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Il Quartiere San Marone tra cambiamenti e memorie: Il lavatoio, la pista del Castellaro, le pescivendole, pizzerie, edicole, mercerie

Un angolo della memoria personale e collettiva: il lavatoio pubblico

 

C’era e c’è ancora a Civitanova Marche, nella città bassa, in via Civitanova, quasi all’angolo là dove inizia la pista ciclo pedonabile, il lavatoio pubblico. Visitarlo per credere. E’ ancora funzionante ed aperto il lunedì ed il giovedì. “Ci veniva mia mamma che ha ora ottantadue anni, e ci vengo anch’io che di anni ne ho sessanta”, racconta una signora incontrata per caso nella tarda mattinata di un giovedì di giugno di qualche anno fa. “Non avrei bisogno di venire qui a lavare i panni perché a casa ho la lavatrice come tutte le donne della mia età, ma venire qui è per me la continuazione di una storia. A volte devo raccontare delle bugie a mia mamma che vorrebbe venire anche lei, allora le dico che è venerdì, magari è invece giovedì per farla stare a casa”. Panni stesi ad asciugare all’esterno, carrettini per riportare a casa quelli lavati, all’interno, dodici vasche da un lato ed altrettante dall’altro. I rubinetti dell’acqua corrente sono aperti ed altre donne sono occupate nel loro lavoro.

 

Insaponare, sciacquare e risciacquare sono le operazioni di sempre. Ci vuole polso e forza nelle braccia; certo quello che si compie nel chiuso di una lavatrice è più semplice, ma rimane estraneo alla persona, basta dosare la quantità di detersivo e regolare i tempi per la centrifuga ed uno può fare tranquillamente tutt’altro. Non è stato così per migliaia d’anni. Neanche le figlie del re potevano esimersi da questo lavoro. Aggiogate le mule al carro, Nausicaa parte con le proprie compagne e si reca a lavare i panni della famiglia là dove scorre l’acqua corrente. C’è anche il tempo, terminato il lavoro e stese le lenzuola al sole, di fare una breve merenda e giocare a palla. Il momento viene anche sublimato da un incontro, quello con Ulisse.

 

Sì il lavatoio, le rogge, gli azzurri fiumi dall’acqua trasparente, le “peschiere” come si usavano chiamare un tempo i luoghi dove si andava a fare il bucato erano  luoghi di incontro e vivono nella memoria di chi ha una certa età. Accanto ad essi lievitavano anche i canti popolari e le produzioni poetiche mandate a memoria: “E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare / con tonfi spessi e lunghe cantilene”. “Amor dammi lo fazzolettino, amor dammi lo fazzolettino / vado alla fonte, lo vado a lavar. / Te lo lavo alla pietra di marmo, te lo lavo alla pietra di marmo / ogni sbattuta un bacino d’amor”. Ed ancora: “La bella la va al fosso, al fosso a resentà / e mentre che la resenta le borla giò l’anel / ravanei, regolass, barbabietul e spinass / tri palanc al mas. E’ un canto quest’ultimo lontano dalla nostra tradizione popolare e propria dell’Italia settentrionale, ma una sua traduzione è facile. “La bella va al fosso per lavare / e mentre lava le cade l’anello / ravanelli, remolacci, barbabietole e spinaci / tre palanche al massimo”.

 

Canti, poesie, ma anche aspetti di vita materiale: il sapone fatto in casa con il grasso del maiale, la soda, la trielina e la pece, il tutto fatto bollire a lungo. A casa poi, prima di andare al lavatoio si preparava la liscivia. Mescolando cenere ed acqua si ottiene carbonato di potassio, la liscivia il cui effetto principale era quello di togliere l’unto dalla biancheria e di addolcire l’acqua dura, cioè l’acqua calcarea così da rendere più efficace il trattamento con il sapone. Il procedimento richiedeva poi il cosiddetto “ceneraccio” una grossa tela posta sopra la biancheria nel recipiente di lisciviatura sul quale veniva prima steso uno strato di cenere passata al setaccio e versata poi sopra l’acqua bollente.

