“SACMAC”, Società Anonima Costruzioni Meccaniche Adriano Cecchetti, “SGI”, Società Gestioni Industriali, sigle diverse per chiamare con nomi differenti la stessa realtà produttiva che ha operato a Civitanova Marche per quasi tutto il ‘900, la “Cecchetti” come più comunemente veniva chiamata da quanti vi lavoravano e dall’intera collettività. Ha rappresentato per Civitanova Marche e per i paesi limitrofi: Sant’Elpidio, Morrovalle, Potenza Picena, Montecosaro, Monte San Giusto, Montelupone, l’unica industria degna di questo nome per centinaia di famiglie. Essere “Cecchettari” voleva dire lavoro sicuro, sposare un “Cecchettaro” rappresentava un buon partito per le donne in età da marito. Il distretto calzaturiero era ancora di là da venire. La vita di molte famiglie veniva regolata dal suono prolungato della sirena che chiamava gli operai ai turni di lavoro. La cittadina adriatica era una vera e propria città fabbrica (Company Town).
Pasquale Foresi vi ha lavorato per ben quarantadue anni e quattro mesi, la pensione arrivava nel 1983, quando la fabbrica stava mostrando chiari segni di crisi. Il primo lavoro è nel reparto dove si produceva materiale bellico; passata la bufera della guerra, nella manutenzione. Si trattava di recuperare le macchine sepolte sotto i bombardamenti, di aggiustare i camion della Truck Poll, che si era venuta formando con l’arrivo degli anglo americani. Molti capannoni della fabbrica vennero requisiti dagli eserciti alleati che ne fecero un loro deposito di materiali d’ogni genere. Partiti gli alleati che risalivano la penisola tallonando i tedeschi in fuga, la vita nella fabbrica riprendeva la sua normalità.
Era stato rimesso in sesto il reparto meccanica che comprendeva il settore dell’aggiustaggio, della carpenteria e della torneria. Il lavoro al tornio non lo lascerà più fino al 1983. Una frase non può dimenticarla, anche se è passato tanto tempo, quella pronunciata dal caporeparto Campolungo che lo tenne a battesimo all’inizio del nuovo lavoro: “100 misure, un taglio solo”. “Non sapevo nulla di tornio né di altro”, ricordava Pasquale Foresi nel corso di una intervista. “L’esperienza me la facevo giorno per giorno”. Era vietato sbagliare. Tutto era regolato dal tempo; più pezzi si producevano, più si guadagnava. “Ogive”, “chiocciole” per i tenditori dei vagoni, “ganci” di trazione, “respingenti” dei treni, “alberi” per le locomotive, “centri ruota”, assali delle ruote dei vagoni ferroviari, elevatori per le stive delle navi, portelloni, timoniere, tutto usciva dal tornio “Morando” una macchina perfetta.
Il turno di dodici ore. Il lavoro? A cottimo. “Un lento e diabolico” suicidio l’avrebbe chiamato don Milani che aveva presenti altri contesti geografici, quelli attorno a Prato, dove la vita della gente era regolata dai rumori dei telai per l’industria tessile. Ma le cose stavano così, sotto qualsiasi cielo ed a latitudini diverse. Era il prezzo da pagare per l’industrializzazione che a Civitanova muoveva i suoi primi passi dopo la distruzione bellica. Molti erano gli scioperi per richiedere più salari, più occupazione e meno licenziamenti, quelli furiosi durante il governo Tambroni, ministro dell’interno l’onorevole Scelba. In tanti persero il posto di lavoro, molti emigrarono, altri si misero in proprio, dopo aver messo a profitto ciò che avevano imparato a fare nella fabbrica.
Tanti lavoravano nella “Cecchetti”, secondo certe stime anche fino a duemila operai, gli anni d’oro della fabbrica. Morto Adriano Cecchetti, il fondatore, la fabbrica passava, prima nelle mani del fratello Riccardo, poi in quelle di Viberti, di Puccini, fino a Gallinari, l’ultimo in ordine di tempo. Ma di questo hanno scritto in molti. Dei nove operai morti sul lavoro invece è stato detto ben poco. E’ doveroso invece ricordarli uno ad uno questi caduti sul lavoro: Rocco Luciano (1929), Biagiola Pasquale (1933), Corvaro Mariano (1935), Forconesi Angelo (1939), Mercanti Fiorello (1942), Cognigni Alfredo (1948), Gasparroni Guido (1950), Bizzarri Alberto (1964), Bruni Marone (1986).
