensò Doberdò” (pag. 154). E’ il giudizio che il padre ha su suo figlio e sarà sempre lo stesso.
Irene Giovanardi entra a far parte dell’alta società, quella che conta, con la sua eleganza ma non perde nulla della fierezza di un tempo. I lacchè quelli che stanno attorno al potente di turno per scopi personali non fanno caso a lei. Sono abituati a servirsi della donna per sfogare i loro bisogni sessuali. Alcuni pensano che Annibale Doberdò, arrivato ai sessant’anni, abbia perso la testa, ma lui non ci fa caso. Sta con lei perché si sente ringiovanito di vent’anni. Fa del bene ai bambini poveri aiutato da lei che non dimentica mai le proprie umili origini. Solo una sera, in trattoria, Irene, in compagnia della gente che conta, sbotta con tutta la sua ira, violenza e passione. A tavola si sta parlando di piano regolatore della città. Sente dire dagli addetti ai lavori che la puzza dei poveri arriva sino ai ricchi, quindi bisogna farli sbaraccare. La Califfa vomita sui commensali impegnati a sostenere simili idee tutta la sua ira. Doberdò apre gli occhi. Non è più disposto a vivere di viscide connivenze. Capisce che il rispetto e i favori ottenuti in tanti anni sono stati solo una conseguenza della sua ricchezza. La gente è devota al suo denaro, non alla sua intelligenza. Si sente finalmente libero e ne ha per tutti, il primo al quale parla apertamente è il Gazza, il suo segretario personale: “Senta, caro mio, vorrei che oggi non parlassimo di politica. Per la politica c’è sempre tempo! – Ma commendatore, c’è un fondo di politica estera particolarmente interessante, direi persino… – Lasci stare la politica estera, amico mio, per favore, e mi ascolti. Quanti anni sono, che ci conosciamo? – Non capisco perché me lo chiede, commendatore ma… tanti direi, è come se ci conoscessimo da sempre… mi pare! – Ha ragione. E’ proprio come se ci conoscessimo da sempre, e mai, una volta che ci siamo guardati negli occhi, come in questo momento per dirci francamente la verità… – Mi scusi, ma continuo a non capire… – disse. – Tanti anni – proseguì Doberdò – senza esserci mai parlati come ciascuno di noi avrebbe voluto… Lei, senza mai rinfacciarmi la noia del suo servilismo, il disprezzo, l’ironia verso il padrone… – ma, commendatore, cosa sta dicendo… E’ assurdo! – lo interruppe il Gazza. – Mi lasci parlare! … E io, io con la tristezza che mi dà il dover reggere il suo gioco e stare a parlare con lei di cose in cui non crede!… Stia seduto, la prego. Fa parte del suo mestiere star seduto e ascoltarmi. La prego anche per questo! – Commendatore, non tollero! – Cosa? – urlò Doberdò, e le segretarie, nell’altra stanza, tornarono a guardarsi in faccia. – Lei ha passato una vita a tollerare, lei è stato un tollerante di professione… tolleranza uguale a cinquecentomila lire al mese… adesso non tollera!… – Commendatore… – Ci siamo tollerati entrambi – proseguì Doberdò- Ma perché poi? Ma per che cosa? … Tollerati con odio, con fatica, con disprezzo, con noia! Mai il coraggio di mandarci al diavolo, ma perché? – Commendatore – riusciva soltanto a balbettare il Gazza – commendatore, prendersela con me, così, una bella mattina, all’improvviso… Lei sa che non è giusto… – … Perché i miei uffici si popolassero di raccomandati, perché ci fossero mille cose che non vanno, per copriresporcizie che non dovevamo coprire, per chiudere porte che dovevano restare aperte, perché anche la religione non fosse che una mistificazione!… ( pag. 212- 213 ).
