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Cultura. Ignazio Silone, Fontamara

Ignazio SiloneIgnazio Silone

Trama del romanzo

Il romanzo “Fontamara”, pubblicato in tedesco, a Zurigo, nel 1933, sconosciuto nell’Italia fascista, sottovalutato nell’Italia democratica, incontrò fin da subito grande apprezzamento da parte di Bertrand Russel, Graham Greene, Lev Tolstoj, anzitutto perché è un romanzo bellissimo. “Moderno per struttura narrativa, commovente almeno agli occhi di chi è capace di commuoversi di fronte alla sofferenza, al dolore e alla speranza di riscatto, anch’essa dolorosa e sofferente, degli oppressi”. E’ stato tradotto in 27 lingue, incontrando uno straordinario successo.

Fontamara è la storia dei contadini di un piccolo villaggio della Marsica, “una zona un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori dalle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato, misero e abbandonato dagli altri”. I Fontamaresi vivono con i proventi della terra, a costo di dure fatiche e di sacrifici inumani; ma la violenza dei potenti colpisce ovunque e l’impresario, un grosso commerciante agricolo, divenuto anche podestà del comune, si assicura le acque dell’unico ruscello per le sue terre, facendo deviare l’antico corso che aveva da sempre irrigato le terre dei Fontamaresi. I cafoni, termine con il quale nel Meridione d’Italia vengono definiti i contadini, decidono di ribellarsi. L’iniziativa provoca però il saccheggio del paese. La camicie nere del regime fascista iniziano le violenze finanche sulle donne che attendono gli uomini dal ritorno dai campi. L’arrivo di questi ultimi non cambia granché la scena, visto che sono tenuti a bada dai moschetti spianati e dalla vile forza del maggior numero. Attraverso un processo farsa, tutti gli uomini vengono schedati come elementi pericolosi per il regime, chi viene definito “refrattario“, chi “monarchico“, “costituzionale” ed “anarchico“. Anche don Circostanza, un avvocato locale al servizio del podestà, contribuisce ad impoverire ancora di più il paese; propone e firma un contratto che assegna le acque per i tre quarti all’Impresario e per i restanti tre quarti ai cafoni. In questa paradossale situazione, le terre inaridiscono e Berardo Viola, diventato ormai il simbolo della rivolta, è costretto a recarsi a Roma per trovare lavoro. Visti i suoi trascorsi da ribelle, ha molte difficoltà ad entrare nel mondo della capitale rigidamente controllata dalla polizia fascista. Una sera è addirittura arrestato ed additato come il “Solito Sconosciuto”, un abruzzese capo clandestino dell’opposizione al regime fascista saldamente al potere. Berardo Viola che pur non ha fatto assolutamente nulla, vive l’occasione, lui povero cafone, di essere il simbolo della rivolta del bene contro il male. Si chiede:

“ Che senso ha il vivere, ora che Elvira è morta? E se io tradisco, tutto è perduto. Se io tradisco, la dannazione di Fontamara sarà eterna. Se io tradisco, passeranno ancora centinaia d’anni prima che si ripresenti una simile occasione. E se io muoio? Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri”. Non è naturalmente in grado di svelare alcun segreto perché non ne ha. Dopo un paio di giorni, viene ucciso in carcere, la polizia dice che si è suicidato; muore il cafone, ma non il suo spirito, la sua voglia di combattere le ingiustizie, la sua forza di pulizia e di onestà. La notizia della sua morte è portata a Fontamara dal Solito Sconosciuto; questa scomparsa crea una maggiore coesione, uno spirito di rivalsa, una voglia di combattere uniti contro ogni sopraffazione. Una delle prime azioni dei cafoni è quella di preparare un “Giornale dei cafoni“, dal titolo rivoluzionario, “Che Fare“? Il titolo viene ripetuto fino all’ossessione per ogni informazione riportata: “Hanno ammazzato Berardo Viola, che fare? Ci han tolto l’acqua, che fare? Il prete si rifiuta di seppellire i nostri morti, che fare? In nome della legge violano le nostre donne, che fare? Don Circostanza è una carogna, che fare?”.

 

Spazio

L’autore non descrive molto i luoghi che vede, le descrizioni sono poche e brevi. La prima è l’unica descrizione lunga e completa e riguarda Fontamara, un  paese sulla montagna e per questo un po’ isolato dal resto del mondo, sembra riflettere la mentalità dei paesani che abitando in un posto isolato non conoscono niente del mondo che li circonda. Nel loro paesino i fontamaresi si sono creati un mondo a sé, estraneo alle regole della città; è paese povero, non esiste un cittadino più ricco che abbia una casa più bella e maestosa delle altre, tutte le case si assomigliano e riflettono una stessa condizione sociale. “A chi sale a Fontamara dal piano del Fucino, il villaggio appare disposto sul fianco della montagna grigia brulla e arida come su una gradinata. Dal piano sono ben visibili le porte e le finestre della maggior parte delle case: un centinaio di casucce quasi tutte a un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d’ogni sorta. La maggior parte di quelle catapecchie non hanno che un’apertura che serve da porta, da finestra e da camino. Nell’interno, per lo più senza pavimento, con i muri a secco, abitano, dormono, mangiano, procreano; talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini. Fanno eccezione una decina di case di piccoli proprietari e un antico palazzo ora disabitato, quasi cadente. La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l’intero abitato, e che è l’unica via da dove possano transitare i carri. Ai fianchi di questa sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, coi tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo”. E a Fontamara non c’è bosco: la montagna è arida, brulla, come la maggior parte dell’Appennino. Gli uccelli sono pochi e paurosi, per la caccia spietata che a essi si fa. Non c’è usignolo; nel dialetto non c’è neppure la parola per designarlo”. In questa breve descrizione si parla di Fontamara di notte, dopo che è stata tolta la luce, perché nessuno la pagava: “a mano a mano che si faceva scuro e vedevamo le luci dei paesi vicini accendersi e Fontamara sbiadirsi, velarsi, annebbiarsi, confondersi con le rocce, con le fratte, con i mucchi di letame, capimmo subito di che si trattava”. La casa di don Carlo Magna viene descritta brevemente ma da queste poche parole si capisce quanto sia ricco: “Dal soffitto della cucina pendevano prosciutti, salami, salsicce, vesciche di strutto, fitte corone di sorbe, di agli, di  cipolle, di funghi. Sul tavolo era un mezzo agnello sanguinante e dai fornelli veniva un buon odore da svenire”. Berardo riesce finalmente a ottenere un pezzo di terra su in montagna e dopo averci lavorato sodo, un’alluvione lo distrugge e l’autore descrive la scena con molti aggettivi: ”E all’alba del terzo giorno venne giù dalla montagna, col fragore di un terremoto, in direzione della contrada dei Serpari, come se la montagna crollasse, un’enorme fiumana d’acqua che portò via il campiello di Berardo, come un affamato vuota un piatto di minestra, scavando la terra fino alla roccia e disperdendo nella valle le piantine verdi del granturco. Al posto del campo coltivato rimase un’enorme fossa, una specie di cava, una specie di cratere”. I cafoni di Fontamara, un bel giorno vengono portati dalle autorità fasciste, in camion e gratuitamente, a scopo di propaganda del regime, ad Avezzano, il capoluogo della Marsica: “Fummo condotti su una grande piazza dove ci venne assegnato un buon posto, dietro il palazzo del tribunale, all’ombra. Altri mucchi di cafoni erano stati addossati ai vari edifizi attorno alla piazza. Tra un mucchio e l’altro vi erano pattuglie di carabinieri. Staffette di carabinieri in bicicletta attraversavano la piazza in tutti i sensi. Appena arrivava un nuovo camion, i cafoni venivano fatti scendere e accompagnati dai carabinieri in un punto convenuto della piazza. Sembravano i preparativi di una grande festa. A un certo momento attraversò la piazza un ufficiale dei carabinieri a cavallo. Berardo trovò il cavallo bellissimo”. Un’altra descrizione riguarda i campi aridi dopo che l’acqua di Fontamara è stata deviata verso i campi dell’Impresario, le brevi frasi che l’autore ha scritto sui campi danno un impressione di devastazione come se fossero stati campi di battaglia: “Ai piedi della collina, i campi e gli orti, abbandonati dal ruscello, assumevano ogni giorno un aspetto più desolante. Il raccolto bruciava lentamente. Sulla terra arida e assetata, si aprivano larghi crepacci. Visti da lontano, soltanto i campi di granoturco di Pilato e di Ranocchia sembravano far eccezione, ma non era che apparenza; le parti erbacee del granturco si erano sviluppate, ma le pannocchie erano rimaste rare e piccole, con grani minuscoli, magri. Avrebbe potuto servire tutt’al più come foraggio per le bestie. Ancora più triste era la sorte di Michele Zompa, di Baldovino e il mio, seminato a fagioli: i fagioli somigliavano a gramigna bruciata dal sole; sugli orti di Barletta, Venerdì Santo, Braciola, Papasisto sembrava che fosse passato un fiume di lava”. La penultima brevissima descrizione narra delle fontane di Roma, così magnifiche agli occhi del narratore: “A ogni fontana Berardo si fermava per bere, come i nostri asini al mattino camminando verso Fucino; ma ne incontravamo anche di grandiose che gettavano zampilli d’acqua in aria, a incredibili altezze, e da quelle non si poteva bere”. Nell’ultima descrizione l’autore, il figlio di Giuvà, osserva la cella dove sono rinchiusi lui e Berardo insieme all’Avezzanese, molto ricca di particolari nonostante il luogo sia orribile, l’autore non pare spaventato da questo luogo e anzi ne è soddisfatto perché ha trovato un giaciglio per la notte: ”La metà della cella era occupata da un rialzo in cemento, un po’ più alto d’un marciapiede ordinario, e quel rialzo aveva la funzione di letto. In un angolo vi era un buco puzzolente la cui funzione era ancora più evidente. I due detenuti che ci avevano preceduti nella cella, erano rannicchiati in un angolo, col capo appoggiato sulla giacca piegata in forma di cuscino”.