 

Il lavatoio pubblico di via Civitanova, un tempo era aperto tutti i giorni, con una custode che aveva una piccola capanna tutta per sé per ripararsi nei giorni di pioggia, poi proprio perché non protetto è stato preso di mira da tutti: vandali e zingari, per cui si è ritenuto opportuno recintarlo e regolarne l’uso. Ha un po’ di nostalgia, la signora incontrata perché per lei era più bello allora e quando si temeva che il lavatoio potesse venir chiuso definitivamente, l’aveva raggiunta un groppo alla gola, poi con l’interessamento del sindaco Marinelli e di altri della Giunta, il lavatoio comunale è stato riaperto; la stessa cosa è stata fatta con quello di Civitanova Alta, posto a ridosso delle mura da sole, dopo un progetto di restauro e di sistemazione di tutta l’area con grande soddisfazione di chi ha una certa età ma anche di tutti, perché la memoria del passato è di lievito per vivere meglio il nostro presente.

 

La pista ciclo – pedonale

 

Il tracciato della pista ciclo pedonale inizia all’altezza del vecchio lavatoio comunale e, superato un piccolo ponticello all’incrocio con via Abruzzo, costeggia il Castellaro, lasciandolo sulla propria destra, attraversa via Civitanova all’altezza del punto di ristoro “La Cinciallegra”, sale per quattro chilometri e cinquecento metri dal suo inizio e termina a “Fonte Giulia”, poco lontano dalla città di Annibal Caro. Ai lati della pista, inaugurata nei primi anni del nuovo millennio, si possono ammirare per tutto il suo percorso: il leccio, il pino pinea, l’olmo, l’acero, il platano, l’olivo, il cipresso, il ciliegio selvatico, l’acacia, il gelso, il pioppo bianco, l’acero, l’alloro, il prugnolo e cespi di piante nane. Piazzole di sosta, panchine e staccionate di legno rendono tutto ancora più bello.

La pista è parte integrante del Parco del Castellaro istituito con legge regionale il 15 marzo del 1978, dopo un lungo cammino iniziato qualche anno prima. Il Parco prende il nome dall’omonimo torrente Castellaro che nasce dalle falde della collina chiamata Monte Fogliano vicino a Civitanova Alta e sfocia in mare all’altezza del Club Vela. Ultimamente è stato aperto un allacciamento che collega il prolungamento della via Seneca con la pista ciclo pedonale. L’impresa appaltatrice dei lavori è la SMT di Silenzi Federico & C. snc di Torre San Patrizio (FM). E’ una piccola bretella che si snoda per la collina, per un breve tratto, fino a ricongiungersi con la pista ciclo pedonale che costeggia il Castellaro.

Iolanda, Linda, ‘Ngioletta e altre: le pescivendole di ieri

Prendevano la corriera di “Perogio”, linea Civitanova Marche – Montecosaro-  Morrovalle – Macerata. Scendevano di buon mattino, verso le 7,30 nella frazione di Santa Lucia di Morrovalle, giù dai predellini del pullman, con in testa la cassettina del pescato ed iniziavano a vendere il pesce nelle poche case addossate ai lati della strada. Col tempo si munirono anche di un carrettino a mano che veniva allocato presso qualche famiglia del posto e si spingevano per strade non ancora asfaltate, bianche, polverose d’estate e fangose d’inverno, verso altre contrade: “Fonti Giannino”, “Maragatta”, “Burella”. Erano le pescivendole Iolanda  e Linda, ambedue di Civitanova Marche.

 

Correvano gli anni cinquanta – sessanta. Un tempo lontano da noi anni luce. Eppure, chi vendeva il pesce si sobbarcava anche queste fatiche a dir poco disumane se viste con gli occhi di oggi. Tutti le conoscevano. Iolanda era poi quasi di casa a Santa Lucia, essendovi stata da sfollata negli anni di guerra, quando su Porto Civitanova cadevano le bombe, ospite della famiglia “Spernanzoni”. Conosceva poi molto bene anche la famiglia “Scarpetta” ed altre del circondario. Certo c’era anche un po’ di diffidenza per il loro insistere continuo e ripetitivo. Dovevano vendere il pesce in qualsiasi modo, d’altronde era il loro mestiere. Si aveva paura di essere fregati perché si dubitava che il pesce non fosse fresco o perché costava troppo. Era poi atavico il sospetto di chi abitava in campagna, nei confronti di chi veniva dalla città e per di più verso le pescivendole, chiamate “pesciarole”.

