Come ci hanno insegnato i grandi storici del secolo scorso, Fernand Braudel in testa, le
città hanno da sempre caratterizzato intere epoche col successo della loro cultura, della
loro economia e del loro potere. Esse hanno guidato lo sviluppo dei territori circostanti
e dei paesi apportando leadership economica e strategica, la raffinatezza della loro cultura
umanistica e artistica, la capacità amministrativa e organizzativa, l’efficienza delle infrastrutture
di trasporto e comunicazione, la proiezione internazionale. Ad esse dobbiamo i concetti (e
le pratiche) di libertà, democrazia, modernità, nonché, in ambito economico, i più rilevanti
processi di innovazione grazie alla concentrazione di saperi e di capacità imprenditoriali.
Scrive Braudel (1982, p. 450): “Le città sono come dei trasformatori elettrici: esse aumentano
le tensioni, precipitano gli scambi, rimescolano all’infinito la vita degli uomini”. Ma, soprattutto,“
sono dei moltiplicatori capaci di adattarsi al cambiamento, di stimolarlo, di favorirlo. (. . . )
Sono ad un tempo dei motori e degli indicatori: esse provocano e segnalano il cambiamento”
Braudel (1981, p. 35).
Proprio per questo ormai da vent’anni le città sono tornate al centro del dibattito internazionale
e dell’agenda delle politiche di sviluppo, in Europa ma non solo. L’Unione Europea a
partire dal 2000, ha introdotto un asse urbano nelle politiche di sviluppo regionale e i fondi
strutturali, e ha appoggiato la predisposizione di agende urbane. Si vedano al proposito quelli
che ritengo i documenti non solo culturali ma politici e di policy più interessanti: il Quadro
d’azione per uno sviluppo urbano sostenibile del 1998, presentato dalla Commissione Europea
dopo una larga intesa fra le diverse Direzioni Generali che intervengono con risorse anche
sull’ambito urbano (solo DG Agricoltura si era negata, non a caso) e la Carta di Lipsia del
2007 del Consiglio Europeo, sotto presidenza tedesca. In entrambi i documenti si afferma che
le città stanno alla base della competitività, dell’innovazione, della sostenibilità e, non meno
importante, della democrazia: attraverso di loro il policy maker si avvicina al cittadino.
Ma di quali città stiamo parlando? Di tutte naturalmente, anche se i ruoli soprattutto fra
grandi e grandissime città da una parte e medie e medio-piccole città dall’altra sono assai
differenti. Purtroppo al momento due visioni abbastanza contrastanti si confrontano su questo
tema nel dibattito internazionale: una visione che chiamerei tradizionale e mainstream, che
vede solo nelle grandi città i motori della crescita, e una visione moderna che vi si oppone
decisamente, a mio avviso per solide e del tutto condivisibili ragioni.
2 1. Una visione tradizionale: priorità alle grandi città
La visione tradizionale, sia nell’interpretazione del ruolo delle città che nella individuazione
delle migliori politiche di intervento, vede nelle sole grandi città i veri driver dello sviluppo,
accettando, anche da un punto di vista politico, il fatto che lo sviluppo che ne consegue sia
necessariamente squilibrato. E’ questo il punto di vista espresso esplicitamente dalla Banca
Mondiale (World Bank, 2009), che si appoggia sull’esistenza di “economie di agglomerazione”,
e cioè di vantaggi economici e di efficienza legati alla grande dimensione urbana.
Ne consegue che le politiche di sviluppo, in particolare di supporto ai paesi emergenti,
dovrebbero dirigersi al sostegno delle grandi e grandissime città, in primis le città capitali,
dopo aver soltanto garantito una certa presenza di infrastrutture relativamente equilibrata sul
territorio. I frutti di uno sviluppo anche squilibrato potrebbero essere in un secondo tempo
riorientati a favore delle regioni arretrate e delle piccole città in un’ottica di pura redistribuzione
ed equità sociale: comunque il tasso di crescita complessivo del paese resterebbe superiore a
quello realizzabile con un investimento pubblico più omogeneo sul territorio.
Il supporto a questa posizione viene trovato, fra gli altri, nella posizione del Premio Nobel ?,
laddove egli parla “dell’influenza pervasiva della legge dei rendimenti crescenti”. Altri importanti
studiosi di economia e geografia urbana chiamano in causa le stesse economie di agglomerazione
come le forze che hanno creato le mega-city e le grandi city-region (Fujita e altri, 1999; Scott,
2001; Rosenthal e Strange, 2001; Glaeser, 2011).