 

Tempo

Non si fa riferimento agli anni in cui si svolge la vicenda, si presume che si svolga tra la primavera e l’estate del 1929. La data 1930, posta al termine della prefazione, è stata messa da Ignazio Silone, quando è a Davos, in Svizzera, come rifugiato politico, inseguito dai Fascisti che vogliono la sua pelle e dai suoi stessi compagni di partito, che lo accusano di tradimento, in quanto Silone non si è allineato con gli altri membri della segreteria del partito Comunista Italiano. Silone sta meditando una “Uscita di sicurezza” dal partito. La troverà. Non può avallare il terrore staliniano che imperversa in Unione Sovietica ed interessa tutte le segreterie dei partiti comunisti europei, tra i quali quello italiano, rappresentato da Togliatti, Silone, Tasca ed altri. Il racconto ha un ritmo abbastanza veloce, i piani del tempo non coincidono perché l’autore usa i tempi al passato. Sono presenti alcuni sommari e pause nelle descrizioni.

 

Tecniche narrative e stilistiche

La tecnica utilizzata è quella dell’io narrante, infatti, il narratore è interno al romanzo ed è protagonista e testimone delle vicende. Nell’organizzazione sintattica del discorso prevale la costruzione paratattica del periodo: le frasi sono semplici e chiare, i periodi brevi e facili da capire. Il linguaggio adoperato dall’autore è di tipo basso, infatti deve rispecchiare le caratteristiche dei “cafoni”, come l’ignoranza e l’incapacità di esprimersi in un italiano corretto. Il latino e frasi complicate e articolate sono presenti solo quando coloro che parlano sono istruiti e ricchi. L’aggettivazione è abbondante solo nelle descrizioni ed è di tipo oggettivo.

 

Temi e simboli.

Il tema fondamentale è la lotta di Silone contro l’ingiustizia e gli abusi del potere istituzionale, fra i “cafoni” e i ricchi e la sua funzione è di denunciare l’oppressione e i soprusi subiti dai contadini abruzzesi. Un altro tema è quello della povertà, della continua lotta per i bisogni materiali. La povertà è, infatti, il vero problema, alla base di tutte le liti, sia tra i fontamaresi stessi che tra “cafoni” e borghesi. I fontamaresi sono abbandonati a loro stessi, non c’è nessuno che li aiuti e senza alcun sostegno non usciranno mai dalla loro situazione disastrosa.

 

Personaggi

Non c’è un protagonista soltanto ma è l’intero paese con i suoi abitanti ad esserlo; ci sono però dei personaggi che vengono nominati più spesso, come Berardo, e altri che narrano le vicende in prima persona: Giuvà, la moglie e il figlio.

Berardo Viola.  E’ il portavoce del popolo, uomo sfortunato ma coraggioso, ribelle e disposto a dare la sua vita per un amico. E’ il nipote del brigante Viola, ucciso in un conflitto a fuoco dai piemontesi, al tempo del Brigantaggio. La prima descrizione che lo riguarda, parla di un pezzo della sua vita e di quando fu tradito da un amico per il quale Berardo aveva picchiato delle persone: “Egli poteva fare da paciere nella questione dell’acqua per la semplice ragione che non possedeva più terre, né irrigue né secche, e non aveva interessi da spartire con gli altri cafoni. Un buon pezzo di terra che il padre gli aveva lasciato, l’aveva venduto vari anni prima a don Circostanza per pagare le spese di una lite e comprarsi l’imbarco per l’America. Egli pensava allora di emigrare e, trovando fortuna, di non tornare più a Fontamara, poiché era rimasto assai disgustato per un tradimento, come lui diceva, di un uomo di Fossa ritenuto suo amico, ch’egli aveva conosciuto da soldato e col quale in seguito aveva spartito il pane in molte occasioni e stretto grande amicizia”. Nonostante fosse un cafone senza terra e per questo considerato un gradino più in basso degli altri cafoni, era ammirato da tutti e amato soprattutto dai giovani che erano conquistati dai suoi discorsi e dal suo modo di ragionare. “A Berardo però in fondo gli volevamo tutti bene. Aveva anche lui i suoi difetti, specialmente da ubriaco, ma era leale e sincero ed era stato assai sfortunato, e per questo, di buon cuore, gli auguravamo che potesse rifarsi la terra”. Infatti, era questo il suo sogno: quello di avere un pezzo di terra e dopo anni di speranze alla fine riesce a ottenere un pezzo di terra in montagna arido e brullo; ma grazie alle sue cure, il terreno riesce a diventare fertile e quando festeggia con i suoi amici il suo pezzo di terra, un’alluvione distrugge tutto il suo lavoro. L’autore ci fornisce anche una sua descrizione fisica che sembra in contrasto con il suo carattere così impetuoso e ribelle: “Dal nonno, secondo la testimonianza dei più vecchi che lo ricordano ancora, egli aveva certamente ereditato la potenza fisica: un’alta statura, tarchiato come il tronco di una quercia, il collo breve e taurino, la testa quadra; ma aveva gli occhi buoni: aveva conservato da adulto gli occhi che aveva da ragazzo. Era incomprensibile, e persino ridicolo, che un uomo di quella forza potesse avere gli occhi e il sorriso di un fanciullo”. L’autore lo descrive quasi come un eroe “non lasciava impunita nessuna ingiustizia che ci venisse dal capoluogo”, ogni volta, infatti, che veniva fatta qualche cosa ingiusta, Berardo la distruggeva e per questo era temuto e ammirato da tutti. Il suo ragionamento era semplice e lineare: se qualcuno vi fa un torto, voi fatelo a lui;  tutti i giovani la pensavamo come lui. E’ innamorato di una ragazza di nome Elvira non la sposa perché si considera una persona meschina per il fatto di non possedere un pezzo di terra; non ha niente da offrirle mentre Elvira ha una dote consistente e questo, Berardo non lo sopporta; tuttavia impedisce a chiunque di sposarla prendendolo a pugni. Ma dopo aver lottato a lungo contro le ingiustizie si accorge che tutto quello che fa è inutile, che il suo nemico è troppo forte e per questo si arrende. Quando la gente gli chiede il suo aiuto per una rivolta, rifiuta e parte per Roma in cerca di lavoro; lì gli giunge, però la notizia della morte di Elvira e così decide di sacrificarsi per il popolo: si suicida in cella dove è detenuto perché accusato dalla polizia fascista di essere contro il governo. Berardo Viola si autoaccusa dicendo di essere lui stesso il Solito Sconosciuto che predicava la rivolta e la lotta contro il Fascismo. E’ un personaggio a tutto tondo e dinamico in quanto imprevedibile nelle sue azioni.

La famiglia autore del libro. Nel libro non è uno solo l’autore ma è tutta la famiglia di Giuvà, la moglie e il figlio, che si alternano nello scrivere le varie vicende di cui sono stati protagonisti.

Giuvà. E’ chiamato così da tutti, probabilmente il suo nome è Giovanni e Giuvà è solo in dialetto, è un cafone povero che come tutti cerca lavoro da una parte all’altra. L’autore non descrive se stesso né fisicamente né psicologicamente, quando parla di lui, lo fa paragonandosi agli altri cafoni dando così una descrizione molto generale di lui; anche lui però è ignorante come gli altri e viene facilmente raggirato, ma non reagisce come Berardo, anche se ammira il suo modo di fare. E’ amico di tutti, ha solo una rissa nel Fucino con suo cognato a causa dell’acqua. E’ sempre più sorpreso da tutti gli avvenimenti che accadono a Fontamara, un tempo, un paese tranquillo dove non succedeva mai nulla. All’interno del racconto non esprime una particolare opinione su quello che accade.