 

 

Iolanda e Linda erano comunque sempre ben accolte e, quando ripartivano, il carrettino era sempre pieno di uva, insalata, pomodori, olio, vino, uova e di ogni altra cosa che in campagna si trovava in abbondanza e veniva regalata. A loro volta portavano sempre con loro vestiti che davano alle famiglie bisognose. Chi raccoglieva il grano pagava con questo cereale; “lu curtinà”, chi non aveva la terra, pagava in denaro. Una note di costume, tra i tanti inscritti negli annali di storia. Una volta, una delle due venne colta in fragrante alla fermata della corriera, davanti alla chiesa di Santa Lucia, da chi doveva far rispettare le prime norme sul dazio. La malcapitata non aveva fatto pesare il pesce. All’ingiunzione del daziere, colta da un raptus, scaraventò in terra tutto il pescato calpestandolo ripetutamente e gridando verso il marito che non lo aveva pesato. Il marito era morto in mare.

 

C’era ancora a Civitanova Marche chi vendeva il pesce come una volta. Il carrettino di ‘Ngioletta girava fino a qualche anno fa per le strade della cittadina rivierasca: via Civitanova e via De Amicis. Era da trentadue anni che aveva la licenza per vendere il pesce. Arrancava per la salita di via Civitanova, ma non demordeva, peccato che non si sentiva più gli anni di quando era giovane, diceva lei. “Le pesciarole”! Rappresentavano una note di costume. Ricordo una visita fattami qualche anno fa da un mio amico di Milano. ‘Ngioletta aveva suonato al citofono, chiedendo a mia moglie se voleva il pesce. L’amico, affacciatosi alla finestra e vedendo il carrettino sotto casa, si meravigliava che da noi ancora esistevano queste persone che vendevano il pesce a domicilio, tanto da telefonare subito alla mamma per comunicarle la notizia. Era stupore misto a curiosità di conoscere usi e costumi che lassù sono scomparsi da circa un secolo.

 

Nel 2006 fu realizzato dalla provincia di Macerata un prezioso DVD, “Mejo de pesce che d’oio santo”, sul lavoro delle pescivendole a Civitanova Marche. Nostalgia mista a curiosità e voglia di conoscere hanno permesso alla regista Roberta Saccoccio di avvicinare tutte le pescivendole storiche del luogo: Marì  de Muragna, Iolanda. I luoghi sono quelli che insistono attorno alla Pescheria. Il borgo marinaro di Porto Civitanova viene recuperato lentamente, ma quando saranno finiti i lavori, con le strade, i marciapiedi, le case, verranno salvate, almeno questo si spera, le memorie del passato. Tutte le pescivendole storiche hanno vissuto le trasformazioni intervenute nel settore della vendita del pesce: carrettino chiuso, tanica dell’acqua, grembiule bianco e le cuffie in testa, le macchinette degli scontrini.

 

Certo, anche il lavoro delle pescivendole si è modernizzato. Non c’è più‘ Ngioletta a vendere il pesce, ma ragazze giovani che girano con il furgonato provvisto di freezer per la conservazione del pesce. Sono di un’altra generazione, ma la grinta è la stessa: lunghe soste  presso l’area del super mercato ad aspettare chi esce ed offrire il pescato e strilli per richiamare l’attenzione del possibile cliente: “Pesce! Pesce fresco”! E poi, tanta grazia un po’ mista a rudezza, ma questo fa parte del mestiere, nel catturare l’attenzione di chi si ferma, magnificando la diversità di pesce da offrire: seppie, triglie, pannocchie, sardoncelli, sgombri, sogliole, merluzzi, vongole, granchi e cucciolette.

 

Per  le vie del quartiere: le edicole votive dedicate alla Madonna

 

L’edicola votiva è una struttura architettonica di piccole dimensioni, con la funzione pratica di ospitare e proteggere l’elemento che vi è collocato: l’effigie della Madonna, da qui anche l’uso popolare di chiamarla  “Madonnetta”. Il termine deriva dal latino aedicula, diminutivo di aedes, “tempio”, dunque con il significato originario di “tempietto” in miniatura che ospitava la statua o la raffigurazione di una divinità. Già in età antica, l’uomo ha sentito il bisogno di crearsi un rapporto con una entità capace di proteggere i suoi passi, accompagnarlo nel cammino, preservarlo dalle insidie, aiutarlo nelle difficoltà, per questo ha cosparso di immagini sacre le sue dimore, i luoghi della sua quotidianità, le strade dei suoi tragitti abituali. Nell’antica Grecia erano le erme, chiamate così perché dedicate al dio Ermes protettore dei viandanti, collocate agli incroci delle strade.