Su questo piano, l’evidenza empirica è effettivamente chiarissima. Le grandi aree metropolitane
sono le più ricche aree dell’Unione Europea (Figura 1); fruiscono della migliore e
maggiore accessibilità continentale (Figura 2); mostrano una produttività maggiore delle città
più piccole. Come si vede in Figura 3, il contributo allo sviluppo complessivo dei paesi è
decrescente passando dalle grandi alle piccole città (anche se, come si vedrà più avanti, è
importante notare che non sono quasi mai le città capitali, con il massimo livello di primazia
nei rispettivi sistemi urbani, a fornire il contributo maggiore).
Su quali elementi si appoggia la maggiore produttività ed efficienza delle grandi città? È
facile rispondere:
- sulle economie di scala nella produzione di beni e soprattutto di servizio urbani,
- sulla selezione dei settori più avanzati, capaci di pagare le maggiori rendite urbane,
- sulla selezione delle funzioni superiori (direzionali, tecnologiche, di servizio),
- su processi cumulativi di domanda-offerta: fornitura di infrastrutture (che sono localizzate
primariamente dove c’è maggiore domanda, e dunque nelle grandi città), di servizi pubblici
avanzati (università, centri di ricerca).
Tutto ciò è ben noto e universalmente accettato: non vi è dubbio che le grandi città siano più
ricche e generino redditi superiori delle città medie e piccole. Quello che non è accettabile e non
è accettato è il passo logico successivo, e cioè l’aspettativa che le economie di agglomerazione
conducano direttamente a un maggiore tasso di sviluppo delle città grandi, come affermato
dalla World Bank, da Krugman e da Glaeser in particolare.
3 Una visione pi `u moderna
In un lavoro recente (Camagni e altri, 2016) abbiamo individuato due scorciatoie logiche
inaccettabili nel discorso tradizionale. Innanzitutto si stabilisce un collegamento diretto
fra economie di agglomerazione (un concetto statico) e crescita urbana. Ma la presenza di
rendimenti crescenti di scala urbana indica solo una superiore efficienza e produttività delle
città più grandi rispetto alle più piccole e non che un aumento della dimensione urbana implichi
automaticamente una crescita di produttività.
Detto in modo più formalizzato si confonde una derivata rispetto alla dimensione per una
derivata rispetto al tempo! Se _ è la produttività, t il tempo e Dim la dimensione urbana:
d_=dDim 6= d_=dt (1)
Come ha messo in evidenza giustamente Henderson (2010), una relazione di equilibrio e una
correlazione statica tra dimensione e performance sono interpretati erroneamente come una
relazione causale e dinamica.
In secondo luogo, è discutibile l’affermazione di ? che le grandi città possono crescere più
delle piccole perché la loro più alta produttività può generare maggiore attrattività su imprese
e famiglie esterne. Rispondiamo che per parlare di attrattività si dovrebbero considerare non i
livelli relativi di produttività – che si possono interpretare come benefici lordi della dimensione
urbana – bensì i benefici netti, scontando dai primi i maggiori costi urbani che le grandi città
presentano: costi immobiliari, rendite, costo della vita, tutti assai superiori nelle grandi città. I
benefici netti, diversamente da quelli lordi, se comparati fra grandi e piccole città si dimostrano
assai più equilibrati e simili; pertanto non è possibile a livello astratto attribuire alle grandi
città necessariamente un maggiore tasso di crescita.
La realtà empirica almeno europea ci dimostra come quanto detto sia vero: si è visto che non sono le città di rango uno quelle che forniscono il maggiore contributo alla
crescita nazionale. Inoltre, se guardiamo allo sviluppo recente pre-crisi delle aree metropolitane
in Europa vediamo, calcolando l’interpolante dei tassi di crescita di città a diversa dimensione,
che sono piuttosto le piccole aree metropolitane a mostrare i tassi di crescita maggiore. Solo nella crisi sembra che vi sia un maggior equilibrio complessivo nei tassi di crescita
La visione moderna, che potremmo chiamare istituzionalista ed evolutiva, è orientata,
diversamente da quella tradizionale, al sostegno di tutte le regioni e delle città di grande ma
soprattutto di media dimensione. Questa è ad esempio la posizione molto influente e rispettata
dell’OCSE di Parigi (OECD, 2006, 2009), nonché della Commissione Europea (European
Commission, 2009). Quali sono le più rilevanti giustificazioni per una tesi di questo genere?
- Innanzitutto l’obiettivo di sfruttare al meglio il “capitale territoriale” esistente e naturalmente
disperso (OECD, 2001). Per capitale territoriale si intende quell’insieme di risorse,
fattori e asset -naturali e artificiali, di natura pubblica, privata o “comune”, materiali
o immateriali, produttivi o umani, cognitivi, relazionali e sociali – che rappresentano e
determinano il potenziale competitivo delle singole regioni e città (Camagni, 2009, 2017b).
