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Libri. Federico Rampini, Quando inizia la nostra storia Le grandi svolte del passato che hanno disegnato il mondo in cui viviamo

Quando inizia la nostra storia

di Raimondo Giustozzi

Il saggio di Federico Rampini Quando inizia la nostra storia è il settimo volume della collana di geopolitica, capire gli equilibri del mondo, edizione speciale per Il Corriere della Sera, pubblicata su licenza di Mondadori Libri. “Il titolo potrebbe essere rovesciato: Dove finisce la nostra storia. Il più autorevole giornale legato al partito comunista cinese, “Global Times”, ha una risposta. Noi occidentali siamo agli sgoccioli, secondo un’analisi pubblicata su questo organo di informazione nel marzo del 2022, quando infuria la guerra in Ucraina. Oggi stiamo assistendo a uno spostamento geopolitico globale. L’era geopolitica di 500 anni segnata dal dominio dell’Occidente si sta chiudendo con l’ascesa dell’Asia. Il periodo della dominazione asiatica sulla politica e l’economia mondiale durerà anch’esso 500 anni. Il periodo che si annuncia è inevitabile, non dipende da chi vince la guerra in Ucraina – che sia la Russia o le forze ucraine pro- Nato. Le leggi ferree della geopolitica prevedono la fine del mondo unipolare in cui tutto era deciso da un solo Paese. Il sistema mondiale sta cambiando e questa trasformazione è inarrestabile” (Federico Rampini, Prefazione, in Quando inizia la nostra storia, Milano, 2022).

Per capire meglio questo snodo epocale, occorre ricostruire le origini e i caratteri fondamentali del nostro periodo geopolitico, quello in cui la civiltà euro – americana ha dominato le vicende mondiali. Il viaggio a ritroso nel tempo consente di capire dove, quando, come e perché l’Occidente ha diretto le danze della storia, con esiti anche tragici, le due guerre mondiali, ma non soltanto – per mezzo millennio. La Cina, gigante economico del nuovo secolo, ha studiato e copiato le ragioni oggettive della nostra egemonia. Studiare e capire il nostro passato è tanto più importante farlo oggi dal momento che ci viene annunciato in modo irrevocabile il nostro declino. Negli ultimi quattordici anni, in quattro occasioni diverse è stato detto che la globalizzazione fosse finita.

Scorrendo le pagine di coda, possiamo dire che la prima occasione fu nel 2008 con la crisi finanziaria causata dallo schianto dei mutui subprime (finanziamenti erogati a clienti ad alto rischio di insolvenza) a Wall Street. La crisi ha provocato la più grave recessione finanziaria globale dal dopoguerra. La Brexit inglese e Donald Trump sono figli di quello shock. L’ideologia globalista comincia a perdere quota, chi predica i benefici delle frontiere aperte viene visto come un impostore al servizio dell’establishment (del potere costituito). Gli scambi internazionali, dopo decenni di boom, subiscono un marcato rallentamento. Solo la Cina non ha avuto una recessione. Si è salvata, manovrando le leve della spesa pubblica. Il suo capitalismo di stato ha superato in modo brillante la prova, al punto che proprio da qui nasce una dottrina sulla superiorità del sistema cinese. Xi Jinping comincia la propria ascesa. La globalizzazione si salva perché c’è un chiaro interesse di Pechino in questa direzione, d’intesa con l’establishment americano (Ibidem, pag. 8).

La seconda morte annunciata della globalizzazione avviene prima con la Brexit (2016), poi con Donald Trump (2020). L’Uscita del Regno Unito amputa l’Unione europea, il più vasto esperimento di mercato unico. Trump è un sovranista che predica il protezionismo e ben presto lo applica. I dazi americani sui prodotti cinesi e su qualche prodotto europeo e canadese cominciano a salire nel 2017- 2018. La maggior parte degli economisti prevede catastrofi per l’economia americana e per quella britannica. Non avviene nulla di tutto questo. Londra non s’inabissa nel Mare del Nord. L’economia degli USA, sotto la presidenza Trump, accelera la propria crescita e si avvicina al pieno impiego. Anche in questa seconda morte annunciata, la globalizzazione resiste e non avvengono sconvolgimenti economici.

