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da Raimondo Giustozzi
Le destre autoritarie e i populisti che restringono i diritti delle minoranze di genere, e non solo quelle, eseguono un preciso progetto politico di Putin volto a scardinare lo stato di diritto e a oscurare la società aperta. La resistenza democratica non può limitarsi soltanto ai carri colorati, servono anche i carri armati
Sono bellissime e commoventi le immagini del Pride a Budapest, con la resistenza ungherese al semi despota Viktor Orbán in grande spolvero e, certamente, rinfrancata dall’abbraccio solidale della comunità politica internazionale, testimoniato dalla presenza lungo le affollate strade della capitale perfino dell’opposizione italiana con delegazioni autorevoli e per una volta non litigiose.
Come ha sottolineato Carmelo Palma su X, se c’è un significato politico della manifestazione di Budapest, e certamente c’è, non può essere limitato alle importanti questioni poste dal Pride, ma va esteso alla resistenza contro la russificazione dell’Europa e contro la chiusura della società aperta.
Avrebbe poco senso, infatti, protestare soltanto contro la limitazione dei diritti civili sorvolando sulla causa che determina quell’effetto, ovvero sulla grande strategia putiniana di sostituire il modello di democrazia liberale con l’autocrazia illiberale cara ai suoi ammiratori Orbán e Trump. Le due cose sono legate: il restringimento dei diritti civili e umani desiderato da una certa parte politica è figlio naturale dell’attacco imperialista di Putin alla società aperta, in Ucraina e non solo.
Difendere le ragioni del Pride di Budapest e contemporaneamente chiudere entrambi gli occhi o addirittura sostenere il progetto culturale e militare di Mosca minimizzandolo, o facilitando le operazioni russe in Ucraina o impegnandosi per evitare che l’Europa reagisca all’attacco, non aiuta a migliorare le condizioni di chi ha sfilato al Pride, ma al contrario contribuisce a reprimere ancora di più i diritti civili e umani delle minoranze più deboli.
Diritti Lgbtq, armi all’Ucraina, difesa europea e lotta alla disinformazione fanno parte dello stesso programma di resistenza all’autoritarismo della destra populista, e anche di resistenza al populismo di una parte della sedicente sinistra che non appare particolarmente interessata al Pride, non si oppone a Orbán, abbraccia Trump, emana i decreti sicurezza, non partecipa al voto sul referendum per la cittadinanza, e ripete in italiano la propaganda russa sull’Ucraina.
Abbiamo scritto spesso su Linkiesta delle leggi liberticide di Orbán e recentemente del suo divieto di manifestare al Pride, perché il dissenso politico e la disobbedienza civile contro chi calpesta lo stato di diritto nazionale ed europeo sono azioni coraggiose e ammirevoli di una resistenza democratica da salvaguardare in Ungheria e altrove.
«Il Pride batte Orbán», ha titolato con entusiasmo Repubblica. Ma, nonostante il benemerito successo del Pride anti Orbán di sabato, non può essere soltanto la piattaforma dell’orgoglio Lgbtq la ricetta politica per fermare le destre autoritarie e la demagogia populista che ogni giorno indeboliscono la democrazia, socchiudono la società aperta e oscurano la palette dei diritti civili e politici.
Giustissimo battersi per i diritti delle minoranze di genere, e di tutte le altre minoranze, guai a smettere di farlo, ma l’idea che i despoti o gli aspiranti tali si possano sconfiggere soltanto con i balli sui carri colorati o coalizzando tutte le minoranze minacciate dagli autocrati è perlomeno ingenua, e non tiene conto da dove nasce questa offensiva contro i diritti civili. Servono anche i carri armati da affidare agli ucraini, che combattono al fronte.
Rispondere a chi vuole smantellare lo stato di diritto con l’orgoglio gay o di qualsiasi altra minoranza peraltro è esattamente quello che si è fatto in tutti questi anni in cui le destre anziché retrocedere sono diventate sempre più estreme e sono entrate sempre di più nelle stanze del potere (basterebbe chiedere lumi agli strateghi della campagna di Hillary Clinton che nel 2016 provarono proprio a costruire una coalizione elettorale di tutte le minoranze americane, col risultato che poi vinse Trump).