Negli anni Settanta – Ottanta si registravano intanto anche presso la fabbrica “Cecchetti” di Civitanova Marche processi di trasformazione irreversibili. La rivoluzione tecnologica trasformava il sistema di produzione. La manodopera in esubero veniva espulsa e sostituita dalle macchine. La produzione si delocalizzava. Là dove sorgevano fabbriche, quartieri operai, piazze, luoghi per la nascita dell’identità personale e collettiva, dilagavano le cinture di ruggine. Le industrie con largo impiego di manodopera erano indotte a emigrare dai paesi dove i salari erano più alti a quelli con salari più bassi, cioè dai paesi ricchi che rappresentavano il nucleo del capitalismo ai paesi in via di sviluppo.
Sul finire degli anni ’90, con la chiusura definitiva della fabbrica (30 Giugno 1994), tutta l’area su cui insisteva la “Cecchetti”, dodici ettari circa, subiva una profonda trasformazione d’uso. Là dove un tempo sorgevano capannoni industriali, veri templi di un’archeologia industriale locale, è sorto un centro residenziale e commerciale del tutto nuovo, opera della “Società Civitanova Duemila”, nel cuore della parrocchia salesiana di San Marone.
Tempo che va e tempo che viene.
C’era una volta la “Cecchetti” e con la fabbrica “i Cecchettari”, gli operai che lavoravano nella più grande industria metalmeccanica della provincia di Macerata. Quel tempo è irrimediabilmente passato. Della fabbrica esistono solo piccoli segni nel territorio. In una vasta area dove un tempo c’erano i capannoni è stato inaugurato, qualche anno fa, fa il parco “Cecchetti”. La stele ricordo dei caduti sul lavoro ed il busto dedicato ad Adriano Cecchetti, fondatore e dell’omonima industria, sono stati trasferiti dai giardini pubblici di piazza XX Settembre e collocati nel nuovo parco della “Rimembranza”, un’oasi di verde, con aiuole e pista ciclabile. Sono tre ettari di terreno, un tempo occupato dai diversi corpi della fabbrica. I valori, conseguiti nel passato ed affidati alla tradizione, sono il lievito della realtà presente e senza la memoria di ciò che è stato non c’è nemmeno il futuro.
Il tornio per sale montate, vero monumento di archeologia industriale della fabbrica, risalente al 1862, ha aspettato, per circa dieci anni, dopo la demolizione della fabbrica “Cecchetti”, triste e sconsolato, che qualcuno si fosse occupato di lui. Racconta cento cinquanta anni di storia. E’ arrivato a Civitanova Marche, allora Porto Civitanova, forse nella prima metà del 1900, acquistato di seconda mano, uscito dalla città alsaziana di Graffenstaden, come si evince dall’epigrafe scritta su di un lato del manufatto. In via Parini ed Alfieri svettano ancora sul fronte della strada le case operaie. L’asilo Cecchetti è stato trasformato nella Casa di Carità don Lino Ramini, sede della caritas diocesana.
Civitanova Marche, che per tutto il ‘900 si è identificata con la fabbrica “Cecchetti”, quasi una Company Town, simile a molte città del Nord, tra tutte Sesto San Giovanni, la “Stalingrado” italiana per la sua forte concentrazione di fabbriche: Breda, Falk, Pirelli, Magneti Marelli, industrie metal- meccaniche, siderurgiche, della gomma ed elettriche e del movimento operaio, ha cambiato volto. Il terziario più avanzato ha sostituito la produzione industriale, qui come a Sesto San Giovanni. La città lombarda agli inizi degli anni ’80 era ancora la città fabbrica quale si era andata via via sviluppando dalla fine del 1800 in poi. Alla metà degli anni ’90 era irriconoscibile. Non era rimasto quasi nulla di ciò che pur c’era quindici anni prima. E’ comune poi a tutte quelle città che sono sedi di distretti, come Civitanova Marche lo è per la calzatura, subire accelerazioni e mutamenti che in altre zone richiedono più tempo.