La terza morte della globalizzazione viene preannunciata con la pandemia da Coronavirus. Il coro degli apocalittici è ancora una volta fragoroso e quasi unanime. Di nuovo le previsioni della maggioranza degli economisti falliscono. La recessione da pandemia si rivela breve, i suoi effetti sull’occupazione sono molto pesanti ma corti, perché vengono curati con iniezioni di spesa pubblica e liquidità monetaria senza precedenti. La pandemia mette in difficoltà la catena produttiva e logistica di molte merci. Anche l’ultima fase della pandemia, quella dei nostri giorni, blocca nei porti cinesi migliaia di container, il mercato internazionale viene strozzato. Comunque, alla fine del 2021 la Cina raggiunge il record storico assoluto nell’attivo commerciale. Anche in questo caso, la globalizzazione, seppure acciaccata continua a veleggiare. La produzione di tanti beni essenziali, dal biomedico ai semiconduttori, con tutti i sospetti sulla Cina, continua imperterrita.

La quarta e l’ultima profezia dell’Apocalisse è del marzo 2022, legata all’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina. Guerra novecentesca di Putin nel cuore dell’Europa. Sanzioni economiche pesantissime in molti settori. Russia espulsa dal sistema dei pagamenti Swift, sia pure con l’esclusione del gas. La Russia anche se ha una piccola economia, ha il suo ruolo sostanziale su alcuni mercati: energia fossile, cereali, metalli per usi industriali. Le sanzioni verso la Russia hanno dei contraccolpi anche in Occidente con pesanti perdite. Sarà la follia di Putin che ha iniziato una guerra scellerata nel nome di un revanchismo mai sopito: ricostruire l’ex Unione Sovietica, il vecchio impero zarista, sedersi al tavolo dei grandi del mondo dopo anni di umiliazioni, così sostiene il nuovo zar, a dare l’ultima spallata alla globalizzazione? La Cina ha tutto l’interesse che la globalizzazione continui. Sta approfittando delle difficoltà di Putin per comprare aziende russe, in particolare nei settori dell’energia (Ibidem, pp.9- 10) e a colonizzare vaste aree della Siberia.

Le sanzioni contro la Russia, per strangolare la sua economia, richiamano quelle comminate contro l’Iran alcuni anni fa. Il saggio di Rampini inizia proprio con il capitolo dedicato agli anni 1979- 2018: nascita (e tramonto?) degli islamismi moderni. L’inviato del Corriere visita l’Iran e l’Arabia Saudita nel 2017 e 2018. Il capitolo si chiude con l’Afghanistan, la guerra dimenticata e l’ombra dell’Armata rossa. Le sanzioni sconvolgevano la vita quotidiana. “In Iran le comunicazioni con l’estero erano ostacolate a tal punto che per un turista italiano fare un bonifico per pagare un hotel o un’agenzia di viaggi era quasi impossibile. Eppure il regime reggeva e regge. Inefficiente e corrotto, ma politicamente solido. I povero soni assistiti da qualche forma di assistenzialismo islamico, gestito dalla macchina di potere dei Pasdaran, i guardiani armati della teocrazia, a loro volta arricchiti con vari traffici legati al mercato nero. A monte di questa economia, assai malata ma non al punto da minacciare la stabilità del regime, c’è la ragnatela di transazioni segrete messa in piedi all’estero. Dopotutto anche i narcos, come l’Iran da anni e oggi la Russia sono fuorilegge. Anche la camorra e la ‘ndrangheta, la mafia russa hanno imparato a gestire attività economiche colossali, pur avendo le polizie di tutto il mondo alle calcagna” (Ibidem, pag. 11).

Putin pianifica da anni – molto prima dell’’invasione della Georgia (2008) – le sue aggressioni all’estero. Ha avuto tutto il tempo per organizzare una finanza ombra, parallela, clandestina per continuare a operare anche sotto l’assedio delle sanzioni occidentali. In questo scenario del tutto nuovo fino a qualche decennio fa, e a ritmo accelerato dopo l’invasione dell’Ucraina, la Cina continua ad assemblare i tasselli di un ordine mondiale alternativo a quello americano – centrico. Un passaggio cruciale è il negoziato con l’Arabia Saudita per convincere Riad ad accettare renminbi (Unità monetaria della repubblica Popolare Cinese) cinesi come pagamento del petrolio che fornisce a Pechino.