Matalé. Così è chiamata la moglie di Giuvà, anche lei vuole combattere contro le ingiustizie e per questo s’incammina verso il capoluogo accompagnata da altre donne per protestare contro la deviazione dell’acqua che gli operai stanno portando via da Fontamara, ma anche lei è raggirata da don Circostanza che propone un compromesso: l’acqua sarà per ¾ la loro e per ¾ dell’impresario. Si dimostra anche coraggiosa quando dei poliziotti violentano sotto i suoi occhi una donna del villaggio sostenendo anche Elvira.

Il figlio. Nel corso della narrazione non viene mai detto il suo vero nome e viene semplicemente chiamato figlio; lui racconta il viaggio insieme a Berardo a Roma e la morte di quest’ultimo. Anche lui ammira, come gli altri giovani, Berardo; non viene descritto né fisicamente né psicologicamente ma il suo carattere sembra molto simile a quello del padre; anche lui cerca sempre lavoro e per questo segue Berardo a Roma ma qui viene picchiato dalla polizia per confessare delle cose che lui non sa.

Don Circostanza. E’ il vero nemico dei fontamaresi. Anche se da loro si fa chiamare “L’Amico del popolo” in realtà, non fa altro che truffarli e raggirarli e invece di stare dalla loro parte come gli fa sempre credere, è dalla parte dei più forti e potenti. Nelle prime due descrizioni che l’autore fa su di lui descrive il suo aspetto fisico e il suo comportamento con i fontamaresi: “Intanto i commensali ubriachi si erano raccolti sul balcone della villa. Tra essi adesso spiccava l’avvocato don Circostanza, col cappello a melone, il naso poroso a spugna, le orecchie a ventola, la pancia al terzo stadio”. “Don Circostanza, detto anche l’amico del Popolo, aveva sempre avuto una speciale benevolenza per la gente di Fontamara, egli era il nostro Protettore, e il parlare di lui richiederebbe ora una lunga litania. Egli era sempre stato la nostra difesa, ma anche la nostra rovina. Tutte le liti dei Fontamaresi passavano per il suo studio. E la maggior parte delle galline e delle uova di Fontamara da una quarantina d’anni finivano nella cucina di don Circostanza”. Lo scrittore descrive molti episodi in cui si capisce come quest’avvocato, fingendo di essere loro amico, li raggirava; il primo di questi raggiri consisteva nel fatto che per ottenere i voti dei fontamaresi, aveva inviato un maestro che insegnasse loro a scrivere il proprio nome. In questo modo, quando andavano a votare, non sapendo scrivere altro nome, scrivevano quello dell’avvocato; per ottenere ancora più voti, aveva inventato anche un trucco: siccome egli doveva registrare le persone morte a Fontamara, invece di scrivere che erano morte, le dava per vive e al momento delle votazioni aggiungeva il loro nome come voto dato da queste persone morte. Le famiglie dei parenti morti ricevevano all’inizio cinque lire a testa per ogni morto, poi l’avvocato aveva deciso di continuare a far dar loro i voti di questi a suo nome ma non dava più i soldi alle famiglie. Un altro raggiro lo compie quando si discute dell’acqua che deve andare nei campi di Fontamara, come era sempre successo, e quella che deve andare nei campi dell’impresario; l’avvocato si auto nomina rappresentante dei fontamaresi, però, invece di difendere i loro diritti, li raggira dicendo loro che dopo dieci lustri riavranno l’acqua ma non specificando quanto duri un lustro, così l’acqua va tutta all’impresario. Gli ultimi due raggiri che compie riguardano Berardo, in uno gli ruba il pezzo di terra ereditato da suo padre, in un altro diminuisce del 60% la paga dei lavoratori dicendo che questa è la nuova legge.

L’Impresario.  E’ il secondo nemico dei fontamaresi, perché insieme a don Circostanza li imbroglia, i cafoni lo vedono come una persona autoritaria che si arricchisce raggirandoli; la prima descrizione che l’autore fa di lui ci fornisce un’immagine malvagia, visto come il diavolo che da tutto riesce a trarre ricchezza. “Chiacchiere a parte, non c’era dubbio che quell’uomo straordinario avesse trovato l’America nella nostra contrada. Egli aveva trovato la ricetta per trasformare in oro anche le spine. Qualcuno affermò ch’egli avesse venduto l’anima al Diavolo in cambio della ricchezza, e forse aveva ragione. A ogni modo, dopo l’inchiesta dei carabinieri sulla carta moneta, l’autorità dell’Impresario era cresciuta enormemente. Egli rappresentava la Banca. Egli aveva a disposizione una grande fabbrica di biglietti. I vecchi proprietari cominciarono a tremare di fronte a lui. Con tutto ciò, non riuscivamo a capacitarci come gli avessero ceduto perfino il posto di sindaco o di podestà”. In un’altra sua descrizione, fatta da Matalé, si capisce che, anche se la gente lo odiava, non poteva fare a meno di ammirarlo e quando lo vedono arrivare avvertono che è un personaggio potente e per questo si sentono a disagio. Egli comunque non li ascolta e non li prende in considerazione vedendoli come persone inferiori rispetto a lui: “Egli intanto si avvicinava discutendo animatamente con alcuni operai; era in abito da lavoro, con la giacca piegata sul braccio, un livello idrico in una mano, un doppio metro sporgente nella tasca dei pantaloni, le scarpe bianche di calce. Nessuno, che non lo conoscesse, avrebbe supposto ch’egli fosse ormai l’uomo più ricco della contrada e il nuovo capo del comune”.

Don Abbacchio.  E’ il prete dei piccoli villaggi sparsi attorno alla montagna che sovrasta il Fucino. Celebra la messa a Fontamara ma solo quando gli abitanti del paese gli offrono dei soldi e lui ne approfitta per aumentare ogni volta la paga. Anche lui è sempre dalla parte dei più forti e dei potenti; usa molte volte la celebrazione delle messe come mezzo per rimproverare i paesani che non pagano le tasse; nella prima descrizione che l’autore fa di lui si nota come sia molto simile a don Circostanza, entrambi hanno lo stesso fisico; si lascia compromettere dai potenti di turno, sedendo alla loro tavola, mangiando e bevendo a sazietà: “Davanti a tutti scese il canonico don Abbacchio, grasso, e sbuffante, col collo gonfio di vene, il viso paonazzo, gli occhi socchiusi in un’espressione beata. Il canonico si reggeva in piedi per l’ubriachezza e si mise a fare acqua contro un albero del giardino, tenendo la testa appoggiata contro l’albero per non cadere”. In un’altra descrizione invece lo scrittore ci fa notare come don Abbacchio, pur essendo un prete, non li difendeva dalle ingiustizie delle persone ricche: “Egli non era un uomo malvagio, ma fiacco, timoroso e, nelle questioni serie, da non fidarsi. Non era certamente un pastore capace di rischiare la vita per difendere le sue pecore contro i lupi, ma era abbastanza istruito nella sua religione per spiegare come, dal momento che Dio ha creato i lupi, abbia riconosciuto ad essi il diritto di divorare di tanto in tanto qualche pecora. Noi ricorrevamo a lui per i sacramenti; ma sapevamo, per esperienza, di non poter ricevere da lui nessun aiuto e consiglio nelle disgrazie che ci venivano dalla cattiveria dei ricchi e delle autorità”.

Don Carlo Magna: Era l’antico riccone del villaggio, prima che arrivasse l’Impresario. Viene ampiamente descritto ma durante il racconto viene citato solo qualche volta. Anche lui come gli altri è un truffatore. Viene aggiunto al suo nome la parola “Magna” non nel significato di grande ma perché ogni volta che lo cercavano, sua moglie diceva sempre che stava mangiando. Aveva ereditato una grande fortuna dai suoi antenati ma si è rovinato per mano sua: “Altrimenti, siccome don Carlo Magna era un noto buontempone, donnaiolo, giocatore, bevitore, mangione, uomo pauroso e fiacco, da gran tempo egli avrebbe finito di scialacquare le proprietà lasciategli dal padre… Egli si era sposato tardi e, donna Clorinda non aveva potuto raccogliere che i resti del naufragio. Dalle numerose e vaste terre che gli antenati di don Carlo Magna avevano messe insieme, ricomprando a prezzo vile i beni in quel tempo sequestrati alle parrocchie e ai monasteri, e che i buoni cristiani non osavano ricomprare, ben poche ne restavano. Una volta don Carlo Magna possedeva quasi tutta la contrada di Fontamara e le ragazze nostre che più gli piacevano erano costrette ad andare a servizio a casa sua e a subire i suoi capricci; ma ora non gli restavano che le terre portate in dote dalla moglie”.

