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Graffiti, goliardate, satira e costume nella cultura popolare di un tempo.

Dicerie popolari marchigiane copertina V volumedi Raimondo Giustozzi

Graffiti

Oggi, chi vuole lasciare una protesta contro il potere usa i social. Fino a poco tempo fa, prima dell’avvento dei nuovi strumenti di comunicazione, si usavano carboncini e pennarelli. I luoghi, dove vergare il proprio messaggio, erano molteplici: sottopassaggi ferroviari e stradali, mura cittadine e latrine. Queste ultime erano le più ricercate anche perché il burlone di turno, espletati i propri bisogni, poteva lavorare indisturbato. Ogni paese aveva i propri bagni pubblici, alcuni ben curati, altri meno. Erano una necessità in occasione del mercato settimanale, quando affluivano in paese molte persone dal circondario. Nei giorni normali, dopo aver magari bevuto nelle cantine in compagnia di amici, si aveva comunque bisogno della latrina.

Porto Civitanova, nel 1937, aveva ben due latrine posizionate nella centrale piazza XX settembre. Il Fascismo e Mussolini, dopo la guerra di Etiopia e la proclamazione dell’Impero, raggiunsero l’apice del consenso popolare. Ora accadde che, in un giorno imprecisato di quell’anno il burlone di turno, preso il carboncino, lasciò scritto: “Qui la faccio e qui la lascio / tutta al Duce e niente al Fascio / se le tasse non riduce / tutta al Fascio e niente al Duce”. Il segretario del fascio locale, non appena fu informato dell’affronto inaudito, inviò una lettera di protesta al Podestà perché provvedesse all’immediata demolizione delle latrine con questa motivazione: “Oltre a rappresentare un raro e osceno ornamento, sono una palestra per qualche mascalzone che si diletta dileggi sovversivi” (Cfr. Claudio Principi, antifascismo laido a Porto Civitanova, in “Dicerie popolari marchigiane, tra ottocento e novecento”, pp. 52- 53, Vol. IV, Edizioni Simple, Macerata, 2011).

Anche Giussano (Mb) fu raggiunto dall’entusiasmo per l’impero, comune ad altri centri della Brianza. All’interno del bar Elli, all’angolo della centralissima piazza Roma, campeggiava alle pareti una grande carta dell’impero. Ogni giorno, gli avventori del locale sostavano davanti e spostavano le bandierine tricolori dopo ogni bollettino militare che annunciava di volta in volta l’occupazione di città etiopiche. “Faccetta nera, bella abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina”. Ma anche allora c’era chi non badava alla retorica del tempo. Saltava sul tavolo e spostava tutte le bandierine della carta geografica e le disponeva attorno a Roma, per dimostrare anche con quel semplice gesto che la sconfitta del Fascismo prima o poi sarebbe avvenuta. Era un modo come un altro, più urbano, per dimostrare la propria avversione alla guerra voluta da Mussolini.

Nel primo caso non si è riusciti mai a sapere chi mai avesse vergato quelle frasi. Nel secondo caso, l’occasionale interlocutore, che intervistai, non mi disse chi fosse il contestatore che spostava le bandierine e le collocava attorno a Roma, forse lo sapeva ma volle mantenere il segreto. Aurelio Ciarrocchi, invece, tipografo e poeta dialettale di Civitanova Alta, burlone come pochi altri, vergò su tre strisce di cartoncino, con caratteri bene stampati, questa epigrafe: “Non si pretende / che facciate centro / ma che almeno cacate dentro”. La scritta campeggiava alle pareti del proprio bagno di casa. Era avvenuto che sua moglie Carmela Torricelli, un’apprezzata sarta molto conosciuta in paese e nel circondario, avesse chiamato alcune ragazze per aiutarla nel lavoro. Queste, pressate dai bisogni corporali, facevano uso del cesso di casa che, “secondo l’uso generale del tempo era del tipo detto alla turca, cioè a pavimento e con un buco nel mezzo, nel quale, far confluire, dopo l’uso, l’acqua per il trasporto delle materie di spurgo verso il pozzo nero o la fogna” (Cfr. Claudio Principi, il cesso con avvertenza, in “Dicerie popolari marchigiane tra ottocento e novecento”,  pp. 125- 126, Vol. V, Edizioni Simple, Macerata, 2011).

