In questa nuova raccolta, il poeta mette alla prova il lettore con il saliscendi dei suoi versi tra quotidiano e stellare. Qui si ripercorrono con una rilettura poco convenzionale, ma molto appassionata.
di Mauro Querci
Certe cose si capiscono meglio da lontano. Certe volte è meglio immaginare piuttosto che constatare di persona. È quello che mi viene da pensare quando rileggo le poesie di Dentro al petto mi si muove un canto per fermare i pensieri in queste righe. Conosco Piergiorgio Viti «per via digitale» (prima su Facebook, quando ho scoperto quello che scrive, poi al cellulare d’accordo), ma chiarisco subito che non l’ho mai incontrato. Ho ricevuto in dono i suoi libri, ho visto le foto che posta, mi fanno riflettere o divertire pensieri e articoli che spesso affida ai social; però non ci siamo mai visti in faccia. E, secondo me, per questo sono nella migliore condizione per parlare della sua nuova raccolta. Mi ripeto i suoi versi e mi lascio «impressionare» come una carta fotografica, costruisco le mie immaginazioni appunto, ma non le ricollego direttamente a lui, ai frammenti della sua vita, ai momenti passati, alle persone che ama e ha amato e di cui non so alcunché. Questa lunga premessa autobiografica è necessaria a una recensione di sicuro poco convenzionale ma molto appassionata.
A conferma però di quanto la poesia di Piergiorgio comunichi, vale questa considerazione: pur non conoscendo il suo mondo, quello che scrive è capace di generarne uno parallelo, in cui ciascuno si può riconoscere. Catturano subito il lettore le sue tonalità piane, questa immediatezza di chi ti vuol far arrivare le sue parole perché ha qualcosa da confidarti, non perché si deve esibire a tutti i costi, come succede a molti suoi colleghi con molte meno frecce al proprio arco. Colpisce la geografia che descrive, popolata di luoghi domestici, quotidiani: nelle sue pagine ci si aggira tra centri commerciali, su strade di provincia dove ci si incolonna dietro camion delle patatine Crik crok, sopra cavalcavia, consumando scatolette di Simmenthal su tavole di cucina, salendo su autobus numero 27.
E, come se non bastasse tutta questa familiarità, nelle varie sezioni della raccolta utilizza titoli rassicuranti, altro che La bufera o Allegria di naufragi: troviamo invece Radio Maria, Varie ed eventuali, Questionario di gradimento. In quest’ultimo caso mi permetto di citare un’immagine personale che mi si è accesa, ovvero quei questionari che si trovavano in qualche confezione di biscotti, si mettevano da parte e si tiravano fuori per compilarli in qualche sera d’inverno, quando proprio non c’era nient’altro da fare: tanto per dare un’idea delle capacità evocative delle parole quando si trovano nel giusto contesto.
Così Piergiorgio mette a suo agio noi lettori, ci fa rilassare… Peccato che, un attimo dopo, si diverta a scombinare tutto quello che abbiamo appena teorizzato con versi del tipo «cavalchiamo la scia delle comete / tutte le criniere della gioia», strappandoci dalla poltrona e coinvolgendoci in un entusiasta vagabondaggio spaziale. Si diverte Piergiorgio, perché pratica a suo modo con leggerezza l’aureo precetto del signor Giovan Battista Marino: «Del poeta il fin è la meraviglia».
Ci sa fare il nostro amico, perché coinvolge al lettore in quella che un tempo si sarebbe chiamata dichiarazione di poetica. E gli dice: «Ti piace questa poesia? / Prendila, usala come vuoi, lei è quello / che decidi che sia» (con tanto di rima). Ecco, però, che aggirandosi apparentemente tranquillo tra «le sequoie gli elefanti le foreste pluviali», ci infila un verso alla maniera latina di Catullo: «Se amare è un esercizio di stile / allora mi considero ripetente / e ti chiedo baci a dismisura».
In una poesia contemporanea che è quasi invariabilmente cerebrale (leggasi: incomprensibile), ombelicale (leggasi: senza slanci verso il mondo), di colore grigio (leggasi: pallosa), lo sventato Piergiorgio si tuffa a scrivere piccoli e condivisibili canzonieri d’amore, nella sezione inaugurale di Chiamami amore, ma non proprio tutti i giorni. E con nonchalance ti piazza questi sei versi, con tanto di similitudine che stempera l’ardore ma poi ti rispedisce subito in regioni cosmiche. Così: «E mentre dormi / il tuo respiro / è come un ascensore / che dal primo piano / della vita / arriva fino alle Pleiadi». Potenza dell’amore. Li ho fatti leggere a un’amica che poco sa di poesia e ancor meno di Viti e ne è stata folgorata. Funziona, dunque.
Non ci si sbagli, però, con questa apparente leggerezza calviniana. Piergiorgio è capace di cambiare ancora una volta registro e da petrachesco domestico si trasforma in un crepuscolare alla Carver. Con le sue immagini mi ricorda allora le fotografie di certe strade di campagne vuote e immobili che pubblica su Facebook, che sono le Marche ma che sembrano America profonda. E scrive: «…adesso passiamo i giorni / davanti a uno schermo, / i mobili / ce li montiano da soli, / mangiamo cibo / che ci portano a casa / e allora dimmi / oggi che siamo grandi, / per cosa siamo felici?».
La destrezza nel sorprenderci, il saper aprire spazi, l’infiammare immagini, il presentarci personaggi del suo mondo che non abbiamo mai visto ma che ci diventano subito amici: tutto questo è la sostanza di un poeta appartato eppure ben capace di parlare a «everyman».
Si potrebbe andare avanti per pagine a indicare richiami letterari, lezioni di scrittori maggiori imparate a dovere. Ma quello che preme dire di Piergiorgio è altro; meno accademico di sicuro, ma anche più vero. Piace piuttosto far parlare i suoi versi. E dunque c’è la nonna Linda, che torna tra «centrotavola fioriti e radure di silenzio» e il poeta la sintetizza in una definizione affilatissima: «Eri come una bismamma».
Come lettore, viene anche da riflettere su quel titolo-endecasillabo, «cantabile», un po’ rétro, che porta la raccolta: Dentro al petto mi si muove un canto. Alla fine, si conclude che va bene così: perché nel saliscendi dei versi si oscilla di continuo e accanto a Ray Carver ci sta bene anche Umberto Saba. Ma anche la guerra dell’ex-Jugoslavia: «Le annunciatrici / purgarono ogni sorriso / i palinsesti / si affollarono di reportage: immagini di cannoni, mitra, fosse comuni». E dopo l’unghiata sul vetro della realtà, s’incontra pure un Piergiorgio bambino che sogna: «…salivo in groppa agli unicorni / battevo i tamburi di una banda / giocavo coi delfini dell’oceano».
Leggendo e rileggendo Dentro al petto, ripenso a quella frase strafamosa del Giovane Holden, che per «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira». Già. Io questa fortuna di potergli telefonare ce l’ho. Che cosa si può augurare a Piergiorgio? Lunghe scritture e lunga vita di viaggi, incontri, amori, ricordi che gli ispirino le scritture di cui sopra.
Riflette lui, brillante e carezzevole, chiamandoci in causa ancora una volta: «Poi, pensandoci ancora, / mi dico che pure gli altri / a volte, avranno pensato, / che, alla mia compagnia, / avrebbero preferiti / scrivere leggere Nietzsche o bere vino». Ci sai fare, Piergiorgio, ci piace la tua poesia. Ma anche bere vino.
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