Anche nei confronti dell’insegnante di suo figlio, che va male a scuola, non va per il sottile: “Lo rimandi, lo bocci, se è giusto! E se ha la puzza sotto il naso, mi scusi, gli faccia capire che ce l’ha chiaro e tondo. Lo tratti come se non fosse mio figlio, lo tratti come tutti gli altri, glielo impongo. – ma io credevo… – balbettò l’insegnante, temendo di perdere l’appannaggio che, da qualche anno, gli permetteva comode vacanze al mare. – Se è per quella cosa, stia tranquillo. Li avrà lo stesso. Non come compenso, se non ci sarà corrispettivo, ma come regalo! … Ma quello che esigo, è che mio figlio non goda più di favoritismi che gli sono soltanto di danno!” (pag. 216). Le visite che Doberdò fa alla Califfa gli fanno recuperare sincerità nei rapporti con le persone e la gioia di vivere. Califfa non è solo amore, è anche insegnamento, passione e verità. Annibale Doberdò è talmente felice che quando decide di rincasare, chiede cortesemente al suo autista di accompagnarlo a fare due passi. Dopo tanti anni, i due non si erano mai detti nulla, Doberdò scopre che il suo autista è invecchiato, che ha figli grandi e che il maggiore avrebbe bisogno di una mano: “ Domani passa da me… – disse Doberdò. – Vediamo che cosa si può fare di questo genio. L’autista lo vide allungare meglio le gambe, ripiegare la testa, come se volesse dormire. – Grazie, commendatore, disse. – E di che, mormorò prima di chiudere gli occhi, placato finalmente, e mormorò altre parole, che l’autista non afferrò, prima di udire: perché l’importante è non sentirsi soli come un cane… l’importante è farcela e non sentirsi soli… Doberdò vide la Califfa, pronunciando queste parole, prima di non vedere più nulla; la Califfa così come l’aveva lasciata, in cima alla scala, che gli sorrideva, la mano alla ringhiera. L’autista pensò che Doberdò era un uomo degno, molto più di quanto la gente dicesse, e gli volle bene, in quel momento, mentre l’automobile si lasciava dietro la campagna, nel polverone fiacco che si alzava tra le siepi nude, verso la città. Davanti a palazzo Doberdò, l’autista spalancò la portiera. – Commendatore, disse – commendatore e toccò Doberdò sulla spalla, per svegliarlo. Ma quella grande testa da cardinale non si mosse, rimase rovesciata sul velluto, a bocca aperta. Solo la mano ingioiellata scivolò lungo lo schienale, per battere inerte, senza più vita, sul fianco” (pag. 223- 224). Doberdò muore per un infarto improvviso.
Ai funerali ci sono tutti quelli che in vita gli sono stati vicini ma per opportunismo. Anche in quest’occasione non si smentiscono. Recitano la parte che si erano cuciti addosso. Gazza, il segretario del potente industriale è chiamato a pronunciarne l’elogio funebre, dopo di lui, la parola passa a mons. Martinolli, il vicario che era anche confessore di famiglia. Solo la Califfa non assiste a tutta questa messinscena. E’ rimasta sola a casa, nell’appartamento che le aveva dato Doberdò. Il suo è un pianto muto, sincero e solitario. Non ha nulla da spartire con i burattinai che sono attorno al feretro dell’amante. Nei giorni successivi al funerale va a pregare sulla tomba di Annibale Doberdò; non versa una lacrima, ma testimonia il filo che li tiene uniti, la vicinanza, mentre una frase ritorna martellante: “L’importante è essere vivi, Califfa, vivi!”. Irene Giovanardi rifà la valigia e ritorna da Viola che l’accoglie nella sua casa, dove La Califfa continuerà ad accudire i figli dell’amica.E’ l’epilogo del romanzo.
Personaggi secondari: Bruna, Anita, Gilda Fumagalli,Pedrelli.