Esse sono presenti con qualità differenziata in tutti luoghi ove esiste una comunità umana,
e quindi normalmente diffusi sul territorio;
- in secondo luogo perché, da quanto indicato più sopra, molti altri elementi aldilà della
pura dimensione urbana conducono allo sviluppo: assetti istituzionali, reti, capitale sociale,
fiducia (OECD, 2011);
- in terzo luogo perché noi riteniamo che il tradizionale trade-off fra efficienza ed equità (o più
modernamente fra competitività e coesione) non esiste o appare comunque sopravvalutato
(Camagni e altri, 2015);
- in quarto luogo perché politiche adeguate come quelle basate sulla smart specialisation
(Coffano e Foray, 2014; Capello e Kroll, 2016; Foray, 2016) e su una filosofia place-based
(Barca, 2009) possono essere assai efficaci per tutti i territori; e agendo su tutti i territori
è possibile massimizzare il tasso di sviluppo complessivo;
- in quinto luogo poiché critiche convincenti alla tesi tradizionale, che siano le grandi
città i veri driver dello sviluppo, hanno mostrato come molto del vantaggio di queste
ultime dipenda dall’operato di élite locali e ruling class che favoriscono naturalmente la
localizzazione di servizi avanzati nelle grandi città, dove risiedono;
- infine perché oltre alle economie di agglomerazione esistono anche le diseconomie di
agglomerazione, che si manifestano al di là di una certa densità di sviluppo su aree locali
comunque limitate.
4 Alcuni elementi qualificanti e determinanti dello
sviluppo territoriale
Avendo citato le economie ma anche le diseconomie di scala urbana, vale la pena approfondire
un po’ l’argomento. Ogni sistema in cui si verificano processi di crescita in presenza di alcune
risorse limitate – ad esempio quelle territoriali- è soggetto a processi naturali in cui si verificano
dapprima rendimenti crescenti ma poi decrescenti (per effetto di scarsità). In Figura 6 si
rappresenta questa condizione ad esempio identificando astrattamente città piccole, città medie
e città grandi: per ciascuna di esse i benefici urbani netti della crescita si possono rappresentare
con una curva logistica in cui, approssimandosi la città a una dimensione massima, essi
divengono costanti o addirittura decrescenti. La continuazione dello sviluppo è purtuttavia
possibile, ma a condizione che si superino alcune indivisibilità e alcune caratteristiche limitanti
attraverso quella che in ecologia matematica si chiama una “dinamica strutturale”. Una piccola
città, se cresce troppo, senza innovare ad esempio nelle funzioni ospitate o nelle tecnologie di
mobilità interna, va incontro proprio alle diseconomie di cui sopra; se invece riesce a trasformare
alcune funzioni interne, a migliorarle o ad attrarne altre di migliore qualità dall’esterno, essa
può continuare a crescere in quanto i maggiori benefici derivanti da queste innovazioni saranno
in grado di controbilanciare i maggiori costi legati alla più grande dimensione urbana.
Il messaggio è dunque questo, assai importante: rendimenti crescenti si possono presentare
per tutte le tipologie urbane, ma a partire da un certo momento, in presenza di costi di
localizzazione urbana crescenti, è possibile continuare a crescere solo attraverso dinamiche
“strutturali”, legate all’innovazione nelle funzioni e nelle strutture interne alla città.
Un secondo concetto geografico, molto interessante in un’ottica di crescita delle città medie
e piccole per superare l’apparente contraddizione della loro minore efficienza, è il concetto di
“borrowed size” (“dimensione presa in prestito”), presentata da Alonso (1973) e ripresa dalla
scuola geografica di Delft più recentemente (Burger e altri, 2014). “Una piccola città o un’area
metropolitana può mostrare alcune delle caratteristiche di una più grande si è collocata vicino
ad altre concentrazioni di popolazione” (Alonso, 1973, , pagina 200). Il concetto può essere
esplicitato ove viene presentata la curva della produttività di
una città isolata e contemporaneamente la curva, tratteggiata, di una città localizzata in un
contesto metropolitano: si percepisce agevolmente che lo stesso livello di produttività può
essere raggiunto dalla seconda città in corrispondenza di una dimensione urbana inferiore alla
prima. Si comprende bene come questo concetto possa essere sfruttato strategicamente da
città anche di piccola dimensione, integrate in (e non solo collocate all’interno di) sistemi
metropolitani vasti ed efficienti.
