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Piccolo mondo antico artigiano La bottega del falegname

Bottega artigiana2di Raimondo Giustozzi

In questi giorni di inizio primavera, che stenta ad arrivare, con le giornate ancora fredde al mattino e alla sera, ho ripreso in mano, con una vena di nostalgia per il tempo passato, vecchi appunti che tenevo nel computer. Erano i primi anni del mio ritorno nelle Marche, residenza a Civitanova Marche, dove vivo ormai da circa trent’anni: “Strani davvero questi giorni di ottobre, con la nebbia che al mattino copre ogni cosa. Viene voglia di uscire. Ci sono abituato. Con l’arrivo dell’autunno, “la scighera” e “ul frec“, la nebbia ed il freddo scandivano tante giornate trascorse in Brianza.

 

Mi accorgo poi con sorpresa che oggi è mercoledì, giorno libero da impegni scolastici. Tutto ritorna. Mercoledì era anche il giorno libero quando insegnavo a Verano Brianza; per tanti anni l’ho dedicato a ricerche di storia locale sulle antiche osterie, i mestieri di servizio, le attività produttive, il dialetto, i momenti di festa. Niente di meglio che prendere la macchina e salire verso la città alta. Il paesaggio è quello di sempre. C’è una cosa nuova, ma a me familiare: la nebbia. Il ricordo non può non andare lontano, in una ideale continuità di rapporti tra la terra d’elezione e quella del ritorno. Sono a caccia di notizie poi riguardanti le antiche botteghe del falegname, cuore pulsante dell’economia brianzola, nella forma artigianale prima, industriale poi. Fortuna sfacciata. Trovo il posto proprio in piazza della Libertà, a Civitanova Alta. Aspetto un po’. Mario è già sul posto, arriva anche Pierino ed in un batter d’occhio, l’elenco viene completato: Peroni Vittorio, Berdini Gottardo, Baiocco Michele e Luigi, Macellari Goffredo, Silvestrini Giuseppe, Gaetani Francesco, Fioretti Alfredo, Paparini Giuseppe, Marazzi Raffaele, Barabuglini Angelo.

 

Ben dieci le botteghe di falegname, di più i proprietari, perché alcuni rilevano il laboratorio che un tempo era in mano ad altri. I ricordi corrono sul filo della memoria.  Angoli, vie e piazze erano pieni di vita, non freddi e morti come oggi. Non è l’elogio del bel tempo andato. È la constatazione che quando si stava male materialmente e si era povera gente, si viveva in pace ed in armonia con se stessi e con gli altri. Alla domenica, ricordano Pietro Pepa e Mario Ranieri, il paese era attraversato dal suono degli strumenti musicali. Ci si conosceva tutti e si amava scherzare, non si era tristi ed immusoniti come oggi, pur avendo più cose a disposizione. Il 19 Marzo era la festa dei falegnami alla quale partecipava tutta la cittadinanza. I falegnami festeggiavano S. Giuseppe Operaia nella chiesa del S. Sacramento, poco oltre l’attuale ASL, là dove fino a pochi anni fa c’era l’ospedale. Al termine della funzione religiosa, si ritrovavano nella bottega di Pietro Pepa, uno dei più conosciuti birocciai della città alta ed estraevano a sorte i nomi di quelli che avrebbero dovuto organizzare la festa l’anno successivo. La bottega artigiana era l’apprendistato del garzone. Alcuni di loro, in seguito, aprirono una propria bottega, ma dopo diversi anni passati alle dipendenze del mastro artigiano”. Pierino Pepa, il fondatore del museo delle tradizioni e arti popolari in via del Crocifisso a Civitanova Alta, ci ha asciati molti anni fa.