Entrando nel cuore della piazzetta di San Marone, attraverso la galleria Migliorelli, per la presenza del bar omonimo, la prima edicola in cui ci si imbatte è dedicata alla Madonna, quasi seminascosta, posta all’interno di una nicchia a mo’ di protezione. L’edicola di via don Bosco, incastonata in alto, sullo spigolo della casa, sembra proprio la riproposizione di quanto avveniva nel mondo romano con il culto dei Lares protettori delle case ma anche degli incroci stradali, per cui edicole votive con la loro effigie venivano messe sui muri delle insulae (caseggiati popolari a più piani, da qui il termine isolato) e delle domus (abitazioni patrizie ad un solo piano).

 

In uno spicchio della grande rotonda di San Marone è stata collocata la statua di Maria Ausiliatrice, posta poco lontana dal luogo dove era prima. Completamente restaurata nel laboratorio di Ilaria Pellerito, è ritornata quale vigile sentinella di automobilisti e pedoni. Scrivono che, ai tempi  di Cluana, forse all’altezza dell’attuale rotonda di San Marone, all’incrocio fra la litoranea “Salaris Piceno” e la “Bisettrice di Valle” che conduceva al Vicus collinare, era situato un Campitum  (area delimitata come spartitraffico) su cui era posto un Crepido, basamento con colonne e tetto contenente un Sacello (tempietto)  dedicato ai Lares Campitales, divinità protettrici dei viaggiatori venerate negli incroci sia in campagna che in città. L’edificazione del Campitum è registrata in una lapide su cui è riportata la notizia della costruzione eseguita da Filonico, servo di Lucio Ottavio di Preneste, che fece dalle fondamenta quest’opera, il marciapiede intorno e l’ultimazione del tetto si debbono alla generosa elargizione di denaro di Suprema Pola, forse donna del posto, moglie di Lucio Ottavio che voleva lasciare così un tangibile ricordo ai suoi concittadini. La religiosità popolare di tempi lontani si incontra con quella dei giorni nostri (prof.ssa Anna Vecchiarelli).

 

Nel cortile della casa parrocchiale vi è un’altra statua dedicata alla Madonna, posta lì il 15 Giugno 2006 in occasione del sessantesimo anniversario di sacerdozio di don Erasmo. Un’altra statua dedicata alla Madonna è nel cortile dell’oratorio. Due altre edicole dedicate alla Madonna sono quelle che si trovano alle “casermette” o villaggio di Maria Ausiliatrice e quella di Via Verga.

 

Pizzeria Il Muretto

 

C’era una volta. Ora non c’è più. La Pizzeria “Il Muretto”! Mi ci sono fermato più volte per acquistare la pizza da asporto per la mia famiglia. Mi incuriosiva sempre la scritta posta all’ingresso del locale: “Pizzeria Il Muretto”, fatta a mattoncini. Pensavo che il nome fosse un omaggio al titolo di un telefilm di circa quindici anni fa: “I Ragazzi del Muretto”. Fantasia legata alla mia deformazione professionale, lavorando nella scuola ed a contatto con i giovani, di voler trovare in tutto ciò che incontro, anche in una scritta, un qualcosa che ha a che fare con loro. Il nome dato alla pizzeria è puramente causale. Me l’ha confermato Claudio Baleani  che manda avanti l’esercizio assieme alla sorella Romina.

 

L’ho incontrato nel tardo pomeriggio di lunedì 16 novembre di qualche anno fa, quando c’erano pochi clienti nel locale. Era stato lo stesso Claudio a fissarmi questo incontro in un giorno imprecisato della settimana precedente, invitandomi a non andare nei giorni durante i quali c’è folla. Venerdì e sabato sono i due giorni della settimana durante i quali il lavoro si triplica. Il lunedì, verso le 18,30 era l’orario ideale. Detto fatto. Esco da casa, parcheggio la macchina  davanti al locale ed entro. In dieci minuti di conversazione, filata via con gentilezza e garbo davvero invidiabili, raccolgo tutte le informazioni che mi servivano per costruire l’articolo.