“Lo sviluppo delle dinamiche distrettuali ha tra le sue caratteristiche di fondo quella di tendere ad una continua trasformazione del tessuto imprenditoriale su cui si fonda. Crisi dopo crisi, i distretti, se sono vitali, tendono a rinnovarsi, adattandosi ai nuovi contesti di mercato, con un alto turn over di aziende e attività produttive. Ciò porta con sé la tendenza a cancellare continuamente e abbastanza sistematicamente il passato, le sue testimonianze e le sue stesse tracce fisiche nel contesto urbano. Con i suoi intensi processi di trasformazione, insomma, il distretto per certi aspetti tende a divorare la sua storia, accrescendo i rischi di vuoti nella memoria collettiva”(Cfr. F. Chiapparino, La “Cecchetti” e Civitanova. Un itinerario imprenditoriale, pag. 25, in “Civitanova Immagini e Storie Vol. 13, Recanati settembre 2009).
Tanti temono la perdita della produzione industriale delocalizzata in altre aree geografiche, sostituita da attività di marketing, finanziarie, bancarie, da agenzie che promuovono il turismo ed un uso diverso del tempo libero. Saranno queste ultime a costituire una nuova identità e saranno fonte di guadagno per mettere su famiglia e sentirsi realizzati nella vita? In molti ci sperano, altri dubitano fortemente.
Il nuovo quartiere residenziale e commerciale Civitanova Duemila
E’ il nuovo quartiere sorto nell’area dove un tempo era la “Cecchetti”. Dodici ettari di terreno, tre ettari occupati dal Parco “Cecchetti”, 170 appartamenti già consegnati una decina d’anni fa ai proprietari, chiavi in mano, circa 70 i negozi che si dispongono al piano terra degli edifici, con una pasticceria, un bar, studi professionali, svariate agenzie, un asilo nido comunale, banche ed un grande supermercato Coal nell’angolo, dove un tempo era l’hangar della fabbrica, con il maglio gigantesco che era possibile osservare anche dalla statale Adriatica. Negli ultimi tre anni la costruzione di altre due palazzine, di cui una completata, l’altra in via di ultimazione ha saturato quasi tutta l’area. Rimangono solo due piccole porzioni di terreno ancora libere da cemento, una contigua all’edificio sede dell’INPS e l’altra dove è collocato, dentro ad una teca di vetro resina, il tornio per sale montate. Proprio in questo angolo dovrebbe sorgere il museo archeologico cittadino. Qualche operatore del nuovo quartiere lamenta la mancanza di parcheggi, quello esistente in piazza San Francesco di Sales è insufficiente.
Il progetto di costruzione degli edifici in stile coloniale è stato affidato alla società di progettazione Gregotti Associati che ha sede a Milano. La sua fondazione risale al 1974, quando insieme a Vittorio Gregotti, figura che si era imposta sin dagli anni Cinquanta nel panorama architettonico e della cultura progettuale, entrarono a far parte nel nuovo studio di Milano in qualità di soci, architetti più giovani: Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, il giapponese Hiromichi Matsui e l’argentino Bruno Viganò.
I primi anni Settanta vedono il gruppo impegnato nella costruzione del quartiere ZEN di Palermo, dei nuovi Dipartimenti di Scienze della locale Università, del Piano integrato per lo sviluppo dell’Adda e della nuova sede per l’Università della Calabria a Cosenza. Nel gruppo entra intanto a far parte Augusto Cagnardi con la società di pianificazione territoriale Laris. Si sviluppa in tal modo tutto un metodo progettuale che cerca il confronto ed il dialogo con l’identità del sito, rielabora le specifiche tradizioni di edificazione e di insediamento come elementi contestuali. La scelta di elaborare una “architettura come modificazione”, secondo le parole usate dallo stesso Gregotti sulle colonne della rivista “Casabella” di cui è stato per molti anni direttore, porta la società a vincere concorsi nazionali ed internazionali e di aggiudicarsi lavori per interventi anche in luoghi di alto valore paesaggistico, urbano e storico.
L’attenzione alla scala contestuale urbana e paesaggistica si rafforza ancor di più con l’ingresso nel gruppo del terzo socio: Michele Reginaldi. Tra i molti esempi che attestano questa metodologia del “progetto integrale” che si amplia dalle singole architetture sino ai contesti storico – urbani e territoriale, vanno ricordati i progetti urbani per Arezzo, Asiago, Sesto San Giovanni, Torino, Livorno, Pavia, Gorizia e Avellino, ma anche i progetti per il recupero delle aree industriali di Cesena, Lecco, Civitanova Marche e soprattutto di Milano Bicocca.
