di Raimondo Giustozzi
Nel lungo periodo trascorso in Brianza ho avuto modo di ricostruire tanti tasselli di storia locale legati ad attività di servizio oggi del tutto scomparse. C’era una volta il “cadreg

Andrea Pecorari
at”. È curioso notare come il termine derivi dal latino “cathedra”, sedia, da qui il termine dialettale brianzolo. Non me ne vogliano i cultori del celtico e del “lumbard”. Alcune, molte parole dialettali lombarde sono di origine latina. Il “cadregat” era chi aggiustava oppure rifaceva l’impagliatura delle sedie da cucina che si consumavano in fretta. Vestiva in modo dimesso: i soliti pantaloni alla zuava, di velluto, a coste larghe, camicia scozzese coperta dal giubbetto, berretto in testa e grosse scarpe ai piedi. Arrivava, si metteva al centro del cortile o sotto il porticato della vecchia cascina brianzola, a seconda delle stagioni ed iniziava il suo lavoro. Gli strumenti semplici e pratici: un punteruolo in legno, poi con la forza delle mani tirava la paglia, intrecciandola secondo un ordine ben preciso.
“Chi g’ha un mesté in mòn, ghe manca minga un toc de pàn”. A chi conosce un mestiere, non manca mai un pezzo di pane. Importante, ieri come del resto anche oggi, era conoscere il mestiere, anzi esserne padroni, saperlo sfruttare in ogni momento. La Brianza era questo, ma non solo la terra che ho imparato ad apprezzare per quello che mi ha dato, ma anche quella nella quale ora vivo, era uguale. Il “cadregat” di lassù era il sediario di Civitanova Marche, coadiuvato nel suo lavoro dalle impagliarelle, le donne addette a questa attività produttiva. È un altro piccolo contributo per affermare ancora una volta l’unità di un popolo, sia che vivesse al di sopra, che al di sotto del grande fiume.
La bottega del “legnamé” non aveva poi nulla di diverso da quella del falegname di qui, basta confrontare qualche fotografia della vecchia bottega artigiana dei fratelli Proserpio di via Garibaldi in Giussano, con quella relativa ad un anziano falegname del posto dove sono ora. Solo che gli uni si trovano in Brianza, la bottega ora è del tutto scomparsa, l’altro si trova a Civitanova Marche. Beh! Ed Allora! I Cenomani, i Galli Boi, gli Insubri, i Senoni, la città di Senigallia nelle Marche deriva il suo nome da loro, sono un qualcosa di lontano. Certo però che, tra tutti, i Cennomani sono i più terribili e se una volta si diceva: “Mamma, li Turchi”, d’ora in poi si dovrà dire: “Mamma, li Cenomani” ed un brivido percorrerà la schiena. Fa sorridere il riferimento ad un tempo che è solo dietro l’angolo, trent’anni fa; il mondo è cambiato ma di molto. La Padania, i sovranisti di allora, che si facevano chiamare anche patrioti: “Questa terra è la nostra terra, qui noi vogliamo comandare, noi popoli del Nord”. Quisquiglie, bazzecole e pinzillacchere. Nel giro di pochi anni siamo passati dal terremoto, che ha funestato il Centro Italia, al Covid, alla guerra scatenata dalla Federazione Russa ai danni della vicina Ucraina, ai dazi imposti da Donald Trump, per non parlare poi di Vladimir Putin e di tutti i suoi portavoce. Oggi, i sovranisti lanciano bombe e missili.
C’era una volta l’attività dei sediari
C’era in Civitanova Alta un vicolo, proprio dietro la torre dell’acquedotto. È quello dei sediari. È difficile stabilire quando la via, breve e stretta abbia assunto tale denominazione. Si pensa che sia stata chiamata così in epoca fascista quando l’etica del lavoro doveva entrare a far parte della vita di tutti i giorni e la si coglieva nelle scritte cubitali disseminate sui muri delle case e nelle pubbliche piazze. Eppure l’attività di costruire ed impagliare sedie ha inizio nella città alta negli anni precedenti il primo conflitto mondiale. All’inizio i sediari erano pochi, poi col tempo diventarono tanti; ad ogni piccola bottega se ne aggiungevano altre come in una gara ad imitazione.
Girando per le vie e per le viuzze, dentro la cerchia delle antiche mura era il ronzio del tornio o il fischio prolungato della pialla ad accompagnare e scandire quasi le ore del giorno. Si lavorava dall’alba al tramonto ed ogni bottega artigiana degna di tale nome aveva tutto l’occorrente per la produzione, in un quadro di autarchia sbandierato anche negli alti vertici della politica nazionale. Chi non aveva una trafileria, veramente pochi, si appoggiava a chi ce l’aveva e l’attività procedeva senza sosta. Piedi, listelli, spalliera venivano ricavati dalla lavorazione del faggio. Grossi tronchi ne arrivavano dall’Ascolano e dalle zone degli Appennini. Viaggiavano su carri trainati da cavalli.
Nel laboratorio si tagliava con la sega a nastro, si lavorava alla trafila, una specie di tornio o con la pialla. Alle dipendenze del titolare lavorava anche qualche garzone. Le braccia da lavoro che crescevano nelle campagne venivano assorbite in questa attività. Il più fortunato lavorava in modo continuativo. Spesso erano i genitori stessi del garzone a pagare l’artigiano perché assumesse il proprio figlio. I soldi poi venivano restituiti a quest’ultimo come paga per il lavoro svolto. Gli avventizi invece lavoravano per pochi periodi all’anno, quando il lavoro nei campi conosceva la lunga stasi dei mesi invernali. Col tempo ed in un quadro d’aggiornamento, che investiva un po’ tutti, il legno veniva acquistato fuori dai confini regionali, perché la richiesta di sedie aumentava sempre e la bottega da sola non riusciva a far fronte alla domanda crescente.