Cavalier Pelino. E’ al servizio del comune; inganna i fontamaresi facendo firmare loro un foglio, sostenendo che grazie a quel foglio i cafoni potranno dire la loro opinione alle autorità, in realtà quel foglio sarà la loro rovina. Convinti dal forestiero, i cafoni firmano ma questo foglio verrà usato più tardi dall’Impresario per portare l’acqua di Fontamara nelle sue terre. Dalla descrizione che l’autore fa di lui si capisce come le persone provenienti dalla città fossero così diverse da quelli di paese e per questo disprezzati: “D’aspetto era un giovanotto elefantino. Aveva una faccia delicata, rasata, una boccuccia rosea, come un gatto. Con una mano teneva la bicicletta per il manubrio, e la mano era piccola, viscida, come la pancia delle lucertole, e su un dito portava un grande anello, da monsignore. Sulle scarpe portava delle ghette bianche”. Anche lui è presente più tardi alla spartizione dell’acqua che andrà a Fontamara e quella per i campi dell’Impresario; ovviamente aiuterà quest’ultimo ad appropriarsi di tutta l’acqua.

Don Ciccone. Avvocato, è un altro di quegli uomini corrotti dall’Impresario con un banchetto e viene descritto proprio mentre esce dalla casa di quest’ultimo: “Dopo scese l’avvocato don Ciccone, con un giovanotto che reggeva per un braccio; egli era ubriaco fradicio e dietro il mucchio di mattoni lo vedemmo cadere a ginocchioni sulla propria umidità”. Dopo quest’episodio però non viene più nominato.

Innocenzo la Legge. Questo nome è significativo perché lui è quello che deve far rispettare le leggi e riscuotere le tasse. Maltrattato sempre dai fontamaresi che non posso permettersi di pagare le tasse che lui chiede, l’autore lo nomina solo qualche volta sempre in compagnia dei più potenti e ovviamente dalla loro parte; tanto che è stato ridotto dalla moglie dell’Impresario a suo servo. Una sera si presenta a Fontamara per appendere un cartello: IN QUESTO LOCALE E’ PROIBITO PARLARE DI POLITICA, per questo viene giustamente contestato da Berardo.

Don Achille Pazienza.  Chiamato cavaliere, è un cliente della locanda il “Buon Ladrone”, un tempo persona importante, finge di voler aiutare Berardo e il figlio di Giuvà a trovare un lavoro ma in realtà cerca solo di guadagnare dei soldi e roba da mangiare; Berardo finge di voler dargli tutto quello che chiede. L’imbroglione però prende i soldi da loro e non trova per loro nessun lavoro; il figlio di Giuvà lo descrive nella stanzetta della locanda, come un vecchio malato disteso sul letto: “Trovammo don Achille Pazienza interamente disteso sul letto; egli era un povero vecchietto catarroso, con una barba di una decina di giorni, un vestito giallo, delle scarpe di tela bianca, un cappello di paglia sulla testa, una medaglia di bronzo sul petto e uno stecchino di legno in bocca, e in questi paramenti egli si era messo, per riceverci”.

Baldissera. Chiamato anche il generale Baldissera, è un abitante di Fontamara, fa lo scarparo; la sua mentalità si contrappone a quella di Berardo, mentre quest’ultimo pensa ai fatti, il generale si limita solo alle parole e per questo molte volte i due litigano. L’autore fa su di lui un’ampia descrizione ma durante l’intera vicenda non parla molto di lui se non generalmente, insieme agli altri cafoni. “Il suo ardire però non arrivava mai ai fatti, e non solo per la sua vecchiaia, ma per la sua timidità. Da ragazzo, a Fossa, dove esercitava il mestiere dello scarparo, egli aveva imparato le cerimonie da un vecchio barone decaduto, presso il quale, nei pomeriggi dei giorni di festa, esercitava l’antico e dignitoso ufficio del domenichino. L’incarico era gratuito, ma di soddisfazione e per nulla stancante, poiché consisteva unicamente nell’accompagnare il signor barone, a riguardosa distanza, nella passeggiata pomeridiana”. “Il generale Baldissera era assai povero, forse il più misero di tutti i Fontamaresi, ma soffriva che si risapesse e ricorreva a piccoli raggiri per nascondere la fame che da molti anni lo divorava. Fra l’altro egli coglieva i pretesti più bizzarri per allontanarsi la domenica da Fontamara e tornarvi verso sera, in realtà più che mai digiuno e sobrio, ma con uno stecchino fra i denti e traballante, come uno che avesse mangiato carne e bevuto fino all’ubriachezza, per apparire uomo in grado di spendere e togliersi i capricci”. Da queste descrizioni emerge un uomo orgoglioso che nonostante la sua povertà non vuole che questo fatto si sappia e fa di tutto per dimostrare il contrario.

Elvira.  E’ una bella ragazza, figlia della sorella di Giuvà e dichiarata promessa sposa di Berardo, anche se lui non la chiede in sposa perché non possiede alcuna terra mentre Elvira ha la dote e il corredo. Ragazza semplice e modesta, viene da tutti quasi considerata una santa, tanto che al suo passaggio nessuno bestemmia; in un’occasione salva i fontamaresi, affacciandosi dal campanile, è scambiata dai poliziotti per la Madonna e per questo scappano. In un pellegrinaggio chiede alla Madonna di perdere la sua vita e in cambio di aiutare Berardo, la sua preghiera viene esaudita, Elvira muore sul letto per la febbre altissima: “Elvira, la figlia della buon’anima di Nazzarena, mia sorella, morta l’anno prima. La ragazza era considerata a Fontamara la promessa di Berardo, benché forse non si fossero mai scambiati una sola parola. Ma quando la ragazza andava in chiesa o alla fontana, Berardo impallidiva e tratteneva il respiro nel vederla e la seguiva con lo sguardo in modo da non lasciar dubbi sul suo sentimento. E siccome Elvira aveva ben presto risaputo dalle sue compagne di questa intesa attenzione di Berardo e non aveva protestato, né aveva cambiato l’ora e l’itinerario delle sue uscite. Più che bella, bisogna anzi dire ch’era gentile e delicata, di statura media, col viso dolce e quieto, nessuno l’aveva mai udita ridere ad alta voce, o anche schiamazzare, o dimenarsi in pubblico, o piangere. Era di una modestia e riservatezza straordinarie; era come una madonnina. Al suo avvicinarsi, nessuno osava bestemmiare o pronunziare parole sconce. Oltre a ciò si sapeva che la ragazza aveva una discreta dote: mille in contanti e il corredo in ordine, lenzuola, federe, tovaglie, camicie, coperte, tutto assortito, una madia nuova, due comò di noce e la lettiera a due piazze di ottone, già comprata e pagata”.

Donna Clorinda.  E’ la moglie di don Carlo Magna, se non fosse per lei, don Carlo non avrebbe più niente, dirige lei tutti gli affari ma quando qualcuno dei cafoni deve vedere don Carlo lei dice sempre che è occupato. L’autore la descrive ma ha un ruolo molto marginale: “Donna Clorinda vestiva un abito nero con molte trine sul petto e portava sulla testa una specie di cuffia pure nera. Guardandola in faccia e ascoltando la sua voce si capiva perché nel paese era stata soprannominata il Corvo. Quando noi finimmo di spiegarci a proposito dell’acqua, donna Clorinda era pallida come se fosse per svenire. Sulla sua faccia scarna si vedeva, nelle mascelle irrigidite, lo sforzo per frenare lagrime di rabbia”.

Maria Rosa.  E’ la madre di Berardo, povera e sofferente per la sua condizione, vorrebbe tanto vederlo sposato con Elvira e si dispera con lui quando il campo viene distrutto da un’alluvione: “La madre gli stava aggrappata a una spalla, tutta invasa dal terrore, col viso di cenere come quello di una morta, aggrappata come Maria al Calvario; e lui guardava la montagna e ripeteva: “Ecco, ecco, naturalmente”. “Così parlava la vecchia Maria Rosa, che passava la maggior parte della sua giornata, e durante l’estate anche la notte, su una pietra davanti all’entrata della sua abitazione, ch’era in realtà una grotta, Maria Rosa filava e cuciva, o aspettava il ritorno del figlio ch’essa ammirava e vantava con parole poco abituali nelle madri. Non potendo Berardo primeggiare sulla ricchezza, Maria Rosa trovava inevitabile ch’egli eccellesse almeno nella sventura”.

La Zappa.  E’ un capraio di Fontamara. Viene solo nominato mentre si reca dall’Impresario per protestare, incontra il gruppo di donne fontamaresi, giunte anch’esse per protestare, e l’accompagna: “Per strada incontrammo La Zappa, un capraio di Fontamara che cercava anche lui l’Impresario. Egli si trovava con le sue capre nel tratturo, quando una guardia campestre l’aveva avvertito che doveva allontanarsi”. “Noi conoscevamo La Zappa come giovanotto di poco ragionamento, però, in quel caso, aveva ragione”.