 

“L’apprendistato per il garzone, mi raccontavano gli anziani, quando ero in Brianza, comportava anche una iniziazione vera e propria, con scherzi e burle d’ogni genere. Capitava spesso che a qualcuno di loro, ritenuto un po’ imbambolato e poco sveglio, gli venisse chiesto di recarsi al più vicino negozio per acquistare una “bottiglia d’acquadoss”. L’ingenuo garzone andava in negozio ed alla domanda: “Sa voeret ti?” (Cosa vuoi?), rispondeva: Una bottiglia “d’acquadoss”. Il negoziante andava nel retro bottega e scaraventava addosso al malcapitato il contenuto della stessa. Quest’ultimo si ritrovava tutto bagnato e riempito di improperi: “stupid, bamba, pirla” ed altri epiteti più o meno coloriti. Da noi le cose non andavano così anche perché la bottega artigiana di falegname aveva pochi garzoni, non come quella brianzola che aveva molti operai, antesignana di quella che sarà poi la grande industria del mobile.

 

La giornata del garzone iniziava molto presto. Provvedeva ad accendere il fuoco del camino o della stufa per riscaldare l’ambiente, anche per arroventare sui tizzoni ardenti i diversi “fer da stir” (ferri da stiro) che servivano durante la fase dell’impiallacciatura fatta tutta a mano. Un altro compito del garzone era quello di tenere sempre pronta la colla, indispensabile al momento dell’impiallacciatura quando cioè si rivestiva il mobile con sottili fogli di legno pregiato. Questi ultimi, per essere pronti alla lavorazione dovevano essere immersi più volte nell’acqua. Dopo averli resi morbidi, iniziava l’impiallacciatura vera e propria. La colla veniva spalmata col pennello sul piano preparato precedentemente ed i fogli di lastra venivano messi sopra, facendo attenzione che tutto venisse fatto nel modo più rapido possibile. Terminata la spalmatura, il falegname chiedeva: “fer da stir” ed il garzone aveva il compito di afferrare lo strumento richiesto, reso arroventato dal fuoco del camino e passarlo al principale insieme al “martel de penna”. Il primo strumento aveva il potere di far rinvenire la colla, il secondo pressava i fogli sul piano, fino ad ottenere una superficie liscia ed uniforme. Solo un falegname esperto sapeva fare queste due operazioni che richiedevano grande competenza. Quella della impiallacciatura era una fase che durante la stagione estiva doveva essere eseguita o al mattino presto o di notte, evitando le ore più afose del giorno, perché la colla, col caldo non si raffreddava e creava dei problemi.

 

Gli strumenti ed i materiali di lavoro, allineati sul bancone o appesi alle pareti, permettono di ricreare la bottega del falegname: scalpello, sgorbia, punteruolo, trapano a mano, graffietto, lo “replay” usato per lavorare gli angoli, raspa, lima, compasso, squadra, pialla, sponderuola, ferro a dente, strumento con dentellature, usato durante l’impiallacciatura, ferro da stiro, morsetti, succhiello per fare i buchi, staggia, sega a mano, lo “segò”, carta vetrata, colla, quella fredda, marca “Certus”, quest’ultima però aveva un difetto: lasciava le macchie. Trucioli e segatura alimentavano il fuoco della stufa o del camino o venivano dati a chi ne avesse avuto bisogno nelle case per riscaldarsi, nel quadro di una economia in base alla quale tutto doveva essere riutilizzato e nulla buttato. Bastava un semplice fusto di latta, acquistato in qualche negozio, per costruirsi una piccola stufa. Si praticava un foro in basso, alla base del fusto, per consentire la circolazione dell’aria, sul coperchio superiore su praticava un buco per introdurre un bastone o una grossa bottiglia. La segatura veniva pressata ai lati. Terminata la fase di caricamento, si toglieva il bastone o la bottiglia ed il condotto lasciato consentiva il tiraggio necessario perché la segatura bruciasse lentamente. Il riscaldamento era ben assicurato. “Odi il martel picchiare, odi la sega/ del legnaiol che veglia/ nella chiusa bottega alla lucerna/ e s’affretta e s’adopra/ di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba” (Cfr.: G. Leopardi, Il Sabato del Villaggio). Era un ottimo osservatore Giacomo Leopardi. Il lavoro del falegname durava a volte fino all’alba. La consegna della camera da sposi, ricorda ancora chi ha una certa età, veniva effettuata il giorno prima delle nozze.

 

Raimondo GiustozziBottega artigiana

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