 

L’idea di aprire la pizzeria gli è venuta assieme alla sorella Romina più grande di lui, con due bambini, con esperienze pregresse nel campo della restaurazione, una volta terminato l’Istituto Alberghiero di Loreto. La maturità da un lato e la giovinezza dall’altro, quando si coniugano assieme, costituiscono un binomio vincente. Partono nell’Ottobre del 2002, rilevando l’immobile di via D’Annunzio, al numero civico  84 , un tempo occupato da una lavanderia.

 

Via D’Annunzio è una grande via di traffico e la pizzeria che è sul fronte della strada è facilmente visibile da chi passa in macchina anche occasionalmente. Ci si fermano in molti. Chi è in cerca degli outlet della zona o rappresentanti di commercio la scelgono immediatamente come il loro punto di ristoro. Claudio e Romina sono conosciuti nel quartiere, essendo nati in via Leopardi. Le signore, che ritornano dal Cimitero e vanno verso casa, si fermano subito da loro, fino a diventarne quasi delle clienti fisse. La vicinanza dell’Oratorio Salesiano poi porta nella pizzeria gruppi di giovani del Savio Club o degli Scout. Non mancano poi anche i bambini della Scuola Elementare di via Tacito, che hanno le loro attività pomeridiane. Il locale, una sala con sedie e tavolini per fermarsi a gustare la pizza al taglio, innaffiata con Coca Cola o birra, è caldo ed accogliente.

 

Olive fritte e patatine accompagnano la pizza. Una ventina, le varietà di pizza offerte. Quella più gettonata è e rimane sempre la classica Margherita. La musica di sotto fondo trasmessa da Radio Subasio accompagna le piacevoli conversazioni degli avventori. Tanti ragazzi del quartiere, che studiano nelle diverse Università della zona: Macerata, Ancona, Camerino, Ascoli Piceno, Fermo e ritornano nei fine settimana, hanno scelto da tempo la pizzeria “Il Muretto” come il luogo dove incontrarsi, per raccontarsi i propri problemi o semplicemente per il piacere di stare insieme.

 

“Tibi/ non ante   verso lene merum cado/ iamdudum apud me est, eripe te more”. Già da tempo c’è per te, presso di me, del vino vecchio in una botte non ancora capovolta; togliti dall’indugio. E’ l’invito che l’autore latino Quinto Orazio Flacco rivolgeva ad un suo amico perché andasse a trovarlo per bere assieme un buon vino dell’annata. La convivialità tra amici è un valore culturale da difendere ed anche da promuovere. “Inter spem curamque, timores inter et iras / omnem crede diem tibi diluxisse supremum/ grata superveniet quae non sperabitur hora” (Q. Orazio Flacco). Traduzione: “Tra speranze ed affanni, angosce e delusioni, fa conto che quello che vivi sia l’ultimo giorno; gran gioia ti darà spuntando il domani inatteso”.

 

Claudio e Romina non bastavano a soddisfare tutta la clientela, sia quelli che prendevano la pizza da asporto, sia quelli che la consumavano nella saletta attigua. Ecco allora l’aiuto di Federica Pepa per tutta la settimana e quello di Giovanna, al sabato ed alla domenica. Claudio, Romina, Federica e Giovanna, un quartetto davvero invidiabile. Erano loro l’anima della Pizzeria “Il Muretto” di via D’Annunzio. Ho coniugato i verbi al passato (imperfetto) perché negli anni della pandemia da Coronavirus, la pizzeria Il Muretto ha chiuso i battenti. Oggi negli stelli locali è stata aperta un’altra pizzeria.

 

La merceria “Fioravanti”

Era da qualche tempo che desideravo raccogliere notizie attorno alla merceria “Fioravanti”, esercizio storico del quartiere San Marone. Ne parlavo spesso, quando ero ancora a scuola, con Luigi Gnocchini, docente alla Scuola Media “Pirandello”. Finalmente, Giovedì 4 settembre 2014, i primi contatti, nel negozio, con Daniela Gnocchini, la sorella di Luigi. Non c’era la mamma, la signora Almide. Ho chiesto se potevo incontrarla Venerdì 4 settembre, il giorno dopo. Il giorno convenuto, puntuale come un orologio, alle 9,30 entro nel negozio. Ad aspettarmi c’erano la signora Almide e Daniela, sua nuora, la moglie di Luigi. Ho raccolto subito le prime due informazioni. Nel negozio operano due signore che hanno lo stesso nome: Daniela Morresi e Daniela Gnocchini, la prima, sorella, la seconda, moglie di Luigi. Avvengono anche delle cose buffe, quando al telefono, qualcuno chiede di Daniela. Subito si precisa con quale Daniela si vuole parlare. Lavorano fianco a fianco, in un clima di stima reciproca, pur nella diversità di vedute, che è sempre un valore aggiunto.