Il comune di Corridonia, nel 1959, avverte la popolazione, attraverso dei manifesti, sull’apertura del bando di concorso per l’assegnazione degli alloggi nelle case popolari, alcune in costruzione, altre già ultimate. Su uno di questi manifesti, affisso in piazza del Popolo, il burlone di turno scrive in calce allo stesso: “Me serve una villa con piscina / e una pisciona come serva”. I concittadini, giunti davanti a quel manifesto, leggono soltanto questa scritta. Sorridono, poi si allontanano scuotendo il capo. C’è chi manifesta indulgenza e chi disapprova la richiesta canzonatoria (Cfr. Claudio Principi, Casa popolare ideale, pag. 244. Vol. V, Edizioni Simple, Macerata, 2011).

“In un paesino del Preappennino maceratese si tenevano, ogni primo e terzo martedì del mese, il mercatino e la fiera del bestiame. Per il mercatino, gli ambulanti (li spiazzì) distribuivano la propria mercanzia sul sagrato della chiesa parrocchiale e lungo la strada che conduceva alla piazza del Municipio. La fiera del bestiame si svolgeva su uno slargo situato alle spalle dello stesso edificio comunale. In un animato martedì del mese di maggio di un anno imprecisato, il segretario comunale, infastidito per i continui ragli dei molti somari presenti alla fiera, assieme ad altri animali in vendita, si affaccia alla finestra del proprio ufficio e grida: “Perdìo, faciàte stà’ zzitti, èsso de sotto, li somari, perché ardrimenti sfastidisce quilli qua sopre!”. Perdio, fate star zitti, costì di sotto, i somari, perché altrimenti infastidiscono quelli di sopra (Cfr. Claudio Principi, somarate paesane, in “Dicerie popolari marchigiane tra ottocento e novecento”, pag. 86, Vol. IV, Edizioni Simple, Macerata, 2011).

Goliardate

Un gruppo di ragazzi di Montolmo, in una giornata festiva di maggio, che sembra un preludio dell’estate ormai vicina, decide di fare il primo bagno dell’anno, e se ne va al Chienti, senza avvertire le famiglie che, sicuramente avrebbero proibito quella gita perché sui monti c’è ancora neve e l’acqua del fiume potrebbe essere ancora fredda. La meta è oltre lu mulì de Massetà, nei pressi de lu passu de San Chjòdu, il passo di San Claudio. Giunti a destinazione, al riparo della folta vegetazione si spogliano e mettono i propri abiti in un cantuccio.

Nèllo de Tàntala, un ragazzo un po’ mammòcciu, bamboccio, è il primo a buttarsi in acqua entro lu ràgghiu, il corso del fiume più vicino alla riva. Non si è svestito e porta addosso una maglietta di lana. I compagni glielo fanno osservare: “Picacchjò, e che ffai lu vagnu vistitu? Non vidi che ppòrti angòri la màja?”. Babbeo, e che fai il bagno vestito? Non vedi che porti ancora la maglia?”. Nèllo, tutto serio, risponde: “Mica so stùputo, io la màja non me la lèo, perché so sudatu!”. Mica sono stupido: io la maglia non me la levo perché sono sudato. Lo stesso Nèllo, in un’altra occasione, sempre nel corso di un altro bagno nello sesso fiume, con i soliti compagni, non rispondeva ai richiami degli stessi che lo invitavano ad entrare dove l’acqua era più alta. Lui ad un certo punto sbotta, dicendo: “Eh, cche so mmattu?!… Se mme ‘ffòco, dopo vabbu me ‘mmazza de bbòtte!”. Eh, che sono matto?!. Se affogo, dopo babbo mi ammazza di botte” (Cfr. Claudio Principi, Bagno al Chienti, pp. 133- 134, Dicerie popolari marchigiane tra ottocento e novecento, Vol. IV).

Classi sociali

Negli anni cinquanta del secolo scorso, nella Scuola Elementare di Montolmo, durante l’intervallo, tre ragazzi della quarta elementare, appartenenti a tre distinte classi sociali, parlano tra loro su come trascorrono in famiglia il tempo libero, dopo aver cenato. Il figlio de lu signòre, il ricco, racconta: “Dopo cena, a casa mia viè sèmbre un po’ de persòne: le donne parla de vistiti, l’òmini parla de pulitica e nojardri ragazzi jocamo a mmercante in fiera”. Dopo cena, a casa mia viene sempre un po’ di persone: le donne parlano di vestiti, gli uomini, di politica e noialtri ragazzi giochiamo al mercante in fiera. Il figlio di un impiegato invece dice: “A casa mia, invece, fatta la cena, sindimo la radio tutti insieme o juchimo a ddama. Mio patre leje li jiornali, e mamma stira le camisce”. A casa mia, invece, sentiamo la radio tutti insieme o giochiamo a dama. Mio padre legge i giornali, e mamma stira le camice. Il figlio del contadino dice la sua: “Nuà, dopo cena, ce mittimo venfattuccio a ssedé’ tunno la ‘rola e ddicimo le làvede. Dopo mamma fa li cazitti, nonna tizza lu fòcu e cche òta racconda le scantafavole, e vabbu ppennecatu gni tando scorrégghja, e tutti ce guastimo de rride!”. Noi, dopo cena, ci mettiamo per benino a sedere attorno all’aròla del focolare e recitiamo le litanie. Dopo, mamma fa la calza (sferruzza), nonna attizza il fuoco e qualche volta racconta le favole, e babbo, appisolato ogni tanto scorreggia, e noi ci scompisciamo dalle risate (Ibidem, pag. 313). Con il termine arola si indicava la spianata del camino, dove si accendeva il fuoco e si cuocevano le vivande. Era abbastanza grande, tanto che ci si poteva avvicinare comodamente per riscaldarsi nei freddi mesi invernali.