Il nuovo quartiere di Civitanova Marche è quasi ultimato. Manca una strada che possa collegarlo al centro cittadino. Il ritrovamento di mura d’epoca romana, a ridosso della ferrovia, ha bloccato i lavori del sottopasso che nel progetto dovrebbe consentire il collegamento del nuovo complesso residenziale e commerciale con la via Trento. Ritardi burocratici da un lato e divieti opposti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici hanno bloccato i lavori. Forse ci saranno altre difficoltà che non si conoscono. L’attuale via San Luigi Versiglia, posta là dove era l’antico tronco ferroviario per il carrello trasbordatore, taglia in orizzontale il nuovo centro ma non ha uscita.
Nel tornio per sale montate della ex fabbrica “Cecchetti” cento cinquanta anni di storia
Sono un povero, vecchio tornio. Per anni sono rimasto abbandonato in un capannone della fabbrica “Cecchetti”, quando, chiusa la produzione industriale, tutta l’area venne destinata ad altro uso. Ho vissuto tante primavere, alcune belle, altre meno. Sono in pensione da diversi anni. Negli ultimi tempi, con mia grande soddisfazione, sono ritornato ad avere quasi l’aspetto originario, dopo anni di incuria. Vengo da molto lontano. Sono uscito infatti, nel lontano 1862, da una fabbrica di macchine utensili di Graffenstaden, un ridente paesino ad appena otto chilometri da Strasburgo, in Francia.
La fabbrica di macchine utensili è una delle più antiche specializzazioni della Società Alsaziana. Questo settore, creato nel 1842, presso la fabbrica di Graffenstaden, consentiva di nutrire le migliori speranze verso un rapido decollo, quando nel 1872, la stessa officina si fonde con gli stabilimenti di Andreas Koechlin e Cic di Mulhouse, per formare la Società Alsaziana di costruzioni Meccaniche. La primitiva fabbrica segue allora il rapido ed impetuoso sviluppo della nuova società, della quale diventa, con la costruzione di macchine utensili, il punto di forza più importante.
I miei compagni erano: torni per profilare i cerchioni delle ruote montate, alesatrici, fresatrici, presse; dalla catena di montaggio della fabbrica uscivano solo macchine destinate alla lavorazione dei metalli. Erano gli anni della costruzione delle prime strade ferrate. La sola macchina tutta in legno, che uscì dai capannoni di Graffenstaden, serviva per tagliare e forare le traversine delle ferrovie; col tempo incominciarono ad uscire anche le prime locomotive per vagoni merci, venti delle quali destinate ai “Chemin de fer du Nord”.
Anticamente, nell’area occupata dalla fabbrica, sorgeva fin dal 1455 un mulino situato lungo il fiume Spittelhoff. Il primo proprietario è stato il nobile Claus Zorn Rust, l’ultimo G. Boswillwad che vende nel 1825, per la somma di 58.000 franchi, tutta la proprietà ad una società meglio conosciuta col nome di “Fabbrica d’acciaio di Bas- Rhin”. Tralascio di parlare di tutti gli altri proprietari. Nel 1846, lo stabilimento prende il nome di Fabbrica di Graffenstaden. La crisi economica e politica del 1847/48 fa temere per la chiusura dell’intero complesso, pericolo scongiurato grazie all’intervento del suo principale azionista, il barone Alfred Renouard de Bussiere, che, dopo qualche esitazione, accetta finalmente di intervenire economicamente, pagando tutti i debiti dell’azienda.
Sotto la sua garanzia personale viene stipulato un patto e la società rinasce; in poco tempo si espande in ogni angolo del mondo. Pese, bielle, sale montate, macchine utensili, locomotive continuano ad uscire dalla fabbrica. Nel 1855, Charles Brauer, direttore generale, viene affiancato da Zimmer, direttore commerciale della ditta; durante la guerra franco prussiana del 1870 è grazie al tatto, alla lungimiranza ed alla calma del suo capo che la fabbrica di Graffenstaden può prosperare anche quando viene occupata dalle truppe tedesche.