Bruna e Anita sono amiche di Viola. Partecipano eccitate ai preparativi per la prima dell’opera al Teatro Regio di Parma. L’attesa cominciava già al pomeriggio “Quando Viola, oscena e allegra, saltellava nuda per lo stanzone della sua casa, intorno a lei, le amiche, bianche e nude anch’essa, a versare acqua nel tino, e poi Bruna, sgangherando la bocca in no strepito felice, come se fosse stato il primo bagno della sua vita, l’Anita – che prima di ritrovarsi in quel manipolo scatenato aveva lavorato da< parrucchiera – arroventava i ferri si carboni per i riccioli della messa in piega. Che vita, che luce, in quegli spruzzi che saltavano dal tino, in quelle risa che parevano di ragazze innamorate, in quel canto che s’alzava dalla povera baracca e si stendeva sui prati intorno e lo udivano persino i muratori arrampicati sui tralicci dei casoni nuovi” (pag. 107). Sono molte le pagine del romanzo, attraverso le quali Bevilacqua si sofferma a descrivere gli ambienti popolari del quartiere dove La Califfa è nata. Li attraversa con il macchinone guidato da Doberdò che fatica non poco a battere strade polverose e malandate. Irene vuole che il suo protettore veda qual è il suo ambiente di nascita e quale scommessa ha fatto con la vita, legandosi a lui in tutta sincerità e nella libertà più assoluta. Non era stata lei a cercarlo ma lui l’aveva scelta come compagna.
Gilda Fumagallièla maestra incaricata da Doberdò di innalzare il livello culturale della Califfa. Così viene presentata dalla stessa che vive nell’appartamento donatole da Doberdò: “Poi, verso le undici, veniva la Gilda Fumagalli, la mia maestra, una zitella che, a letto con un uomo, forse c’era stata una volta sola nella vita, ma le era bastata e come, perché aveva un figlio già di trent’anni. Donnetta, a vederla, ma galleggiava in certe arie risentite, lei genio e io cretina, lei santa e io da marciapiede” (pag. 140). Manifesta nei suoi confronti tanta pazienza, incoraggiando l’allieva a fare moltiplicazioni, a svolgere temi, del tipo, ”I bei giorni della tua infanzia”, “il primo viaggio della tua vita”, “Come ricordi tuo padre” e invitandola sempre ad applicarsi e obbedirle, dicendole cosa andava bene e cosa no. L’allieva ci mette poco a vederla come un’intrusa, battezzandola come se fosse stata poi sua maestà il re. Irene Giovanardi narra così questi momenti vissuti con GildaFumagalli, la sua maestra: “Io avevo appena finito la terza, figuriamoci, e poi alla maniera dei nostri quartieri dove il maestro, se non riga dritto, rischia. Con la penna, m’arrangiavo male, anche se la parola, invece, m’era sempre venuta facile, perché m’era sempre piaciuto ascoltare gli altri, voglio dire imparare più con le orecchie, che con gli occhi” (pag. 140). Davanti ai temi assegnati, poi, l’allieva sbotta: “Dico io, o era stupida o la faceva. Io credo che cercasse di sfottermi o di farmi vergognare a scrivere la verità. Ma non ci cascavo e cercavo di parlare dei padri, dei viaggi e delle belle giornate di qualcun altro di mia conoscenza… ma che padri, ma che vacanze, ma la smetta di fingere!… Finge, con quella faccia, finge!… Lo sa benissimo che mio padre non so chi è, e quanto a infanzia strillavo di fame e se facevo un viaggio era verso il cimitero, andata e ritorno”(pag. 141). La situazione degenera: “A vederla, allora. Rossa, con certi occhi di fori, tutta scalmanata. Mi dice che da una come me, da una del mio tipo… – Ah, ecco dove ti volevo, scimmia che non sei altro!… Da una come me, cosa?!… mi metto a strillare. – Tanta sfacciataggine!… e che insomma riferirà a chi sappiamo io e lei, perché ha saputo far sbollire ben altre teste calde… E poi, testuale, con quella sua faccia da ruffiana, non mi dà dell’incolto, vizioso animale? – Animale a chi?… Ohé, Gilda, patti chiari, faccio il giro della tavola, che se non c’era il filo del ferro da stiro lì in mezzo alla stanza, mentre quella se la batteva dalla parte opposta, la prendevo per il ciuffo che glielo davo io il vizioso animale” (pag. 141). Irene, La Califfa è sanguigna, sincera e non tollera che le sia dia della donnaccia. Si consiglia sempre con Viola che va qualche volta a trovarla nel lussuoso appartamento. L’amica le dice come comportarsi con tutti. Gilda Fumagalli la ritroviamo alcune pagine più avanti quando è in compagnia di altri personaggi che fanno parte del circolo del Doberdò, invitati dal conte Vittoriano Pedrelli.