Marietta: Vedova abitante a Fontamara, accoglie tutte le persone importanti nella sua cantina. Conosce un po’ meglio di tutti gli usi e i costumi della gente ricca. Alla domanda che le fanno i fontamaresi: “Perché non ti risposi?” Lei risponde che se si risposasse non riceverebbe più la pensione del marito e per questo gli uomini le danno ragione mentre le donne la disprezzano; i quattro figli che ha, tranne il primo, gli altri li ha avuti da uomini diversi. Scrive anche con la sua bella calligrafia il giornale di Fontamara, “Che fare?”.

L’Avezzanese o Solito sconosciuto. Viene chiamato il “Solito Sconosciuto” perché lui è lo sconosciuto che fa ribellare i vari paesi. Finito poi in carcere, qui conosce Berardo e gli racconta ciò che ha fatto e ciò che intende fare. Dietro a questa figura si nascondono Silone stesso e la sua idea socialista, quella di voler realizzare una società più giusta. Per fare questo, non c’è che una scelta: andare allo sbaraglio, come dirà in un altro celebre romanzo “Vino e pane”. Ad una prima lettura sembra un truffatore perché convince Berardo a confessarsi e a scontare la pena per tutto quello che lui ha fatto, in realtà è solo il portatore di una idea. Abita ad Avezzano dove gli uomini di Fontamara erano stati portati in camion dalle autorità fasciste per incontrare le autorità. I cafoni l’avevano incontrato lì dove lui li aveva messi in guardia da un poliziotto.

Maria Grazia, la Ciammaruga, Filomena, Castagna, la Recchiuta, la figlia di Cannarozzo, Maria Cristina: Sono il resto delle donne del villaggio, l’autore le nomina solo un paio di volte e solo sull’ultima fa una breve descrizione: “Maria Cristina vestita a nero per la morte recente del marito, che ventilava il poco grano raccolto nel suo campo, facendo cadere il grano dalla cascina tenuta in alto, a braccia tese, a ritroso del vento”. Il resto degli uomini di Fontamara: Michele Zompa, Losurdo, Ponzio Pilato, Ranocchia, Sciarappa, Barletta, Venerdì Santo, Ciro Zironda, Papasisto. Michele Zompa è il cafone di Fontamara più prodigo nel raccontare sogni e storielle che hanno il potere di sollevare gli altri, almeno sul piano dell’ilarità. Cristo e il Papa, racconta Michele, intraprendono un viaggio tra i cafoni della Marsica. Vogliono aiutare i cafoni, ma non vogliono nemmeno far del male né al Governo che ha concluso con il Papa il Concordato (I Patti Lateranensi sono del 1929), né al principe Torlonia. Vedono ovunque che i cafoni si lamentano, bestemmiano, si angustiano, litigano tra di loro: “Allora il Papa si sentì afflitto nel più profondo del cuore, prese dalla bisaccia una nuvola di pidocchi di una nuova specie e li lanciò sulle case dei poveri, dicendo: “Prendete, o figli amatissimi, prendete e grattatevi. Così nei momenti di ozio, qualcosa vi distrarrà dai pensieri del peccato” (pag. 34). E’ sempre Michele Zompa che risponde senza difficoltà al cavalier Pelino, che era venuto nella cantina della Marietta ad apporre la scritta  “In questo locale è proibito parlare di politica”, dicendogli cosa pensavano i cafoni di Fontamara delle gerarchie: “In capo c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito” (pag. 36).

Riassunto per capitoli

Prefazione

La vicenda si svolge a Fontamara, vecchio paese della Marsica situato all’interno di una valle tra colline e montagne. Fontamara è un paese povero e arretrato, e come ogni piccolo villaggio meridionale vede subire le ingiustizie più crudeli, che dopo anni e anni diventano naturali come il vento e la pioggia. L’attività degli abitanti è legata essenzialmente alla terra, e la scala sociale è composta solamente dai proprietari terrieri e dai cafoni, ossia i contadini.

 

Capitolo 1

Fontamara rimane una volta senza corrente elettrica perché gli abitanti non avevano pagato la bolletta, e presto il paese si riabitua all’illuminazione della luna. Per i giovani, questo è motivo di baldoria, mentre le donne sono disperate. Tornati dal lavoro, alcuni cafoni si riuniscono per discutere della luce elettrica e delle tasse quando vedono arrivare un forestiero, il cavalier Pelino, graduato della milizia fascista, che dopo iniziali esitazioni li convince a firmare un foglio bianco, nonostante essi non sappiano cosa sia.

 

Capitolo 2

Solo troppo tardi i contadini capiscono che quelle firme servono all’Impresario, il nuovo podestà: infatti, il giorno dopo, Fontamara è in subbuglio perché dei cantonieri muniti di pale e picconi stanno scavando il letto per deviare il ruscello, che irriga i miseri campi dei cafoni, alle terre dell’Impresario. Inizialmente, i contadini credono che sia una burla, una delle tante degli abitanti del capoluogo, poi le donne si recano ad Avezzano per parlare con il sindaco, ma vengono derise dalle guardie. I carabinieri le accompagnano così alla casa dell’Impresario. Dopo varie discussioni, don Circostanza, vecchio sindaco nonché avvocato, giunge ad una soluzione: stabilisce che i tre quarti dell’acqua devono andare all’Impresario, e i tre quarti della parte rimanente ai fontamaresi, spiegando che entrambi avrebbero avuto più della metà, beffando così i cafoni.

 

Capitolo 3

Il giorno dopo i cantonieri riprendono i lavori, ora protetti da due guardie armate. I fontamaresi, però, non sono convinti della divisione, ma nessuno vuole parlare per non compromettere la propria famiglia. Il generale Baldissera è l’unico che, a parole, vuole far ricordare la verità alle autorità, ma come al solito non fa nulla. I fontamaresi ormai capiscono che la fame e la rovina sarebbero state vicine; l’unico cafone non colpito da questo imbroglio è Berardo Viola, per il fatto che non ha più terre, dopo la vendita di un appezzamento a Don Circostanza per pagarsi l’imbarco in America, anche se a causa di una nuova legge non ha avuto la possibilità di andarci. Berardo allora trova lavoro da bracciante fuori Fontamara, ma non è soddisfatto perché, oltre ad essere un lavoro faticoso, il guadagno è misero. Gode di molta stima fra i giovani, ed è conosciuto per la sua irriverenza e forza nel lottare contro le ingiustizie.

Capitolo 4

Dopo qualche mese, nel paese si sparge la voce che i rappresentanti dei cafoni della Marsica stanno per essere convocati ad Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo governo di Roma in merito alla questione del Fucino, un lago prosciugato, ora terreno fertile che avrebbe potuto essere coltivato. Una domenica mattina arriva finalmente il camion che deve portare gratis i cafoni al capoluogo. Essi arrivano in una grande piazza, vengono messi in riga e devono gridare inni al podestà mentre transita un’automobile, ma non hanno alcun incontro con il ministro. Berardo Viola, assieme agli altri cafoni, chiede ai carabinieri di parlare con il ministro, e nel frattempo vede Don Circostanza, il quale spiega loro che i piccoli proprietari terrieri avrebbero dovuto essere eliminati, e che quindi il Fucino sarebbe stato coltivato da chi avrebbe avuto capitali sufficienti. Verso notte fonda, i cafoni devono tornare a piedi a Fontamara senza aver ottenuto nemmeno un misero pezzo di terra.

Capitolo 5

In un tardo pomeriggio, a Fontamara arrivano dei camion con sopra militi fascisti; una volta entrati nel paese, portano via i fucili da caccia, ritenuti come armi, violentano le donne e chiedono del governo agli uomini che tornano dal lavoro, ma non ottengono risposte soddisfacenti, e così se ne vanno. Le pagine più esilaranti sono quelle dedicate all’esame durante il quale i cafoni di Fontamara, rientrati dai campi, all’oscuro di quello che è successo alle donne poco prima, sono tenuti a rispondere alle domande di un omino panciuto che è lì in rappresentanza del governo (I. Silone, Fontamara, pag. 118, Milano 2003).