L’isolamento di Graffenstaden intanto era stato superato nel 1868 attraverso la costruzione di un raccordo ferroviario con la linea Strasburgo – Molsheim- Barr. La cittadina intanto aveva assunto il nome di Illkirch – Graffenstaden. Forse il viaggio per lidi lontani l’avrò fatto su questa linea ferrata, issato su un carro merci con destinazione l’Italia. Non ricordo quale fosse stata la prima fabbrica che mi acquistò. So solo che successivamente, tra le due guerre mondiali, arrivai da questa prima fabbrica italiana, presso i capannoni della Fabbrica Costruzioni Meccaniche Adriano Cecchetti, vero capitano dell’industria locale. Un bel giorno vidi arrivare anche un altro fratello tornio “Morabito”, più nuovo e moderno. Non rimase per troppo tempo Faceva lo stesso mio lavoro, per cui la direzione lo alienò, vendendolo. In un oltre un secolo di storia, attorno a me si sono avvicendati migliaia di operai che hanno ancora tanto da insegnare ai giovani.
Ricordo ancora la visita fattami nell’autunno del 1997 da una comitiva di appassionati di archeologia industriale e della fabbrica Cecchetti che aveva chiuso anche essa i battenti alcuni anni prima. Si stavano preparando ad un Convegno sul suo fondatore: “Qui vive Adriano Cecchetti: Per la vita ed il benessere degli operai”. Tra di loro c’era un signore gentile ed educato; appena mi vide addossato ad una parete del capannone ormai in disuso, quasi nascondendosi il volto, piangeva a singhiozzi. Rivedeva suo papà chino su di me a tornire i cerchioni delle ruote del treni. Anch’io rivivevo la stessa scena di tanti anni prima: il bambino con il pentolino della cena preparato dalla mamma con amorevole cura, il rumore assordante delle mie parti meccaniche, il sudore, la fatica dell’operaio ed il saluto del ragazzo: “Ciao, papà, a domani”.
Negli anni più bui della seconda guerra mondiale, per un po’ ho temuto davvero che per me non ci fosse più futuro. Una bomba d’aereo aveva centrato in pieno il capannone della fabbrica. A guerra conclusa, pur in mezzo a difficoltà d’ogni genere, la fabbrica risorse e le maestranze riuscirono a rimettermi in funzione. Applicarono alla mia base un nuovo motore elettrico e ricominciai a svolgere dignitosamente il compito per il quale ero stato concepito: la tornitura delle ruote dei veicoli ferroviari. Nel marzo del 1990, ormai in pensione, il presidente della SGI (Società, Gestioni Industriali), Alberto Gallinari, su interessamento del dott. Giuseppe Manni, già dirigente della fabbrica, mi donò al Comune di Civitanova Marche, che accettò di buon grado l’atto di donazione.
La fabbrica chiudeva definitivamente i battenti il 30 giugno del 1994. Nel febbraio del 1995, il Comune, in una lettera indirizzata al presidente del Rotary Club ed al dott. Giuseppe Manni, ventilava l’ipotesi di acquistare un capannone della fabbrica dove collocarmi assieme ad altri manufatti propri dell’archeologia industriale cittadina. Nel dicembre del ’97, nell’ambito di un convegno dedicato ad Adriano Cecchetti, fondatore della SACMAC (Società Anonima Costruzioni Meccaniche Adriano Cecchetti), l’ing. Ferdinando Cabassi, altro grande ed indimenticabile dirigente dell’azienda, parlò a lungo di me, nel corso di una dotta relazione volta a ricostruire il mio onorato servizio.
Nel novembre del ’99 si parlò di me nell’ambito di un convegno promosso dal Rotary Club, a Terni, città industriale dell’Umbria. Nel febbraio del 2000 è venuto a farmi visita un gruppo di alunni delle scuole medie cittadine, accompagnati da alcuni insegnanti. L’area su cui insisteva la fabbrica intanto veniva venduta alla società “Civitanova Duemila” che provvedeva a costruirvi case per abitazioni, uffici e super mercati. Per anni sono stato sballottato di qua e di là, temendo sempre per la mia incolumità, esposto alle intemperie ed a tutti i lavori del cantiere. Sulla stampa locale intanto continuava la battaglia di alcuni pochi irriducibili che premevano per un mio recupero e valorizzazione per quello che avevo rappresentato. Le scuole medie della cittadina adriatica si interessavano a me, mettendomi in mostra sulle pagine del calendario destinato a valorizzare i monumenti della città, secondo il progetto chiamato “Monumento per amico”.