Nella cucina, dove era sistemato il camino, si trascorrevano le lunghe sere d’inverno. Le giornate erano corte. I grandi lavori agricoli erano terminati. La campagna riposava. Ucciso il maiale e fatta la macellazione (pista) della carne suina, si mettevano a cuocere sulla graticola o direttamente sulla brace le costarelle di maiale e le salsicce. Venivano mangiate a scottadito, scottandosi le dita nel portarle alla bocca. Ci si dava da fare allora nel prenderle dall’osso per non scottarsi. I bambini erano i più euforici perché ne mangiavano a sazietà. Salsicce, lonze e cotechini venivano appesi a lunghi bastoni issati al soffitto. Stavano lì per alcuni giorni perché si asciugassero. Una volta essiccati, venivano portati in soffitta assieme ai prosciutti. Lonze e prosciutti sarebbero tornati utili per il primo lavoro di stagione, quale era la vangatura della vigna, che avveniva nel mese di febbraio o nelle prime settimane di marzo, quando il freddo lasciava il posto ai primi giorni di bel tempo con giornate di sole. Chi ha vissuto tutti questi momenti, come chi scrive, ha vissuto senza saperlo una infanzia felice.

Lamentele ingiustificate

Un contadino sta falciando il prato di un vicinato e si lamenta per il duro lavoro. Il vecchio Grigrì gli fa osservare che non ha nessun motivo di lamentarsi: “Ma lèmmete de li cojòmbri!, come te ne ‘a de lagnatte!. La tua è ‘na fatiga che pare, ma ne fai ‘na mità: quanno fjéni e ddài la sfargiata da ‘sta parte, allòri fatighi, scì; ma quanno rvéni arrèto da quest’atra parte sinza sfargià’ e ssullo per pijà la sfionga e bbasta, allòri non fatighi ‘na nadonna. Dònga, se fjéni per jéci ore. Tu sì fatigato sulo cìngue ore. E mmìttece che ‘gni tando ‘ccòti la face fjenara, e tte spàssi a ffa’ le lute!”. Ma togliti dalle scatole! Come fai a lagnarti? La tua è una fatica  che sembra tanta, ma ne fai la metà: quando tagli e fai la falciata da questo lato, allora fatichi, sì; ma quando torni indietro da quest’altro lato senza tagliare e solo per prendere lo slancio, allora non fatichi affatto. Dunque, se falci per dieci ore, tu hai faticato solo cinque ore. E aggiungici che ogni tanto affili la falce fienaia con la cote, e ti spassi a fare le faville (Cfr. Claudio Principi, un lavoro agevole, in Dicerie popolari marchigiane tra ottocento e novecento, pag. 181, Vol. III). La falcia fienaia di tanto in tanto doveva essere affilata. Il contadino allora prendeva la cote, arnese formato da un pezzo di pietra abrasiva naturale, riposta in un corno di bue, allacciato alla cintola, e rifilava il filo della lama.

