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Delitto e castigo La storia di Victoria Roshchyna, catturata, torturata e sparita nell’Ucraina occupata

da Raimondo Giustozzi

23201976-large-1200x800Al Festival del Giornalismo di Perugia, le colleghe della reporter ucraina, detenuta senza accusa e dichiarata morta senza prove, hanno ricostruito la sua ultima missione nei territori occupati

 

Victoria Roshchyna aveva ventisette anni, occhi chiari e una voce calma. Era una di quelle giornaliste che non si limitano a raccontare la guerra da lontano: la attraversano. Con uno zaino leggero, un telefono e una targa stampa ucraina, entrava nei territori occupati dall’esercito russo cercando ciò che nessuno voleva vedere. Lo faceva da sola, senza protezione, senza garanzie. Non per incoscienza, ma per convinzione: raccontare la verità, anche dove l’accesso era proibito, anche dove essere giornalisti significa rischiare la prigione, o la vita.

Roshchyna è stata l’unica cronista civile ucraina ad aver documentato dall’interno la vita sotto l’occupazione russa a Mariupol e in altre città dell’Est. Nel 2023, durante un’inchiesta vicino alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, è scomparsa. Dopo oltre un anno di prigionia segreta, senza processo né accuse formali, le autorità russe hanno inviato ai suoi genitori un messaggio scarno: «Vostra figlia è morta il 19 settembre 2024. Il corpo verrà restituito durante uno scambio di prigionieri». Ma quel corpo non è mai arrivato.

La storia di Victoria è stata raccontata nel panel “Captured, tortured, vanished”, tenuto al Festival del Giornalismo di Perugia. Sul palco della Sala dei Notari, le sue colleghe, investigatrici di Slidstvo.info e attiviste per la libertà di stampa, hanno raccontato il prezzo che pagano i giornalisti ucraini per informare da zone dove il giornalismo è diventato un crimine.

La reporter ucraina a era già stata catturata una prima volta, agli inizi dell’invasione russa su larga scala. Eppure, pochi mesi dopo, scelse di rientrare nei territori occupati, senza scorta né protezione, per investigare su un presunto centro di tortura per operai ucraini nei pressi della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Quella missione, secondo l’inchiesta condotta da Slidstvo.info e Reporters Without Borders, fu il suo ultimo incarico.

Le indagini, come raccontato durante il panel moderato da Angelina Kariakina, hanno ricostruito attraverso mesi di lavoro una verità parziale e atroce: Victoria fu imprigionata a Taganrog, sottoposta a torture con scosse elettriche e privazioni mediche, tenuta in isolamento in condizioni fisiche gravissime. A riferirlo sono testimoni oculari, ex detenuti rilasciati in seguito, contattati grazie a un lavoro minuzioso di ricerca e cifrata comunicazione digitale. Una sua ex compagna di cella ha riferito che Victoria era ridotta a uno scheletro: «Pesava trenta kg, non riusciva più a camminare, eppure continuava a identificarsi come giornalista».

Victoria non è mai stata ufficialmente accusata di alcun reato. Secondo Pauline Maufrais di Reporters Without Borders, «si tratta di un caso unico: detenuta in segreto, dichiarata morta dallo Stato che la deteneva, senza prove, senza corpo, senza risposte». Durante una visita dell’ombudsman regionale russo al carcere, Victoria fu nascosta. Anche questo è stato confermato. Un indizio pesante: le autorità russe sapevano chi fosse. E volevano farla sparire.

Il fenomeno non è isolato. Secondo l’Institute of Mass Information, almeno trenta giornalisti ucraini si trovano attualmente nelle carceri russe, spesso civili e detenuti senza accusa formale. Una strategia sistematica, come ha spiegato Oksana Romaniuk, direttrice dell’Istituto: «La Russia ha trasformato la detenzione arbitraria dei giornalisti in un’arma di guerra, come le bombe o l’energia. È un crimine di guerra. E dobbiamo trattarlo come tale».

Durante il panel è emerso un dato ancora più inquietante: mentre i giornalisti ucraini raccolgono testimonianze con mezzi propri, spesso in condizioni pericolose, le vie ufficiali—note diplomatiche, appelli alle autorità russe—restano inascoltate. Pauline Maufrais ha ammesso: «È frustrante, a volte disperante. Ma è proprio per questo che dobbiamo continuare a raccogliere prove. Non per oggi, ma per i tribunali del futuro». Il documentario “The Last Assignment of Victoria”, disponibile su YouTube con sottotitoli in inglese, racconta in modo visivo e potente questa indagine collettiva. Non è solo un tributo alla giornalista, ma un atto di resistenza.

La storia di Victoria, ha ricordato Angelina Kariakina in chiusura del panel, è anche una risposta a una domanda che spesso viene posta nei contesti internazionali: perché i giornalisti ucraini non coprono “l’altra parte”, perché non raccontano le regioni sotto controllo russo? «Victoria ci ha provato. È andata nei territori occupati. Ha cercato di raccontare. Ed è morta. Questo è il prezzo da pagare per provare a farlo». La questione, ha aggiunto, non è solo geopolitica: «Quando ci si chiede se valga la pena difendere un territorio, si dimentica che quei territori sono pieni di persone. E quando si cede un territorio, si consegnano anche quelle vite. Victoria voleva raccontare cosa succedeva lì. Non l’hanno lasciata uscire. Questo è ciò che accade quando una terra viene occupata: non sparisce solo la sovranità, sparisce anche la verità».

Formalmente, il destino di Victoria è avvolto nell’ombra. La sua famiglia, i colleghi, le istituzioni che la ricordano chiedono chiarezza. Forse il vero crimine, oltre a quello commesso contro la giornalista ucraina, è la nostra capacità di abituarci. Di leggere una notizia come questa, voltare pagina e dimenticare.

 

Linkiesta, Esteri, 15 aprile 2025

 

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