Che cosa determina l’effetto di “borrowed size”? Innanzitutto l’elemento della dimensione
dei mercati: la piccola o media città si avvantaggia dalla presenza di un mercato del lavoro
più vasto e più diversificato in cui è inserita, e dalla presenza di un più vasto mercato di beni
finali. In secondo luogo un effetto funzionale (che possiamo chiamare di “borrowed function”: la
piccola o media città si avvantaggia della più ampia accessibilità ai servizi della città maggiore
ed anche degli spillover di funzioni in uscita dalla stessa (alla ricerca di localizzazioni meno
congestionate e meno care nella piccola città satellite.
Esiste infine un terzo dispositivo che può avvantaggiare in termini di efficienza le città di
minore dimensione: esso si basa sul concetto di “reti di città” (Camagni, 1993; Camagni e
Capello, 2004): funzioni più elevate possono essere sviluppate nella città di minori dimensioni
grazie a relazioni di cooperazione non gerarchica con città di simile dimensione, anche distanti.
Attraverso la collocazione in una rete di cooperazione, la città può sviluppare funzioni di alta
qualità, in genere tipiche di città maggiori, anche senza crescere di dimensione, a condizione di
essere ben integrata in senso trasportistico e comunicativo con la città partner per realizzare
una massa critica di mercato maggiore. In questo senso si parla di “reti di sinergia”, allorché le
città in rete svolgono funzioni simili; è questo il caso di città turistiche di dimensione limitata
che si organizzano in itinerari ben integrati con altre città; è il caso delle città finanziarie
integrate in grandi mercati globali. Si parla invece di “reti di complementarietà” quando le
città in rete svolgono attività diverse e si dividono il lavoro specializzandosi ciascuna su alcune
particolari eccellenze.
5 Alcune verifiche empiriche delle ipotesi teoriche
Le ipotesi teoriche tratteggiate più sopra – sulla natura delle economie di agglomerazione, su
altri elementi che possono influenzare la produttività e competitività urbana – devono essere
sottoposte a una verifica empirica, come è richiesto dal metodo scientifico al fine di trovare
continue corroborazioni. Questo è stato fatto in due successivi articoli (Camagni e altri, 2014,
2016) e in un volume (Agnoletti e altri, 2014) di cui voglio ora sintetizzare i principali risultati
emersi.
La prima analisi empirica, effettuata sulle aree metropolitane europee presentate da Eurostat,
assume come variabile dipendente, come suggerito in precedenza, i benefici netti urbani (e
non i benefici lordi come la produttività), misurati attraverso un indicatore che ci sembra
molto valido, già utilizzato da altri autori: i valori immobiliari medi al metro, quadro che
effettivamente emergono da una disponibilità a pagare per localizzarsi nelle singole città e che
comprendono oltre ai vantaggi anche i costi urbani. Inoltre sono state definite (arbitrariamente)
tre classi dimensionali di aree metropolitane con limiti di 300.000 abitanti e 1 milione e mezzo
di abitanti.
I risultati più interessanti sono quelli che da una parte confermano l’esistenza di economie
e diseconomie di scala urbana all’interno di ciascuna delle tre classi; d’altra parte, quelli
che indicano come i casi singoli di successo si riferiscano a città che sfuggono ai rendimenti
decrescenti attraverso un forte upgrading delle funzioni ospitate (Camagni e altri, 2014).
Nel secondo contributo, che utilizza la stessa base dati aggiornata, non si distinguono più
le tre classi dimensionali urbane ma si ricercano le determinanti dei benefici netti urbani
complessivi, analizzati sia nel loro livello statico che nella loro dinamica fra il 2004 e il 2011.
Anche in questo caso i risultati sono molto interessanti in quanto con sole due equazioni
comprensive, una per interpretare il livello e una per la dinamica dei benefici netti, si effettua
una verifica di teoria diverse variamente presentate da autori diversi in diversi momenti.
Per quanto riguarda il livello dei benefici netti, si conferma la rilevanza forte della dimensione
urbana, come unanimemente accettato. Tuttavia la dimensione non è l’unico elemento determinante:
altri elementi statisticamente molto significativi sono rappresentati dalla presenza
di funzioni economiche di alto livello (misurate dalla quota di occupazioni di alto livello sugli
occupati totali); dalla qualità delle funzioni presenti nel contesto complessivo, un elemento
che risulta particolarmente rilevante per le città maggiori (oltre che, come ipotizzato, per le
città di dimensioni inferiori); dalla dimensione demografica del contesto urbano complessivo;
dalla presenza di reti di cooperazione fra città sulla lunga distanza, misurate attraverso la
cooperazione in programmi europei di ricerca applicata. Quest’ultimo elemento risulta particolarmente
importante per le piccole città, quelle che, data la limitata dimensione, richiedono
una maggiore massa critica di funzioni elevate come quelle di ricerca.