 

Capitolo 6

Berardo ama Elvira, una ragazza del paese, e ha bisogno di trovare una terra affinché il suo orgoglio gli permetta di sposarla. I fontamaresi allora lo consigliano di rivolgersi a Don Circostanza, che doveva già dargli un credito. Nonostante un ulteriore inganno del vecchio sindaco, che “in nome della legge” deve sottrarre consistenti percentuali all’importo, Berardo ottiene la promessa di un aiuto. I cantonieri terminano finalmente di scavare il letto del nuovo ruscello. Al momento della spartizione dell’acqua, accorrono l’Impresario, le autorità, e naturalmente i cafoni, che sospettano già l’imbroglio. Dopo che viene riletto l’accordo e si sollevano alcune proteste, l’acqua inizia lentamente a scendere, ma non si ferma a metà e nemmeno a tre quarti. I cafoni non hanno più acqua: l’Impresario si è preso tutto il ruscello. Allora interviene Don Circostanza, dicendo che questa spartizione sarebbe durata solo cinquant’anni, ma la proposta non viene accettata, quindi dice loro che la perdita dell’acqua sarebbe durata “solo” dieci lustri. Ovviamente, l’ignoranza dei cafoni non fa loro capire la gravità dell’inganno.

 

Capitolo 7

Berardo, che non era presente il giorno della spartizione dell’acqua, è più ammutolito che mai, e non vede l’ora di emigrare e di lavorare più faticosamente degli altri, per poi tornare a Fontamara, comprare una terra e sposare Elvira. Allora, progetta di andare a Roma per cercare lavoro quando si sa che a Sulmona, paese vicino a Fontamara, sta avvenendo la rivoluzione contro un altro impresario. Nonostante questo, Berardo non pensa assolutamente di spingere i cafoni a ribellarsi, e vuole partire ugualmente per il capoluogo assieme al figlio di Giuvà, il narratore.

 

Capitolo 8

L’alba del giorno seguente, Berardo parte per Roma. Si presenta poi all’ufficio che gli avrebbe dato lavoro alla bonifica, ma nulla da fare: servono altri documenti. Dopo alcuni giorni passati negli uffici della città, che pongono ostacoli burocratici di qualunque genere, rimane senza soldi. Disperato e affamato entra nella locanda del Buon Ladrone, dove trova un signore che, a pagamento, vuole aiutarlo. Ma a causa dell’informazione negativa fatta pervenire dall’Impresario sul conto di Berardo, non c’è più alcuna speranza di trovare lavoro. Scacciato dall’osteria, girovaga alla ricerca di cibo quando per caso trova un giovane che gliene offre. Viene però sospettato per un equivoco di essere il Solito Sconosciuto, una persona che cospirava contro il governo attraverso la stampa clandestina, e viene così portato in cella. Nonostante sia innocente, decide di addossarsi tutta la colpa per tenere viva la resistenza contro il Fascismo.

 

Capitolo 9

Confuso per i numerosi interrogatori, indeciso se confessare la verità, e disperato per la morte di Elvira, Berardo viene trovato morto suicida nella sua cella.

Capitolo 10

Quando la notizia arriva a Fontamara, Berardo viene visto come un eroe. I cafoni decidono allora di scrivere un giornale con gli appunti lasciati dal vero Solito Sconosciuto che contenesse la denuncia di tutti i soprusi subiti. Dopo una pacifica discussione, lo intitolano “Che fare?”, e subito vanno a distribuirlo negli altri paesi. Al loro ritorno, si odono degli spari: a Fontamara c’è la guerra. I Fascisti, intervenuti in forze, mettono il paese a soqquadro. Alcuni contadini muoiono, altri fuggono: Giuvà e la sua famiglia si salvano andando a vivere all’estero grazie al Solito Sconosciuto, ma non hanno più notizie di alcuno del paese. Dopo tante pene e ingiustizie, inganni e soprusi, i cafoni superstiti si chiedono sempre: “Che fare?”.

 

PREFAZIONE

 

“Gli strani fatti che sto per raccontare si svolsero nel corso di un’estate a Fontamara. Ho dato questo nome a un antico e oscuro luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del prosciugato lago di Fucino, nell’interno di una valle, a mezza costa tra le colline e la montagna. In seguito ho risaputo che il medesimo nome, in  alcuni  casi con piccole varianti, apparteneva già ad altri abitati dell’Italia meridionale, e, fatto più grave, ho appurato che gli stessi strani avvenimenti in questo libro con fedeltà raccontati, sono accaduti in più luoghi, seppure non nella stessa epoca e sequenza. A me è sembrato però che queste non fossero ragioni valevoli perché la verità venisse sottaciuta. Anche certi nomi di persone, come Maria Francesco Giovanni Lucia Antonio e tanti altri, sono assai frequenti; e sono comuni a ognuno i fatti veramente importanti della vita: il nascere, l’amare, il soffrire, il morire; ma non per questo gli uomini si stancano di raccontarseli. Fontamara somiglia dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic, i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici. A chi sale a Fontamara dal piano del Fucino il villaggio appare disposto sul fianco della montagna grigia brulla e arida come su una gradinata. Dal piano sono ben visibili le porte e le finestre della maggior parte delle case: un centinaio di casucce quasi tutte a un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d’ogni sorta. La maggior parte di quelle catapecchie non hanno che un’apertura che serve da porta, da finestra e da camino. Nell’interno, per lo più senza pavimento, con i muri a secco, abitano, dormono, mangiano, procreano, talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini. Fanno eccezione una diecina di case di piccoli proprietari e un antico palazzo ora disabitato, quasi cadente. La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l’intero abitato, e che è l’unica via dove possano transitare i carri. Ai fianchi di questa sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, coi tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite morti amori odii invidie lotte disperazioni. Altro su Fontamara non vi sarebbe da dire, se non fossero accaduti gli strani fatti che sto per raccontare. Ho vissuto in quella contrada i primi vent’anni della mia vita e altro non saprei dirvi. Per vent’anni il solito cielo, circoscritto dall’anfiteatro delle montagne che serrano il Feudo come una barriera senza uscita; per vent’anni la solita terra, le solite piogge, il solito vento, la solita neve, le solite feste, i soliti cibi, le solite angustie, le solite pene, la solita miseria: la miseria ricevuta dai padri, che l’avevano ereditata dai nonni, e contro la quale il lavoro onesto non è mai servito proprio a niente. Le ingiustizie più crudeli vi erano così antiche da aver acquistato la stessa naturalezza della pioggia, del vento, della neve. La vita degli uomini, delle bestie e della terra sembrava così racchiusa in un cerchio immobile saldato dalla chiusa morsa delle montagne e dalle vicende del tempo. Saldato in un cerchio naturale, immutabile, come in una specie di ergastolo. Prima veniva la semina,  poi l’insolfatura,  poi la mietitura,  poi la vendemmia. E poi? Poi da capo. La semina, la sarchiatura, la potatura, l’insolfatura, la mietitura, la vendemmia. Sempre la stessa canzone, lo  stesso  ritornello. Sempre. Gli anni passavano, si accumulavano, i giovani diventavano vecchi, i vecchi morivano, e si seminava, si sarchiava, si insolfava,  si mieteva, si vendemmiava. E poi ancora? Di nuovo da capo. Ogni anno come l’anno precedente, ogni stagione come  la  stagione  precedente. Ogni generazione come la generazione  precedente. Nessuno a Fontamara ha mai pensato che quell’antico modo di vivere potesse cambiare. La scala sociale non conosce a Fontamara che due piuoli: la condizione dei cafoni, raso terra, e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari. Su questi due piuoli si spartiscono anche gli artigiani: un pochino più su i meno poveri, quelli che hanno una botteguccia e qualche rudimentale utensile; per strada, gli altri. Durante varie generazioni i cafoni, i braccianti, i manovali, gli artigiani poveri si piegano a sforzi, a privazioni, a sacrifici inauditi per salire quel gradino infimo della scala sociale; ma raramente vi riescono. La consacrazione dei fortunati è il matrimonio con una figlia di piccoli proprietari. Ma se si tiene  conto che vi sono terre attorno a Fontamara dove chi semina un  quintale  di grano, talvolta  non  ne raccoglie che un quintale, si capisce come non sia raro che dalla condizione di piccolo proprietario, penosamente raggiunta, si ricada in quella del cafone. (Io  so  bene  che il nome di cafone,  nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio: ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore). I più fortunati tra i cafoni di Fontamara possiedono un asino, talvolta un mulo. Arrivati all’autunno, dopo aver pagato a stento i debiti dell’anno precedente, essi devono cercare in prestito quel poco di patate, di fagioli, di cipolle, di farina di granoturco, che serva per non morire di fame durante l’inverno. La maggior  parte  di  essi trascinano  così la vita come una pesante catena di piccoli debiti per sfamarsi e di fatiche estenuanti per pagarli…”(PAG. 16, 17, 18).

