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O se fossi Gaber, ovvero: l’io privo di ego Breve monologo immaginario nei panni del “signor g.”, a venti anni di distanza dal suo ritiro finale.

Photo by Angelo Deligio/Mondadori Portfolio via Getty Images

Photo by Angelo Deligio/Mondadori Portfolio via Getty Images

 

di Giovanni Savastano

Sì, lo so. Io mi chiamo G. Sono un filantropo generoso ma molto carogna nei rapporti interpersonali, anzi no, mi sento un conformista borghese, solidale con l’operaio pieno di tic da catena di montaggio. Ma che dico, nel profondo sono un intellettuale comunista che ha bisogno di un aiuto psichiatrico, in questi tempi in cui la mia generazione ha perso, certo, mantenendo però un delirio di onnipotenza nel taschino della giacca, quello accanto all’occhiello con il garofano rosso dei socialisti rampanti anni ’80. Cado a pezzi, mi perdo polpacci e avambracci. Ma quando chiudo gli occhi, posso anche ipotizzare di essere Dio per farli aprire a chi non osa sfidare il nuovo Verbo del politicamente corretto.

 

Mi hanno detto che da tempo sono idolatrato da nuove generazioni di attori, cantanti, intellettuali. Non me ne ero accorto, perché ultimamente mi ero decisamente ritirato in campagna. E non era la prima volta che mi ritraevo: il primo passo in tal senso lo avevo compiuto all’inizio degli anni ‘70, dando l’addio alla televisione e ai suoi giochi di cartapesta. Sì, certo, mi sembra di capire che in confronto a ciò che vi fanno ingurgitare oggi, le mie scenette cantate sul piccolo schermo, a metà tra cabaret e quel sottile impegno intellettuale (seminascosto quel tanto che bastava per non irritare la sacra trinità RaiTV-Democrazia Cristiana-Bernabei), non fossero poi tanto male. Qualcuna la ricordo ancora, e ne sorrido piacevolmente: l’incontro con lo statuario Gian Maria Volonté, ad esempio. Come dimenticarlo? Quando entrò nello studio di “Diamoci del tu”, la trasmissione che conducevo nel 1967, il suo magnetismo fendeva l’aria: magari non si percepiva, ma dare del tu a lui era proprio difficile, ero emozionato come un bambino mentre inscenavamo un duetto di impappinamento su un copione posticcio.

 

Era diverso, invece, con i miei amici-colleghi di sempre. Luigi Tenco ed io, ad esempio, eravamo praticamente coetanei, con lui mi sentivo a casa: a vederci ora in qualche foto ingiallita, noi due e Gianfranco Reverberi, con quelle camicie bianche sormontate dalle bretelle, sembravamo impiegati delle poste che si atteggiavano a chanteur francesi esistenzialisti. Ma come suonavamo, perdio: quando accompagnavamo Celentano, poi, il successo era assicurato, e Luigi con il suo sax attirava tutte le donne. Fu spontaneo, per me, invitarlo in una mia trasmissione tv dalla scenografia salottiera, “Questo e quello” del 1964. C’era anche Ugo Gregoretti, con noi. Luigi si arruffava come un gatto, in quell’atmosfera di sana noia borghese nella quale sembrava che io, invece, avessi trovato una mia collocazione: il cantante di successo che, con la Jaguar 4200, andava a prendere sua moglie Ombretta Colli, alla Statale di Milano, dove, tra una registrazione e uno spettacolo, lei studiava russo e cinese.

 

Forse Tenco stava già consapevolizzando una sua insofferenza per il “sistema”, come allora si cominciava a dire. Anche io ne soffrivo, ma, ahimè, o ohibò, a differenza di lui, mio malgrado ero diventato un artista da hit parade, soprattutto con le vendite dei 45 giri, quel magico oggetto di vinile che, a cavallo tra il decennio ’50 e ’60, ti faceva diventare ricco e famoso e inserito, volente o nolente, in un ingranaggio discografico-televisivo cronicizzato. E via con la “Torpedo Blu”, con tanto di suon di clacson e, ancora a proposito di macchine, la “Balilla” con Maria Monti; e poi “Barbera e Champagne”, “Le Strade di Notte”, “Le Nostre Serate” (e giù con la noia esistenzialista alla Sartre), fino all’apoteosi di “Goganga”, un inno al difetto fisico espresso con un leggero e ironico ritmo non sense, con tanto di pernacchio finale.