Particolarmente rilevanti per corroborare la nostra ipotesi principale, e cioè che la dimensione
urbana non genera per ciò stesso sviluppo, sono i risultati sulla dinamica dei benefici netti
urbani. Emerge in modo fortemente significativo che la crescita dei benefici netti non dipende
in alcun modo dalla dimensione iniziale delle città, ma che tutti gli altri elementi già individuati
posseggono una significatività ancora più elevata. Tale crescita dipende dunque dalla
crescita delle funzioni di alto livello, specialmente per le città più piccole; dalla crescita delle
stesse funzioni di alto livello nel sistema urbano complessivo; dalla crescita della dimensione
demografica complessiva del sistema urbano, con effetti soprattutto sulle città più grandi; dalla
presenza (ma non dalla crescita) delle reti di cooperazione fra città. (Camagni e altri, 2016).
6 Implicazioni per le strategie e le politiche pubbliche.
Le conclusioni che discendono dalle analisi qui presentate possono essere sintetizzate nei punti
seguenti.
- Per le città di media e medio-piccola dimensione le modalità per aumentare la loro
efficienza e attrattività (produttività netta) sono numerose e soprattutto indipendenti
dalla dimensione urbana.
- Emerge in modo chiarissimo l’importanza della qualità delle funzioni ospitate e della loro
crescita (che abbiamo chiamato “dinamica strutturale”).
- Soprattutto in un periodo di scarsità di risorse pubbliche, i policy maker dovrebbero
concentrare le risorse disponibili sulle città più capaci di realizzare una strategia di crescita
basata sull’innovazione, sul rinnovamento e la modernizzazione delle funzioni presenti,
nonché sulla cooperazione e l’integrazione con altre città anche localizzate al di fuori del
sistema urbano locale.
- Le medie e piccole città (ma anche le grandi) devono vincere oggi la duplice sfida posa dal
nuovo paradigma tecnologico emergente, che chiamo “culturale-cognitivo”, che è andato ben
al di là del precedente paradigma delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione:
devono da una parte sviluppare nuove funzioni, generare nuova istruzione, favorire ricerca
e cultura ma anche, d’altra parte, generare inclusione, coesione, solidarietà. Il nuovo
paradigma infatti restringe la base produttiva di punta ai ceti sociali più dotati di cultura,
competenze, conoscenze e creatività mentre relega in funzioni di puro servizio la maggior
parte dei ceti a più bassa cultura ed anche quelle che chiamiamo le classi medie, oggi a
forte rischio di disoccupazione (Camagni, 2017a).
- Il ruolo dell’intero sistema urbano-metropolitano regionale, appare sommamente importante
sia per l’efficienza che per la dinamica delle città di ogni dimensione. L’accessibilità a un
contesto avanzato di funzioni metropolitane è cruciale soprattutto per le città più piccole,
mentre la dimensione metropolitana complessiva avvantaggio sia le piccole che le grandi
città.
- Agendo sulle caratteristiche del contesto urbano di area vasta – e cioè sull’integrazione
del potenziale demografico attraverso opportuni sistemi di trasporto e comunicazione,
sul costante aumento della qualità delle funzioni ospitate e sulle reti di cooperazione
interna – è possibile raggiungere importanti risultati sulle performance complessive, anche
senza aumentare la dimensione dei singoli centri urbani. Cruciale in questo senso appare
l’accessibilità interna all’area metropolitana vasta, che crea un vero mercato metropolitano
sia per i servizi e le funzioni superiori, sia per i beni e sia per il lavoro.
- In conseguenza di tutto quanto precede, scommettere non solo sulle grandi e grandissime
città ma anche sulle città di secondo e terzo ordine è vantaggioso per lo sviluppo dell’intera
economia nazionale. Infatti ciò consente:
- di ridurre le tendenze inflazionistiche di uno sviluppo troppo concentrato
territorialmente, che hanno un impatto negativo sulla competitività;
- di sfruttare più a fondo il capitale territoriale necessariamente disperso che è presente
nel sistema urbano complessivo e le specifiche eccellenze delle singole città.
Una recente ricerca realizzata al Politecnico di Milano dal nostro gruppo di economisti
territoriali per l’Unione Europea con un modello econometrico di previsione (forsight) (Camagni
e altri, 2014) ha mostrato che una strategia di supporto alle medie città europee sarebbe, in una
prospettiva di 15 anni, la strategia allo stesso tempo più coesiva e più efficace per lo sviluppo
economico complessivo.
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