 

PROCESSO FARSA – ESAME

 

Quando le stranezze iniziano, nessuno le ferma più. Sì, gli uomini di Fontamara vengono schedati dopo un esame fatto loro dai militi fascisti. Berardo è impaziente: “Be’, gridò Berardo minaccioso- ci sbrighiamo”. “Adesso cominciamo l’esame”. – L’esame? Che esame? Siamo a scuola? Un omino panciuto e Filippo il Bello si pongono in mezzo, proprio come fanno i pastori negli stazzi, per la mungitura delle pecore” ( Pag. 118). Se non fosse per l’ennesima angheria che i poveri di Fontamara devono subire ad opera dei Fascisti, verrebbe solo da ridere, ma non è così. La prepotenza del potere si misura anche con queste facezie che nascondono una violenza inaudita. Dire che tutto il romanzo è bello è dire poco, dire che l’esame sostenuto dai Fontamaresi, così come è uscito dalla penna di Ignazio Silone, è ancora più bello, è la pura verità. “Il primo a essere chiamato fu proprio Teofilo il sacrestano. – Chi evviva? Gli domandò bruscamente l’omino con la fascia tricolore. Teofilo sembrò cadere dalle nuvole. – Chi evviva? – ripeté irritato il rappresentante delle autorità. Teofilo girò il volto spaurito verso di noi, come per avere un suggerimento, ma ognuno di noi ne sapeva quanto lui. E siccome il poveraccio continuava a dar segni di non saper rispondere, l’omino si rivolse a Filippo il Bello che aveva un gran registro tra le mani e gli ordinò: Scrivi accanto al suo nome “refrattario”. Teofilo se ne andò costernato. Il secondo a essere chiamato fu Anacleto il sartore. Chi evviva? Gli domandò il panciuto. Anacleto che aveva avuto il tempo di riflettere rispose: Evviva Maria. Quale Maria? Anacleto rifletté un po’, sembrò esitare e poi precisò: “Quella di Loreto”. Scrivi, ordinò l’omino al cantoniere con voce sprezzante “refrattario”. Anacleto non voleva andarsene via: egli si dichiarò disposto a menzionare la Madonna di Pompei, piuttosto che quella di Loreto; ma fu spinto via in malo modo. Il terzo ad essere chiamato fu il vecchio Braciola. Anche lui aveva la risposta pronta e gridò: Viva San Rocco. Ma neppure quella risposta soddisfece l’omino che ordinò al cantoniere: Scrivi “refrattario”. Fu il turno di Cipolla. Chi evviva? Gli fu domandato. Scusate, cosa significa? Egli si azzardò a chiedere. Rispondi sinceramente quello che pensi, gli ordinò l’amino. Chi evviva? Evviva il pane e il vino fu la risposta sincera di Cipolla. Anche lui fu segnato come “refrattario”. Ognuno di noi aspettava il suo turno e nessuno sapeva indovinare che cosa il rappresentante dell’autorità volesse che noi rispondessimo alla sua strana domanda di chi evviva. La nostra maggiore preoccupazione naturalmente era se, rispondendo male, si dovesse pagare qualcosa. Nessuno di noi sapeva che cosa significasse refrattario; ma era più che verosimile che volesse dire deve pagare. Un pretesto insomma, come un altro per appiopparci una nuova tassa. Per conto mio cercai di avvicinarmi a Baldisserra, che era di noi la persona più istruita e conosceva le cerimonia, per essere da lui consigliato sulla risposta; ma lui mi guardò con un sorriso di compassione, come di chi la sa lunga, però solo per conto suo. Chi evviva? Chiese a Baldisserra. Il vecchio scarparo si tolse il cappello e gridò: Evviva la Regina Margherita. L’effetto non fu del tutto quello che Baldisserra si aspettava. I militi si misero a ridere e l’omino fece osservare: E’ morta. La Regina Margherita è già morta. E’ morta, chiese Baldisserra addoloratissimo, impossibile. Scrivi fece l’omino a Filippo il Bello con un sorriso di disprezzo “costituzionale”. Baldisserra se ne partì scuotendo la testa per quel susseguirsi di avvenimenti inesplicabili, A lui seguì Antonio la Zappa, il quale, opportunamente istruito da Berardo, gridò: Abbasso i ladri”. E provocò le proteste generali degli uomini neri che la presero per un’offesa personale. Scrivi fece il panciuto a Filippo il Bello “anarchico”. La Zappa se ne andò ridendo e fu la volta di Spaventa. “Abbasso i vagabondi” gridò Spaventa, sollevando nuovi urli nelle file degli esaminatori. E anche lui fu segnato come “anarchico”. Chi evviva domandò il panciuto a Della Croce. Anche lui era però uno scolaro di Berardo e non sapeva dire evviva, ma solo abbasso. E perciò rispose: Abbasso le tasse. E quella volta, bisogna dirlo a onor del vero, gli uomini neri e l’omino non protestarono. Ma anche Della Croce fu segnato come “anarchico”, perché, spiegò l’omino, certe cose non si dicono” (pag. 118,119,120).  Lo scontro con gli uomini neri si fa più duro quando entra in scena Raffaele Scarpone: “Maggiore impressione fece Raffaele Scarpone, gridando quasi sul muso del rappresentante della legge: Abbasso chi ti dà la paga. L’omino ne fu esterrefatto, come per un sacrilegio, e voleva farlo arrestare; ma Raffaele aveva avuto cura di pronunziarsi solo dopo essere uscito dal quadrato, e in due salti sparì dietro la chiesa e nessuno lo vide più. Col Losurdo riprese la sfilata delle persone prudenti. Viva tutti egli rispose ridendo ed era difficile immaginare risposta più prudente; ma non fu apprezzata. Scrivi, disse l’omino a Filippo il Bello “liberale”. Viva il governo gridò Uliva col massimo di buona volontà. Quale Governo? Chiese incuriosito Filippo il Bello. Uliva non aveva mai sentito che esistevano diversi governi, ma per educazione rispose: quello legittimo. Scrivi fece allora il panciuto al cantoniere “perfido”. Pilato volle fare una speculazione, e siccome fu la sua volta, gridò anche lui: viva il Governo. Quale governo? Chiese allarmato Filippo il Bello. Il Governo illegittimo. Scrivi comandò il ventruto cantoniere “mascalzone”. Insomma, ancora nessuno era riuscito ad azzeccare la risposta soddisfacente. A mano a mano che aumentavano le risposte riprovevoli si restringeva la libertà di scelta per noi che restavamo da esaminare. Ma la cosa veramente importante che rimaneva oscura, era se rispondendo male si dovesse pagare qualcosa e quanto. Solo Berardo mostrava di non avere questa preoccupazione e si divertiva a suggerire ai giovanotti suoi amici risposte insolenti di abbasso e non di evviva. “Abbasso la Banca gridò Venerdì Santo. Quale banca gli chiese Filippo il Bello. Ce n’è una sola e dà i soldi soltanto all’Impresario rispose Venerdì da bene informato. Scrivi fece l’omino al cantoniere “comunista”. Come comunista fu anche registrato Gasparone che, alla domanda chi evviva, rispose: abbasso Torlonia. Invece Palummo fu registrato come socialista per aver risposto cortesemente Viva i poveri” (pag. 120, 121). Il processo farsa termina qui perché irrompe sulla scena Maria Rosa, la madre di Berardo e rivela le violenze subite da parte delle donne di Fontamara ad opera dei militi fascisti, quando gli uomini di Fontamara erano a lavorare nei campi. I militi vedono affacciata ad una finestra del campanile Elvira la promessa sposa di Berardo Viola. Credendo ad un’apparizione della Madonna, fuggono precipitosamente. Michele Zompa li costringe a fermarsi mettendo di traverso un tronco lungo la strada che porta a valle.