Vittoriano Pedrellivanta il titolo di conte. E’ un altro ruffiano che fa parte del circolo di Doberdò. Possiede una villa a Parma, che ogni anno, alla prima domenica di settembre, la apre agli amici degli amici che giungevano da Palermo, da Venezia e da Roma. Alla villa del cinquecento è annesso anche un norme parco dove nel giorno della festa si scatenano levrieri e si odono colpi di schioppo. E’ la battuta di caccia alla quale partecipano tutti gli invitati: “Il Pedrelli, analizzando col contagocce patrimoni e reputazioni, giocava sulle sue concessioni: per accentuare lo smacco degli esclusi, il loro prurito competitivo, per spingerli a farsi avanti con cauti, ma precisi favori. Così Vittoriano Pedrelli vendeva il suo fumo, trasformandolo in contante, con ingegno da alchimista, volutamente retorico e naturalmente cinico, ma attento studioso della presunzione degli altri: una presunzione che, almeno per un giorno, diventava in ciascuno gioia dello spirito, perché in quella prima domenica di settembre, nella verde vallata gremita, non c’era chi non si sentisse eletto in un precario paradiso: fosse dovuto alla forza penetrante del formaggio grana nel mercato europeo, o a qualche concessione accordata a un Pedrelli in tenace polemica con le sue debolezze”(pag. 172- 173). Nel giorno della festa, il padrone della villa strabuzza gli occhi, quando vede che Doberdò ha accanto a sé non la moglie Clementina ma La Califfa con “la camminata spavalda, quel modo volgare di portare alta la borsetta sul seno, la spregiudicatezza di qui capelli tenuti su con il nastro” (pag. 173). Doberdò comincia a sudare. Decide di avvicinarsi. Gazza lo guarda sbalordito e non dice nulla. Con l’ingresso nella sua dimora di quella donna, teme la reputazione. Doberdò, “leggendo negli occhi smarriti del conte, aveva voluto ordire ai suoi danni la consacrazione ufficiale della sua noia, della sua vuotaggine, degli inutili miti in cui aveva creduto” (pag. 174). Proprio per far capire al conte che Doberdò non si separerà mai dalla sua Califfa, lo incarica di tenere alcune ore di lezione in uno dei suoi tanti maneggi, Così Irene, sotto la guida del conte, prova anche l’ebrezza di andare a cavallo sotto gli occhi di Clementina che la guarda impotente. Non manca però la signora Doberdò di inveire contro suo marito: “Testone! Testone! Ripeteva Clementina e, dalla cucina di sotto, udivano il suo piede battere, smanioso e impotente, quel tacco intollerante che accompagnava un pensiero – Stavolta dura troppo! Adesso basta! Era quasi un mese, infatti, che durava, con la Califfa attrice svagata nell’infantile aggressività del suo divertimento, quei capelli, quel seno eretto, quelle gambe strette ai fianchi del cavallo, e che facevano pensare a ben altre, e generose, strette; e lei spettatrice, il suo volto fermo di giudice dietro la vetrata, tra le macchie rosse delle tende” (pag.192).
Tutto il romanzo è una gioiosa galleria di personaggi, descritti a tutto tondo nella loro vuotezza. Doberdò si accorge di essere attorniato da ruffiani, portaborse, politicanti, religiosi, tutti intenti ai loro interessi. Trova invece in Califfa l’unica persona che gli ridà il gusto di vivere, perché è schietta e sincera. Non è per niente pesante la lettura del romanzo, anzi ci sono alcune pagine davvero divertenti. Doberdò va da Martinolli per confessare i propri peccati: “Padre, ho permesso che rovinassero un uomo, padre di tre figli, che stava per fallire, o meglio, uno che abbiamo fatto fallire” (pag. 138). Il vicario Martinolli aveva contribuito anche lui a rovinare il poveretto. Il peccato commesso era comune, ma l’uno era il penitente, l’altro il confessore.
Raimondo Giustozzi
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