Il 29 agosto del 2012 è avvenuto quello che pochi speravano. Sono stato sollevato da terra da una potente gru e, messo su un articolato, mi hanno portato nei capannoni della ditta “Faggiolati Spa” di Macerata, frazione di Sforzacosta. L’imprenditore Giovanni Faggiolati, vero esempio di munificenza e di sensibilità verso un bene di Archeologia Industriale, unico in Italia e non solo, in men di un anno, mi ha completamente restaurato e riportato a Civitanova Marche. Ora sono collocato in un angolo dell’area dove un tempo sorgeva il magazzino della “Cecchetti”, l’unico spicchio di terra non ancora edificato. Dicono che qui sorgerà il museo cittadino dove spero di trovare la definitiva collocazione.
Nella stesura di questo testo mi sono rifatto allo scrittore tedesco Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura (1972) e al suo libro Racconti umoristici e satirici, nel quale l’autore fa parlare gli oggetti descritti, tra tutti ricordo il testo “Il destino di una tazza senza manico”. Questo e altri brani delle antologie usate a scuola sono stati il punto di partenza per invitare gli alunni alla scrittura di racconti. Un alunno, il cui papà era rappresentante di commercio, fece parlare una vecchia Samsonite, che aveva viaggiato assieme al suo padrone sui treni della Transiberiana. La vecchia valigia, andata in pensione, con le rotelle fuori uso, era diventata il gioco preferito dall’alunno e dal suo fratellino più piccolo, che scorrazzavano nel giardino di casa.
Le case operaie di via Parini.
Tra le arti figurative che l’archeologia industriale privilegia nella propria indagine di ricerca, particolare importanza riveste la fotografia. Incroci stradali, vie di traffico sono tutti segni visibili di un contesto ambientale che si è andato gradualmente trasformando in funzione della produzione di massa. Due fotografie, l’una aerea, del 1925, l’altra risalente al periodo 1932- 33, relative alla zona di San Marone, ci permettono di operare un confronto tra il prima ed il dopo in relazione ad una stessa parte di territorio. Le case operaie di via Parini svettano accanto alla chiesa di San Marone nella seconda fotografia, nella prima invece c’è ancora campagna nelle immediate adiacenze del santuario, c’è solo la strada che scende verso il centro di Porto Civitanova, solo in lontananza, sulla sinistra si vedono due ciminiere, l’una della fornace Ceccotti, l’altra molto probabilmente perché la fotografia non è del tutto chiara, appartenente alla vecchia vetreria o “Fabbrica delle bottiglie”.
La decisione di costruire un complesso di case su una larga striscia di terreno che corre parallela alla chiesa di San Marone venne presa da Adriano Cecchetti e dal Consiglio di Amministrazione dell’Azienda, nei primi anni venti, trascorso quel periodo passato alla storia come “Biennio Rosso” (1919- 1920), segnato da dure lotte operaie, alla base delle quali c’era la richiesta di livelli salariali più alti, per far fronte al caro vita ed al problema degli alloggi. “Capitano d’industria” Adriano Cecchetti, vicino ad altri grandi industriali del nord Italia ed il villaggio operaio di via Parini regge al confronto anche con realtà lontane: il villaggio operaio Falk a Sesto San Giovanni, quello della SNIA a Cesano Maderno, Bevilacqua a Carate Brianza, le case operaie di via Moscova a Milano, la comunità villaggio di Crespi d’Adda, in provincia di Bergamo, in località Capriate San Gervasio. Il confronto non è affatto irriguardoso, fatte le debite distinzioni quanto alla grandezza, ma il principio ispiratore è lo stesso: avere a disposizione una forza lavoro da controllare, attraverso la fornitura di una serie di servizi: case, asilo, cassa mutua, spaccio aziendale, mensa.