Ma è la signora Almide ad aprire la conversazione, mentre nel negozio entrano ed escono alcuni clienti. Sono un po’ imbarazzato. Mi rendo conto di essere d’intralcio. Poi, quando siamo solo noi, inizia la chiacchierata con Daniela e sua suocera. Tra le due non percepisco questo tipo di rapporto. Sembrano mamma e figlia, tanto sono unite e cordiali con me e tra di loro. L’esercizio commerciale mercerie e intimo opera nel quartiere fin dal 1956, come si evince da un documento del tempo. E’ il primo o uno dei primi del quartiere. Ad aprirlo sono stati Luigi e Adolfa, i genitori di Almide. Il negozio era situato nell’area dove ora sorge la farmacia comunale. L’angolo era molto diverso da come è oggi. Nel luogo c’era la villa Ribichini, passata poi a Quattrini e, allineati, al piano terra dello stabile, c’erano molti altri negozi oggi chiusi: una pizzeria, un negozio di biciclette e diversi piccoli esercizi commerciali. Il negozio, da Luigi e Adolfa, passa nelle mani di Almide.

Le due Daniele rappresentano la terza generazione della merceria. Il segreto del successo di un negozio in un arco di tempo così lungo è da ricercare nei rapporti di stima e fiducia reciproca con i clienti. A Civitanova Marche e nei dintorni tutti conoscono la merceria “Fioravanti”, situata in via Dante, fino al 2011 al numero civico 57, da questa data ad oggi, al numero 97 della stessa via. La filosofia praticata è quella di offrire un prodotto di qualità a prezzi contenuti. Si sa che la merceria è un tipo di esercizio nel quale si investe molto denaro e ci vuole del tempo prima di rientrare in possesso di ciò che si è investito. Si ha sempre a che fare con piccoli articoli.

Una volta, fino a qualche anno fa, il cliente non stava a lesinare sui metri di filo che chiedeva. Se gliene occorrevano solo cinquanta centimetri, ne acquistava anche un metro. Oggi si acquista solo l’indispensabile e a volte anche meno. Soldi non girano più e si risparmia su tutto, anche su queste piccole cose. “Mala tempora currunt” possiamo dire con i latini. Stanno avanzando tempi difficili. Il settore nel quale la merceria “Fioravanti” si è specializzata è in quello delle chiusure lampo. Va ancora la vendita di bottoni, bulloni e occhielli. Un tempo passavano dal negozio anche molte sarte della zona e dei dintorni perché vi trovavano tutto per il loro lavoro: filo, bottoni a pressione, occhielli, rivetti, aghi, spalline, merletti, nastrini, “friselline”, fibbie, cinte, elastico di tutti i tipi. Oggi, il mestiere della sarta è quasi scomparso ed è un tipo di cliente in meno che non frequenta più la merceria. Sono sempre meno poi i clienti che si rivolgono alla merceria per adattare un capo d’abbigliamento. Si preferisce acquistarne uno nuovo e buttare via il vecchio.

Il piccolo commercio vive momenti di difficoltà. Si va avanti perché si è innamorati del proprio lavoro, mi precisa Daniela, la moglie di Luigi, perché in trent’anni che è al negozio, ha curato sempre il contatto con la gente e se il presente è difficile ed il futuro ancora più fosco, non bisogna mai perdere la speranza che qualcosa possa cambiare, poi c’è da mantenere alto il nome di una merceria storica. La merceria “Fioravanti” è stata sempre sul fronte di una strada molto frequentata, la via Dante. Oggi, con la rotatoria, il traffico è più scorrevole, quando invece c’era ancora il semaforo, la strada era intasata di macchine e nel vecchio negozio, poco lontano dall’incrocio, d’estate, quando si era costretti a tenere aperto l’ingresso per il caldo, l’aria era quasi irrespirabile. La nuova ubicazione del negozio, vicino ad un altro storico esercizio del quartiere, il panificio – pasticceria “Gazzani”, è in una ottima posizione ed anche questo fa bene sperare per il futuro.

 

 

Raimondo Giustozzi

Carrettino con il pescato

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