RELIGIOSITA’ POPOLARE NEL ROMANZO

 

Più volte Ignazio Silone si è autodefinito “Cristiano senza Chiesa e Socialista senza partito”. Proprio negli anni della stesura del romanzo andava maturando la decisione sofferta di uscire dal Partito Comunista nel quale aveva riposto tutti gli ideali di giustizia e di libertà. I crimini di Stalin gli aveva aperto gli occhi. Si era sentito sempre un Cristiano ma lontano dalla Chiesa Ufficiale, corrotta e a braccetto con il potere. Don Abbacchio, il parroco di Fontamara, già il nome è la sua carta di identità, grasso e pasciuto, ama trovarsi sempre dalla parte dei potenti alla tavola dei quali mangia a ganasce piene. La sola cosa bella che i Fontamaresi trovavano nella loro piccola chiesa era il quadro dell’Eucarestia sull’altare: Gesù che ha in mano una pagnottella di pane bianco con la scritta “Questo è il mio corpo”. Il pane era bianco, non di granturco come quello che loro erano costretti a mangiare. Celebrata la messa nel corso della quale, alla predica, aveva parlato per l’ennesima volta di San Giuseppe da Copertino, uscendo dalla chiesa incontra Baldisserra: “Come sta? Gli chiese il prete tanto per dire. Bene, benissimo gli rispose il generale con un inchino. Ma dal gruppo di uomini ch’era in mezzo alla piazza ad aspettare l’uscita delle donne dalla chiesa, egli ebbe risposte più varie e meno complimentose. “Voi dimenticate, a me sembra, osservò il prete in tono risentito ch’è stato Iddio a stabilire: tu ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte… Magari, fece Berardo magari fosse il mondo regolato secondo quella sentenza. Perché? Tu trovi che non è così? Gli domandò il prete sorpreso. Magari, insisté Berardo, magari io guadagnassi il mio pane col sudore della mia fronte; in realtà, io guadagno soprattutto il pane di quelli che non lavorano. Si può essere utili alla società ribatté il prete imbarazzato, anche senza zappare la terra. Come dice quella sentenza? Continuò Berardo cocciuto: Dice tu guadagnerai il tuo pane. Non dice, come in realtà succede: tu guadagnerai la pastasciutta, il caffè e i liquori dell’Impresario. Io mi occupo di religione e non di politica intervenne il prete seccato, e fece l’atto di allontanarsi. Ma Berardo lo prese per un braccio e lo trattenne tra le risate generali. Come dice quella sentenza? Gli chiese di nuovo Berardo. Dice col sudore della tua fronte. Non dice, come in realtà succede: col sangue dei tuoi polmoni, col midollo delle tue ossa, con la tua vita” (pag. 138). Il costume degli uomini di Fontamara di aspettare in piazza l’uscita delle donne dalla chiesa lo si ritrova anche oggi in certi paesini dell’Abruzzo dove andare in chiesa per l’uomo è una cosa da non fare perché il prete viene sempre visto come schierato dalla parte del potere. E’ un disonore farsi vedere bigotto. Dove non arriva il rispetto umano! Quando Scarpone misura il livello dell’acqua del ruscello che finisce tutta nell’alveo fatto costruire apposta dall’Impresario, le donne mandano le maledizioni più terribili all’indirizzo dell’Impresario e di quanti stavano dalla sua parte, invocando anche i Santi: “Possano morire nel deserto. Possano finire nel fuoco eterno. Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria fate queste grazie all’anima mia” (pag. 142). Quando Teofilo, il sacrestano si impicca alla corda della campana e muore, don Abbacchio non vuole celebrare il funerale in chiesa: “Chi si impicca, va all’Inferno e se un sacrestano si impicca, va nel più profondo dell’Inferno… Noi dobbiamo mettere il cadavere di Teofilo in mezzo alla chiesa, proseguì Scarpone e tenerlo ventiquattr’ore, in modo che abbiano il tempo di vederlo Cristo, la Madonna, San Rocco, Sant’Antonio, San Giuseppe da Copertino, San Berardo e tutti i Santi. Che vedano in quali condizioni siamo ridotti” (pag. 157). Gli uomini di Fontamara hanno una loro religiosità popolare. Lo stendardo di San Rocco, il santo protettore dell’Abruzzo, ieri come oggi, San Gabriele dell’Addolorata, compatrono con San Rocco, è stato aggiunto dopo, viene issato dai Fontamaresi con orgoglio sul camion guidato dal milite fascista che li porta ad Avezzano per festeggiare gli avvenuti Patti Lateranensi. E’ il loro gagliardetto. Non conoscono quello del Fascismo né vogliono conoscerlo. “Il vero Dio che oggi comanda sulla terra è il denaro. Comanda su tutti, anche sui preti come don Abbacchio, che a parole predicano il dio del cielo. La nostra rovina aggiungeva Berardo forse è stata di aver continuato a credere al vecchio Dio, mentre sulla terra adesso re regna uno nuovo” (pag. 160). Bellissime le pagine del romanzo che narrano il pellegrinaggio di Elvira al Santuario della Madonna della Libera e bellissime le parole che la ragazza indirizza alla Vergine: “Santissima Vergine Maria, disse Elvira appena arrivata alla presenza dell’immagine sacra. Io ti chiedo una sola cosa: d’intercedere per la salvezza di Berardo. In cambio ti offro l’unica povera cosa che possiedo, la mia vita. Te l’offro senza esitazione, senza rimpianto, senza sottintesi. Aveva appena terminato di pronunziare queste parole che Elvira fu colta da altissima febbre: cominciò a bruciare come una fascina di rami secchi cui fosse stato improvvisamente appiccato il fuoco. Ti offro la mia vita, ripeté Elvira all’immagine sacra; e sentendo che la sua offerta era accettata, aggiunse con voce più sommessa: Chiedo soltanto la grazia di morire a casa mia. E quella grazia della pietosissima Vergine le fu concessa. Tornò a casa, mise in ordine le poche sue cose, affidò in padre infermo a una zia, si mise a letto e mori” (pag. 184). Questo non accade a Berardo che muore a Roma nelle carceri fasciste. Dopo A aver saputo della morte di Elvira, pensa che per lui ormai la vita non ha più senso. Si sacrifica assumendo la responsabilità, davanti al commissario di polizia, di essere lui Il Solito Sconosciuto, che i pacchi di giornali nei quali si incita alla rivolta contro il Fascismo sono suoi: “Che senso ha il vivere che ora Elvira è morta? E se io tradisco, tutto è perduto. Se io tradisco, diceva, la dannazione di Fontamara sarà eterna. Se io tradisco passeranno centinaia d’anni prima che una simile occasione si ripresenti. E se io muoio? Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri” (pag. 181). E’ sempre l’eredità cristiana che, a partire dalla croce di Cristo e dall’attesa escatologica del Regno, spinge Berardo Viola, Luigi Murica, altro personaggio principale del romanzo “Vino e Pane”, a compromettere in modo insensato e scandaloso la loro carriera o la loro vita, come gli antichi martiri. Tutti questi uomini vengono da una tradizione più antica di loro. Sono uomini d’oggi ma vengono da lontano e vanno lontano. Non restano a casa loro, sono fuggitivi, scampati, gente che si è ribellata. Per loro la tradizione è diventata eredità, ma è ugualmente attiva e presente, anche se rinnegano o credono di rinnegare la spinta d’origine, anche quando in nome di questa spinta, si ribellano contro Dio o contro la Chiesa

 

ULTIME PAGINE DEL ROMANZO

 

“Hanno ammazzato Berardo Viola, Che Fare? “C’è nel titolo che fare?” Osservò Michele. “Non basta” rispose Scarpone. “Bisogna ripeterlo. Se non si ripete, il titolo non vale nulla. Anzi, è meglio levarlo. Che fare? Bisogna ripeterlo in ogni articolo. “Ci hanno tolto l’acqua, che fare?” Capite? “Il prete si rifiuta di seppellire i nostri morti, che fare? In nome della legge violano le nostre donne, che fare? Don Circostanza è una carogna, che fare? Allora tutti capimmo l’idea di Scarpone e fummo d’accordo con lui… Era di sera tardi quando venne da me Scarpone a portarmi un pacco di trenta copie del giornale “Che fare? Affinché le andassi a distribuire a S. Giuseppe dove avevo molti conoscenti. Il giorno dopo gli altri Fontamaresi avrebbero distribuito il giornale negli altri villaggi vicini. In tutto ne erano state fatte cinquecento copie” (pag. 187, 188).

Il coraggio dei cafoni di Fontamara, che escono con il loro giornale, provoca la reazione immediata delle autorità e dell’Impresario che mettono a ferro e a fuoco il piccolo paesino: “Ogni tanto gli spari s’interrompevano, ma poi riprendevano più fitti. Proseguendo, divenne più chiaro che gli spari provenivano da Fontamara e che si trattava di colpi di moschetto. Che fare? Ci chiedemmo tra noi in preda allo sgomento. Era la domanda di Scarpone: Che fare? Ma la risposta era più difficile della domanda. Intanto continuavamo ad andare avanti. Nell’incrocio tra la via di Fossa e quella di Fontamara, ci si parò innanzi Pasquale Cipolla. Dove volete andare? A Fontamara? Siete pazzi? Ci gridò Cipolla e riprese la corsa verso Fossa. Noi ci mettemmo a correre dietro di lui” (pag. 189). I fuggitivi vengono a sapere da Pasquale Cipolla che a Fontamara sono morti: il generale Baldissera, Scarpone, mentre Pilato aveva preso la via della montagna. “Nell’oscurità perdemmo di vista Pasquale Cipolla. Né avemmo più notizie di lui. Né abbiamo avuto più notizie degli altri. Di quelli che morirono e di quelli che si salvarono. Né della nostra casa. Né della terra. Adesso siamo qui. Per mezzo del Solito Sconosciuto, col suo aiuto, siamo arrivati qui, all’estero. Ma è chiaro che non possiamo restarvi. Che fare? Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione, che fare?” (pag. 189, 190).

 

Raimondo Giustozzi

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