 

 

Indice del libro

Introduzione

  1. 1979- 2018: nascita (e tramonto?) degli islamismi moderni
  2. 1972: Nixon – Mao, Trump – Kim
  3. 1963- 1967: l’eredità terribile del lungo Sessantotto americano
  4. 1948: muore un impero, nasce Israele
  5. 1845- 1870: la grande Fame Irlandese, da Karl Marx a Donald Trump
  6. 1869: il canale di Suez, Jules Verne
  7. 1839- 1860: le guerre dell’oppio e la lunga rivincita cinese
  8. 1600: dalla Compagnia delle Indie a Lehman Brothers
  9. 1450 (Gutenberg), 1492 (Colombo), 1648 (Pace di Vestfalia): le tre date della modernità

Spigolature

Il peso del passato condiziona sempre il nostro presente. “Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla” (George Santayana). “Siamo seduti sulle spalle di giganti”(Isaac Newton). Ma a volte siamo seduti anche sulle spalle di mastodonti ignoranti, leader ciechi e sprovveduti, che si sono trascinati a gran velocità verso un disastro; oppure siamo succubi di iperpredatori che ci hanno lasciato delle eredità dilapidate” (F. Rampini, Introduzione, pag.17, ibidem). Nell’introduzione, il giornalista riassume per sommi capi i contenuti di ogni singolo capitolo indicato nell’indice sopra riportato. Il 1979 è un anno cruciale: la rivoluzione iraniana, la svolta reazionaria dell’Arabia Saudita, l’invasione sovietica dell’Afghanistan. E’ il primo capitolo del libro che non segue affatto un ordine cronologico, dal passato al presente. L’indagine, la curiosità nascono in presa diretta con eventi, geografia del territorio, incontri che hanno cambiato la nostra percezione del mondo. “Anche questo libro non nasce a tavolino. Le letture sul passato si fondono con i racconti dei miei viaggi: dalla profonda provincia americana che ha votato Trump al cuore islamico di Harlem, dall’Iran a Israele e la Palestina, dalla mia visita in Cina a quella nella Silicon Valley californiana. In ogni viaggio affrontato, a seguito di Barak Obama o di Donald Trump, porto sempre con me molti libri scritti da altri (più volumi cartacei che ebook), per confrontare ciò che leggo con ciò che vedo. Tenere gli occhi aperti non basta. Per scrutare dietro le apparenze, interpretare sotto la superficie, la storia è uno strumento speciale” (Introduzione, pp. 19- 23).

L’Iran è l’erede dell’antico impero persiano. “La Persia era già una civiltà grandiosa e raffinata prima di Alessandro Magno, quando gli arabi erano delle tribù di pastori, dei barbari primitivi. Poi venne l’Islam, all’origine una religione straniera importata con il proselitismo e le guerre di conquista dei primi maomettani” (Ibidem, pag. 40). Nel viaggio in Iran come inviato del Corriere della Sera, Rampini gira per i villeggi e le grandi città in compagnia della moglie e di una guida, Emram che lo introduce nella vita quotidiana della periferia e del centro di Teheran. Tutto è improntato a regole rigide imposte dagli ayatollah ma tutto può essere aggirato: “Divieti e tabù sono strumenti per imporre gerarchie di potere, perpetuare dei rapporti di forza. Lo hanno capito quelle giovani iraniane che usano l’arma dell’ironia. Quando un coetaneo fa osservare che il loro copricapo sta scivolando all’indietro sulla nuca con la tipica frase: Sorella, il tuo velo – la risposta scatta fulminea: Fratello, i tuoi occhi. Se ti do fastidio, insomma, guarda tu da un’altra parte” (Ibidem, pag. 45).