Questo, ripeto, non significa che non bisogna lottare per il rispetto dei diritti di tutti, e in particolare delle minoranze la cui vita sociale è messa a rischio dalle politiche autoritarie e liberticide, ma non può essere questo l’unico o il principale terreno di sfida alle destre autoritarie, estreme e populiste.
Dieci anni fa c’era chi rideva quando qualcuno spiegava che una delle ragioni per cui Donald Trump aveva vinto le elezioni del 2016 era la prevalenza nel dibattito pubblico americano della (falsa) narrazione secondo cui Barack Obama e i democratici si occupavano soltanto di istituire i bagni per i transessuali nelle scuole, e non delle difficoltà sociali dei “forgotten men” dell’America profonda.
La stessa cosa è successa alle elezioni del novembre scorso, con i trumpiani che dipingevano Joe Biden e i democratici come quelli che assecondano e facilitano il cambiamento di sesso dei minorenni e che vogliono far gareggiare gli uomini che si sentono donne negli sport femminili.
L’ossessione di Trump per questi temi, recentemente reiterata alla Casa Bianca davanti ai calciatori della Juventus e la settimana scorsa confermata da una sentenza a suo favore della Corte Suprema, non è dettata da un suo genuino interesse sulle questioni di genere, anche perché Trump come è noto non ha alcun genuino interesse se non sé stesso, semmai è motivata dalla consapevolezza confermata dai sondaggi di opinione e dal voto alle elezioni che mettere in primo piano questi temi crea consenso a favore di chi vuole comprimere i diritti, e non a favore di chi vuole difenderli.
È un argomento scivoloso, questo, perché concede alla destra autoritaria e populista di inquadrare a suo piacimento i contorni del dibattito politico. Ma è una riflessione che va fatta e che andrebbe estesa anche gli entusiasti sostenitori del socialista Zorhan Mamdani, fresco trionfatore delle primarie democratiche per diventare sindaco di New York.
In un posto come New York la ricetta socialista può anche funzionare per ottenere consensi, anche se poi andrà valutata alla prova del governo, ma resta da capire come mai le zone più povere dei cinque borough di New York, comprese quelle dove Trump a novembre dell’anno scorso ha conquistato molti voti, abbiano preferito il candidato centrista Andrew Cuomo a quello socialista che, in teoria, avrebbe dovuto intercettare il malcontento popolare attratto da Trump. Così come il successo di Mamdani non spiega perché nei quartieri più affluenti della città abbia invece prevalso il messaggio socialista, anziché quello liberale.
Insomma, attenzione a confrontarsi con le destre autoritarie e razziste sventolando soltanto la carta delle minoranze o contrapponendo un populismo di un altro tipo.
È vero che i tempi impazziti di oggi richiedono idee nuove, un altro paradigma politico e, ahimè, impongono anche di abbandonare le ricette degli anni Novanta (la terza via clintoniana e blairiana tra socialismo e liberismo), ma la soluzione non può essere quella di ripristinare la formula socialista fallita negli Anni Ottanta né affidarsi alla mano invisibile del mercato, anche perché i populisti e gli autoritari se ne infischiano del mercato e sono molto visibili nel tentativo di manipolarlo.
Ma prima ancora di farsi venire nuove idee per affrontare l’era populista, è decisivo non perdere l’orientamento nel contesto in cui viviamo: contro l’autoritarismo imperiale della Russia, della Cina e dei loro vassalli presenti tra di noi, difendere soltanto i diritti delle minoranze senza contemporaneamente impegnarsi a sradicare le cause scatenanti, anzi magari offrendo anche i propri servigi per alimentarle, in realtà contribuisce a restringere quei diritti, oltre che a smontare lo stato di diritto e a perdere la libertà.
Linkiesta, Editoriale, 30 giugno 2025
di Christian Rocca
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