da Raimondo Giustozzi
Per troppo tempo appropriazioni di parte, memorie selettive e imbarazzi politici hanno fatto della data fondativa della Repubblica un rituale stanco. Oggi, per onorare la Resistenza, servirebbe un “campo largo repubblicano” a sostegno di chi, 80 anni dopo, resiste contro un dittatore fascista
L’ottantesimo anniversario della Liberazione porta con sé il preventivabile carico di retorica, aumentata non solo dalla cifra tonda, ma anche dalla situazione politica interna e internazionale. Ma proprio queste dovrebbero interrogarci su quanto, oggi, la Liberazione sopravviva come mito fondante dell’Italia repubblicana, valore condiviso del suo sistema istituzionale e della sua identità culturale.
Il significato della Liberazione è messo sempre più in discussione. Una data divisiva, dicono alcuni. A questa obiezione si risponde solitamente che il 25 aprile è divisivo solo per coloro che si riconoscono negli sconfitti di questa data, cioè, il fascismo e la Repubblica di Salò. È vero; ma quest’obiezione non problematizza il processo con cui la data è diventata sempre meno un collante sociale della nostra collettività.
Le forze liberali e centriste hanno probabilmente la colpa di aver lasciato andare troppo facilmente la memoria del loro contributo alla Resistenza, rinunciando in parte a farne un valore attuale. In seguito, la fase berlusconiana, pur senza attacchi diretti all’importanza della Resistenza (anche prima della morte, nel 2023, Berlusconi la definì «una straordinaria pagina su cui si fonda la nostra Costituzione»), ha richiesto una prima messa in discussione del carattere collettivo della Liberazione, in virtù dell’istituzionalizzazione di Alleanza Nazionale, a cui hanno fatto da corredo negli anni diverse dichiarazioni che hanno sminuito i crimini del fascismo, alimentando la retorica di comodo per cui la Liberazione fosse prima di tutto quella dai tedeschi.
Anche la sinistra (post-)comunista ha contribuito a questo processo, cercando di presentarsi spesso come depositaria esclusiva dell’eredità della Resistenza, ponendosi così come interprete unica dei valori costituzionali, “contro” tutti gli altri (operazione, tra l’altro, in contraddizione con la svolta di Salerno di Togliatti). Per farlo, si è spesso sminuito il ruolo di altre forze nella Resistenza, o si è questionato il reale antifascismo di altre culture (è il caso dei liberali, sempre schiacciati sul collaborazionista Giovanni Giolitti, quando pure hanno avuto i Piero Gobetti).
Spesso sono state proprio le celebrazioni della Liberazione a rendere evidente ciò. Nel 2006, ad esempio, Letizia Moratti accompagnò il padre, partigiano e deportato, al corteo del 25 aprile a Milano. Fu accolta da insulti, fischi e spintoni, dovendo poi abbandonare il corteo. Da anni (molto prima del 2023) la partecipazione della brigata ebraica alle celebrazioni è criticata, al punto che a Milano spesso ha dovuto avere un servizio d’ordine apposito, mentre a Roma si è talvolta rinunciato a partecipare. Non serve chissà cosa per notare che questi episodi esprimono uno spirito contrario a quello unitario della Liberazione, e subordinano la verità storica della Resistenza alle divisioni politiche del momento.
Il risultato di queste spinte diverse, ma concordanti nell’effetto di indebolire la Liberazione come patrimonio collettivo, è una data troppo spesso sacrificata sul terreno dello scontro politico, e quindi alterata nella sua essenza. Persino le associazioni partigiane sono da tempo divise; e la principale, non più diretta da chi la Resistenza l’ha fatta, si occupa spesso più di attualità politica in maniera discutibile che di tramandare la memoria.
Ci si può chiedere se, almeno, la società italiana ha assorbito l’antifascismo nei suoi schemi culturali (“anticorpi”, come si dice). Di fronte a questa domanda, bisogna prendere atto che oggi il primo partito italiano è un partito che si riconosce proprio nella storia post-fascista, e infatti la sua leader, oggi presidente del Consiglio, non si è mai dichiarata antifascista (al di là del dibattito sulla possibilità di qualificare Fratelli d’Italia tout court come fascista, che è altra cosa).
Così come bisogna ammettere, di fronte a una dittatura che, come nel 1933, sulla base di una piattaforma politica reazionaria, imperialista e antidemocratica, viola la neutralità di altri Paesi e ne minaccia altri, i più comprensivi, per usare un eufemismo, si trovano proprio tra quelle forze politiche che per decenni hanno preteso di insegnare l’antifascismo e di essere visti come depositarie della memoria della Resistenza. Di fronte a un dittatore che cerca in ogni modo di dimostrarsi il fascista che è, gli antifascisti di professione balbettano (e qualcuno applaude apertamente), parlano di pace e inorridiscono di fronte alla volontà di un popolo di resistere con le armi, dimostrando di aver capito poco della Resistenza, di cui pur si considerano sacerdoti.
Combattere il nazifascismo, e farlo con le armi, quelle irregolari dei partigiani o quelle degli Alleati, ha significato difendere l’identità europea, i suoi valori umanisti e universalisti. Sul piano internazionale, come in Italia, questa consapevolezza vacilla. Gli Usa di Trump sono ontologicamente differenti da quelli che, in nome della libertà europea, rinunciarono alla neutralità e sbarcarono in Normandia. Nel suo allentamento dei rapporti con l’Europa e nell’intesa con Vladimir Putin, la linea di Donald Trump è una sostanziale rottura dell’unità occidentale. Nelle sue idee reazionarie e populiste, è antioccidentale.
A ottant’anni dal 25 aprile, se davvero si vuole salvare l’eredità della Liberazione servirebbe un “campo largo repubblicano”, non per creare improbabili alleanze elettorali, ma per riconoscersi in una memoria tenuta viva, e in un orizzonte valoriale condiviso, che dia nuovi strumenti alle diverse culture politiche democratiche e antifasciste per distinguere chi sta al gioco democratico e chi no, e cosa vuol dire, sul piano politico e storico, tenere fede allo spirito del 25 aprile.
Altrimenti, tutto scadrà nella liturgia: la lettura in piazza delle lettere dei partigiani condannati a morte, il roboante comunicato Anpi, bella ciao cantata da sparuti gruppetti. E qualcuno, forse, preferirà così: almeno, stiamo tra noi, noi che abbiamo ragione.
Politica, Linkiesta, 23 aprile 2025
di Luigi Daniele
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