Emram era finito in galera perché, come racconta lui stesso al giornalista, era andato semplicemente con un gruppo di amici e di amiche coetanee a fare una gita in campagna. Arrestati in flagranza di oscenità e atti impuri, solo perché i ragazzi e le ragazze non erano coppie sposate. Eppure, la storia dell’Islam anche in Persia ha avuto lunghi capitoli di tolleranza, permissivismo, libertà di parola, pensiero e costumi. Il precoce Rinascimento persiano coincise con il nostro oscurantismo medievale. Noi mandavamo le streghe e gli eretici al rogo, loro cantavano i piaceri della vita. Nell’antico palazzo dello scià a Esfahan, edificio che risale al XVII secolo, al tempo della dinastia dei Safavidi, le pareti sono affrescate con scene della vita di corte, con donne dai seni scoperti, altre che bevono o ritratte in erotici amplessi. Le guide turistiche sono tenute a spiegare che quelle sono donne straniere, europee o cinesi” (Ibidem, pag. 45).

Teheran è un po’ la New York persiana, anomala e smisurata. Troppo traffico, e troppi grattacieli (anche qui comandano i palazzinari). La popolazione urbana oscilla fra i 10 e i 17 milioni di abitanti. Teheran, la ribelle, nei sontuosi alberghi non ha nulla da invidiare alle città americane. I giovani vestono, parlano, ascoltano musica, esattamente come se volessero ricreare la California in casa loro, non potendo andare in quella vera. Nei caffè letterari della capitale, affollati da giovani donne artiste, le teste si scoprono del tutto. Tutto cambia appena fuori dal centro città, nelle periferie dove tutto diventa diverso. Tutto ad un tratto riappaiono le donne in nero. Contraddizioni e differenze concentrate in poche distanze. A Teheran, il regime ha provveduto a costruire il proprio tempio: il Museo della Rivoluzione Islamica e della Difesa Sacra, dove tutto racconta le vittorie del regime. All’esterno, lungo i viali, tank, caccia militari, mezzi da sbarco, postazioni di mitragliatrici, batterie antiaeree sono visitati da bambini in compagnia dei propri genitori.

“Ancora più illuminante è la visita all’interno del museo, un’orgia di celebrazioni delle battaglie iraniane. Centrale è la ricostruzione degli otto anni della guerra con l’Iraq. C’è perfino un simulatore di bombardamenti, elaborato con professionalità hollywoodiana, che ti mette nei panni di popolazioni civili terrorizzate dai raid dei caccia nemici. C’è l’elenco puntiglioso dei paesi che appoggiarono l’aggressione di Saddam Hussein: praticamente il mondo intero, dall’America alla Russia, dalla Francia alla maggioranza dei governi arabi” (Ibidem, pag. 49).

Il capitolo quattro: 1948, muore un impero, nasce Israele, è il resoconto del viaggio fatto a Tel Aviv, Gerusalemme, Betlemme e Hebron. Gli spostamenti avvengono in macchina, con la preziosa guida palestinese Iaad che si muove con scioltezza e grande professionalità. I controlli delle forze dell’ordine israeliane a Tel Aviv sono leggeri, non come per la città di Hebron. Tel Aviv è la città più emblematica del volto che Israele vuole esibire per sedurre gli investimenti stranieri. Giovane, eccitata, mondana e modaiola. Piena di locali dove si mangia e si beve, si ride e si balla fino a tarda notte. Un po’ Miami e un po’ Barcellona, un po’ Brooklyn, e un po’ Rio. E’ anche una città laica, dove al sabato ci sono tanti negozi aperti e, in quanto a ristoranti, l’unico rischio dello Shabbat è il tutto esaurito, troppe prenotazioni. Il fascino di Gerusalemme è formidabile. Perfino Roma, città eterna per definizione, non compete alla pari: qui ci sono tre religioni che hanno messo radici profonde e inestricabili tra loro: Ebraismo, Cristianesimo, Islam. La città viene fatta risalire a otto secoli prima di Cristo, quando neppure Roma esisteva. Solo la Cina può vantare una storia così antica. Esiste una sindrome di Gerusalemme, patologica, per cui ogni anno qualche turista o pellegrino viene ricoverato in stato confusionale, convinto di essere un profeta o che l’Apocalisse sia imminente. Hebron è uno dei luoghi più sacri del mondo. I controlli sono continui. Ad ogni angolo ci sono posti di blocco. Il suo centro storico assomiglia alla città vecchia di Gerusalemme ma è ancora più raccolto, di una bellezza raffinata. Tutto a Hebron è all’insegna di una convivenza tesa, conflittuale tra palestinesi e i coloni israeliani. Raimondo Giustozzi

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