Gli operai e le loro famiglie, residenti nelle case di via Parini, non pagavano nessun canone e questo era indubbiamente un privilegio per tutti gli operai della Cecchetti, quelli che riuscivano ad avere assegnata una casa. Anche in caso di licenziamento dal lavoro, per cause non imputabili alla sua volontà, chi era beneficiario dell’abitazione, non poteva essere sfrattato, ma chiamato a pagare un “ragionevole affitto”. La prima famiglia beneficiaria di una abitazione fu quella di Giovagnini Mario, caporeparto alla ditta, settore meccanico. Giovagnini era il suocero del compianto Gildo Monachesi, persona assai conosciuta ed impegnata in parrocchia. Le case non hanno perso nulla dell’impianto originario, solo all’interno, i nuovi proprietari hanno distribuito diversamente gli spazi d’uso, comprendenti: al piano terra, un’ampia cucina ed una sala, al piano superiore, la camera da letto, una cameretta ed il bagno. Una scala interna collega i due piani occupati da due famiglie che hanno, ognuna una porzione di casa in verticale, con l’ingresso autonomo. Le due case più basse allineate dietro alle prime e quelle più alte, l’una all’inizio di via Parini, e le altre due contigue alla chiesa di San Marone, sono state costruite dopo. Sul retro delle abitazioni, un piccolo orto appagava i fondamentali bisogni alimentari; a seconda della stagione si raccoglievano pomodori, melanzane, zucchine, cetrioli, insalata, cavoli; non mancavano mai le erbe aromatiche che servivano ad insaporire i cibi: salvia, rosmarino, basilico, finocchi selvatico, c’era anche chi allevava polli e conigli.
Le famiglie dei “Cecchettari” che abitavano in via Parini si sentivano molto unite tra loro. C’è ancora chi ricorda le sere d’estate trascorse sul prato antistante alla chiesa di San Marone, ad assistere alle funzioni religiose o semplicemente solo per chiacchierare e raccontarsi i fatti del giorno. La strada e la piazza erano frequentate poi da un numero imprecisato di ragazzini che giocavano fino a tarda sera. Ora qualche papà che ha vissuto la propria adolescenza assieme ad altri ragazzi lungo la via Parini, è costretto a portare in macchina, il proprio figlio a giocare in casa di qualche suo amichetto perché in via Parini ed in piazza San Marone, bambini non ce ne sono più, in compenso sono aumentate le macchine e sono nate come funghi costruzioni dal dubbio gusto: scatole e scatoloni di cemento, manifestazioni lampanti di scelte dettate solo dalla febbre del mattone.
Raimondo Giustozzi
Bibliografia sulla fabbrica “Cecchetti”,
Alberto Perini, Le officine Cecchetti. Un secolo di storia (1892 – 1994), in “Civitanova Immagini e Storie”, n° 8, dicembre 1999, Civitanova Marche.
- Chiapparino, La “Cecchetti” e Civitanova. Un itinerario imprenditoriale, in “Civitanova Immagini e Storie” Vol. 13, Recanati, settembre 2009.
AA.VV. Al tempo di Adriano, Correva l’anno 1908 alla Cecchetti, in “Civitanova Immagini e Storie”, n° 13, Civitanova 2009.
Angelo Gaglioppa, Adriano Cecchetti, SGI e non solo, frammenti di un secolo di storia industriale a Civitanova Marche, in “Civitanova Immagini e Storie”, nuova serie, n° 1, Giugno 2010, Civitanova Marche.
Matteo Gentili, Graffenstaden 1862. Cenni storici della fabbrica alsaziana (Usine de Graffenstaden poi Société Alsacienne de constructions mécaniques) presso Illkirch – Graffenstaden (Francia) sede di costruzione del tornio per le sale montate della “Cecchetti” di Civitanova Marche, in “Civitanova Immagini e storie”, pp. 75 – 81, nuova serie 3 (16), Civitanova Marche 2013.
Barbara Baiocco e Paolo Del Dotto, Recupero delle ex Officine Cecchetti di Civitanova Marche, le grande copertura urbana e la riconversione delle strutture esistenti, in “Civitanova Immagini e Storie”, pp. 83 – 89, nuova Serie 3 (16), Civitanova Marche 2013.
Giulietta Bascioni Brattini, Agostino Martellini. Il racconto di una vicenda umana legata alla Cecchetti, pp. 25 – 35, in “Civitanova Immagini e Storie”, nuova serie 1 (14), Civitanova Marche, 2010.
Alvise Manni, Il tornio per le sale montate del 1862 della Cecchetti di Civitanova: uno scandalo al sole… (alla pioggia, al gelo, al vento, alla neve, alla grandine, etc.), pp. 37 – 46, in “Civitanova Immagini e Storie”, nuova serie 1 (14), Civitanova Marche, 2010.
Monia Ciminari, Adriano Cecchetti, “Creatore del lavoro”, pp. 47 – 53, in “Civitanova Immagini e Storie”, nuova serie 1 (14), Civitanova Marche.
Due link http://www.civitanovaimmaginiestorie.it/ e http://www.museodellacecchetti.it/ dal sito www.centrostudicivitanovesi.it
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