Satira

I contadini, una volta, per sfogare il loro sordo astio verso i padroni, amavano raccontarsi episodi satirici e volte veri altre volte verosimili. Un contadino di Sant’Angelo in Pontano, poco prima di Natale, si reca dal proprio padrone a Macerata per portargli una brutta notizia. Il padrone quando lo vede arrivare, proprio perché in occasione del Natale, era solito ricevere dal contadino le regalie, sfregandosi la mani, gli chiede: “M’hi portato le capù?”. Mi hai portato i capponi? – “No, patrò mmia: so vvinutu per portatte ‘na nòa non tando vòna”. No, padrone mio, sono venuto per portarti una notizia non tanto buona. “Ma li capù?” – volle informarsi il padrone. “Li capù, lo jorno sua, patrò: San Dommassu adè martidì che vvè”. I capponi, il loro giorno, padrone: San Tommaso è martedì prossimo”. “Spetterò, ma non te ‘mzardà a non portàmmili vélli, sa?!”. Il contadino non raccolse la provocazione e aggiunse: “Patrò, la nòa che tte pòrto non è bbòna, e no’ rreguarda li capù”. Padrone, la notizia che ti porto non è buona e non riguarda i capponi. “Parla. De che se tratta” – replicò il padrone. “Se tratta ch’adè  mmortu lu pòrcu tò” . Si tratta che è morto il tuo porco. “Come: è mmòrtu lu pòrcu mia?!”. Se li pòrchi che ‘lléi adè ddu, perché dev’èsse’ mmortu lu mia e non lu tua?”. Come: è morto il porco mio?! Se i porci che allevi sono due, perché deve essere morto il porco mio e non il tuo? – ribatté il parone alzando la voce e con il viso paonazzo.

Penzavo che era lu tua perché era più bbbéllu e mmino gnorande de quill’atru”. Pensavo che era il tuo perché era più bello e meno ignorante di quell’altro, rispose il contadino tranquillamente. “Lassimo perde’ ‘ssì cumbriméndi!” – urlò il padrone – “E invece de jìttene in cojonerie, reccòndame piuttosto comm’è mmòrtu, che a mme ‘nderessa de capì’ se ttu ci hai còrba”. Lasciamo perdere codesti complimenti! E invece di buttarla in fesserie, raccontami piuttosto com’è morto, perché a me interessa capire se tu ne hai colpa. A questo punto, il contadino mette in atto tutta una sua narrazione, accompagnando ciò che andava dicendo con ampi gesti delle mani e muovendosi anche con tutto il corpo, quasi stesse recitando.

Iniziò: “Mbè, patrò. Mittimo che io so lu fittulu, e tu sì lu pòrcu. Donga, tu si lu pòrcu e stai èsso, io so lu fittulu e staco ècco. Mmò, lu pòrcu ‘ngomènza a ggjirà attunno a lu fìttulu, e gghjira, ghjira, la corda se bbutura su lu còllu de lu pòrcu, e gghjira che te ghjira è gghjta a ffunì’ che lu pòrcu s’è strozzatu de – per- issu”. Mettiamo che il sia il cavicchio, e tu sia il porco. Dunque, tu sei il porco e stai costì, io sono il cavicchio e sto qui. Ora, il porco comincia a girare attorno al cavicchio, e gira, gira. La corda si attorciglia sul collo del porco, e gira che ti gira è andata a finire che il porco si è strozzato da solo.

Il padrone, che a stento aveva trattenuto tutta la propria indignazione mista ad ira, urlò: “E adèra lu pòrcu mia!”. Ed era il mio porco!. “Come te  sbaji? – fece il contadino – “Se non era lu tua, mica facìa quella fine èllo! Non ge sapìa sta’ a fittulu”. Come ti sbagli? Se non era il tuo, mica faceva quella fine lì! Non ci sapeva stare al cavicchio. A completezza del racconto c’è da precisare che i contadini, qualche volta, quando non c’erano i ragazzi che portavano al pascolo gli animali, legavano pecore ed agnelli ad un cavicchio, ad un palo piantato sul terreno. I capponi natalizi si portavano al padrone del terreno, lavorato a mezzadria dal contadino, nel giorno di San Tommaso, il 21 dicembre di ogni anno (Cfr. Claudio Principi, morte di un maiale, in Dicerie marchigiane tra ottocento e novecento, pp. 183 – 185, Vol. III).

Capponi natalizi

Due contadini parlottano tra loro scambiandosi qualche confidenza. L’uno dice all’altro: “Viatu a tte, scì furtunatu ché lu patrò ttua se chjama Oreste!”. Beato te, sei fortunato perché il tuo padrone si chiama Oreste. L’interlocutore dice di non aver capito, allora l’altro, sospirando, si spiega meglio: “Lu patrò mmia se chjama Tommasu, e a la festa de ‘stu Sandu io a lu patrò mmia je devo portà’ su ‘na mà li capù de la regalia e su quell’atra ‘natru paru per cumbrimèndu de la festa sua!”. “E ttu – ribatte l’altro – perché li cumbrimendi de lu nome no’ gne li fai a vvòce, e Ssandi venedétti!”. “Ma allòri ti scì scordatu che San Tommasu non crede se non tocca!” – osserva sconsolato il contadino (Cfr. Claudio Principi, Dicerie popolari marchigiane tra ottocento e novecento, pag. 86, Vol. III).

Raimondo Giustozzi

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