Si organizzavano allora viaggi verso il Friuli, dove le grandi segherie della zona producevano listelli, pioli, piedi, spalliere in grande quantità. Le mete erano: Udine, Cormons, Mariano del Friuli, Trigesimo. Partivano da Civitanova camions carichi di verdura che veniva scaricata nei mercati locali e ripartivano con i prefabbricati che servivano per alimentare le botteghe artigiane della città. Altre volte si partiva di proposito, senza verdura al seguito per acquistare quello che occorreva, anche pezzi di ricambio per le macchine, punte, pialle ed altro.
L’elenco dei sediari che operavano su tutto il territorio comunale è lungo: i fratelli Baldassarrini, Cattolica, Cingolani, Marsili. Questi ultimi possedevano la fabbrica davanti al vecchio ospedale di Civitanova Alta, prima del 1915- 1918 avevano alle proprie dipendenze cinquanta operai circa. Assieme alla fabbrica dei fratelli Mercanti di Porto Civitanova era la realtà produttiva più importante del settore. I Mercanti, che avevano il laboratorio nell’area dove una volta era la vecchia vetreria di Porto Civitanova, avevano alle proprie dipendenze trenta operai circa. Poi tanti erano i nomi di altri sediari, più piccoli ma ugualmente importanti nell’economia della città: Gino de Vedovà, Micucci, Checco Pecorari, Andrea, Marchigiani Umberto detto “lo serparo”, Armando Pecorari, i fratelli Moschettoni, Cesare Pecorari, Pietro Santini, Peppe de Tommaso, Ripari detto “passero”, i fratelli Papili, Giacinto Torresi, i fratelli Trovellesi ed Ugo Pipponsi.
Nel ricordare tutti questi nomi emerge anche la memoria di un tempo che non c’è più sostituito da un maggiore benessere ma anche da tanto individualismo, vuoto ed estraneità dell’uno verso l’altro. Marchigiani Umberto detto “lo serparo” credeva nelle capacità terapeutiche della serpe, che strusciata sulla pancia delle donne, aveva il potere di curare le più strane malattie. La domenica poi, per tutti i sediari, che avevano lavorato sodo per l’intera settimana, era il giorno della cantina.
Accanto al lavoro dei sediari c’era poi quello delle impagliarelle addette alla impagliatura delle sedie. Erano “le impagliarelle”, così venivano chiamate con un termine che suona dolce ed affettuoso, anche se il lavoro era faticoso e poco remunerativo. Tutte le donne di Civitanova Alta lavoravano per i sediari. Sette, otto lavoravano per i fratelli Papili ed ognuna di loro impagliava dalle quattro alle dieci sedie al giorno. Indubbiamente chi poteva contare sulla suocera o su altre donne che erano in casa per attendere ai lavori domestici, aveva più tempo per lavorare ed il numero delle sedie era più alto. Il guadagno per ogni sedia impagliata, negli anni 1946, 1947, 1948 si aggirava sulle 10 lire. Il lavoro veniva fatto tutto a mano. La paglia bagnata nell’acqua perché potesse essere lavorata meglio, veniva intrecciata da mani abili ed esperte. Era un tirare misurato e regolare, i gesti ripetitivi, la fatica tanta e quel che si prendeva, serviva per arrotondare il magro bilancio familiare. Andrea Pecorari, scomparso alcuni anni fa, è stato uno degli ultimi sediari di Civitanova Alta, sua moglie Maria è stata l’ultima impagliarella. Li ho conosciuti entrambi, persone eccezionali, grandi lavoratori, affabili come pochi. Accompagnai alcuni alunni nel loro laboratorio assieme ad un collega, quando insegnavo ancora.
La paglia era di tre diversi tipi: la “vella” chiamata anche “votena” cresceva in ambienti palustri, lungo il fiume Tronto. Veniva tagliata ad agosto dopo la mietitura del grano. L’erba “sala” lunga e bella cresceva nelle valli di Comacchio nel Ferrarese e c’era chi partiva di tanto in tanto per farne un carico. Il “salino” invece era il cordone di paglia che copriva le damigiane. L’acqua non mancava, serviva per bagnare il prezioso materiale. Era un bene prezioso. Ricordo il racconto di tanti “legnamé”, falegnami di Giussano, in Brianza dove l’arte di costruir mobili e sedie è diffusissima, come da noi l’attività della calzatura. Prima dell’impiallacciatura, quando cioè il mobile veniva rivestito con sottili fogli di legno pregiato, questi ultimi dovevano essere immersi più volte nell’acqua per essere lavorati meglio.
Anche a Civitanova Alta non mancavano le fontane disseminate un po’ ovunque: al campo sportivo, allo scalone, Porta Girone, Borgo Casette, di fronte all’Istituto Professionale, all’ASL, Porta Zoppa, Porta Marina. Le sedie prendevano poi la strada dei grandi mercati, trasportate prima su carri a quattro ruote, trainati dal cavallo, poi quando il mercato si allargò, su camions. Le mete erano: Foligno, Ascoli, Terni, Campobasso, San Severo.
Il lavoro delle impagliarelle e dei sediari di Civitanova Marche Alta è stato valorizzato ultimamene con la pubblicazione di un grazioso libro, opera di Maurizio Micucci, legato affettivamente, per tradizione familiare, al mondo dei sediari e delle impagliarelle. Tutta la via dei Sediari, rimessa al bello e opportunamente addobbata, è meta di visitatori e turisti. È la promozione di un angolo della cittadina marchigiana, posta in collina, che rimane ancora un po’ fuori mano. Si sa che il mare e lo shopping interessano più la città bassa, quella che un tempo era chiamata Portocivitanova ed era solo una frazione della città alta.
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