 

Ma, ancora prima, “La Ballata del Cerutti”, cucita a quattro mani con Umberto Simonetta, con il quale ho fatto un centro dopo l’altro, ebbene sì, da “Porta Romana” a “Il Riccardo”: un connubio giocato su ironia, leggerezza e profondità non pallosa. D’altronde, ho sempre avuto voglia di giocare con la musica: come poteva essere altrimenti, quando si inizia con uno come Enzo Jannacci? Quando con lui formai I Due Corsari, mi disse “ma tu sei Gaber, io non sono ancora nessuno!”. Ma poco importava: eravamo nel 1959, rifacevamo il verso agli Everly Brothers, dissacrandoli a modo nostro.

 

Tante di quelle canzoni citate le rifeci in un medley televisivo con Mina, era il 1970, avevamo iniziato insieme una tourneè trionfale nei teatri che durò fino all’anno successivo.

 

Poi, successe qualcosa. Sì, dopo il ’68: avevo respirato nell’aria quell’onda d’urto dei giovani che parevano volermi lanciare un messaggio, un po’ come ad un fratello maggiore. Mi venne spontaneo ascoltarli e, in un certo senso, anche accodarmi a loro: smisi quindi di frequentare Mina e Celentano per seguire, al posto loro, il Gruppo Gramsci. Finalmente stavo dando voce a quello che, fino ad allora, avevo forse solo percepito in maniera subliminale: il bisogno di uscire dall’Io per entrare nel Noi. Si cambiava cornice.

 

Quella della tv e della discografia tradizionale mi stavano ormai strette. All’inizio degli ’80, tentai persino di spiegarlo a ritroso, forse non riuscendovi appieno, sicuramente sbagliando contesto: per forza, era di nuovo la tv! Seppur con una formula nuova, quella inaugurata da Gianni Minà con Blitz, trasmissione “alternativa” della domenica pomeriggio sul secondo canale. Fu lì che, a gennaio del 1983, ospite, tentai di spiegare quei quattordici anni precedenti in cui mi ero assentato dal piccolo schermo: era stata proprio la tourneè con Mina a regalarmi questa Epifania.

 

Mi ero reso conto, d’improvviso, che esisteva il Teatro. Ed esisteva, però, anche la mia sensazione di inadeguatezza, alla quale doveva aver contribuito, sebbene non ne avessi mai parlato esplicitamente, la morte di Luigi a quel dannato Festival di Sanremo del ’67, dove anche io ero presente con il brano “E allora dai”, una canzone beat decisamente dimenticabile, nella quale però c’era qualche seme di quella che cominciava a profilarsi come “canzone di protesta”. Ma stavo male, dovevo uscire da quel personaggio che si stava delineando: da quel momento non misi più piede a Sanremo e cominciai ad avvertire che c’era altro al di là dell’ingranaggio di marketing.

 

Non che non avessi provato, in passato, a fare delle incursioni in territori alternativi, in sintonia con una mia indole anarchica: lì mi portavano infatti le radici della musica popolare, rurale e di protesta che tentai persino di far insediare nel salotto tv borghese di “Questo e quello” quando, in sordina, nel 1964 invitai Jannacci, Lino Toffolo, Silverio Pisu e Otello Profazio per eseguire insieme a loro, ognuno con chitarra acustica in braccio, “Addio a Lugano”, anche detta “Addio Lugano Bella”, un inno anarchico scritto da Pietro Gori alla fine dell’800. Di tale mio disagio e malessere, legati anche alla scomparsa di Tenco e del suo mondo, dovette accorgersi, in qualche modo, Sandro Luporini, un pittore che avevo conosciuto anni addietro, con la passione per la scrittura di testi di canzoni. Il nostro primo frutto musicale, risalente addirittura al 1960, aveva un titolo un po’ strappalacrime, “Suono Di Corda Spezzata”, ed era la facciata B della “Ballata del Cerutti”.

 

Poi, la nostra frequentazione rimase frammentaria, pur mantenendo entrambi, l’uno con l’altro, un filo conduttore che si riaffacciò prepotente all’inizio degli anni ’70. Quel brano era stato profetico: “Ci incontrammo, io tu e i suoni di chitarra…ci lasciammo, io tu e i suoni di chitarra…ci troveremo, io tu e i suoni di chitarra”. E così fu. Galeotto era stato il mio incontro con Herbert Pagani, a metà anni ‘60, che mi aveva introdotto alla poetica in musica di Jacques Brel, che io a mia volta trasmisi a Luporini. Tra tutte le composizioni di questo nuovo corso, quella che mise in rilievo le mie nuove spinte interpretative fu “Che Bella Gente”, un riadattamento di Pagani da Brel: l’impianto musicale e il racconto in essa contenuto – a ripensarci, quasi una trasposizione in canzone della trama di “Signore e Signori” di Pietro Germi -, partorirono una performance, a detta di molti, particolarmente riuscita.

 

Insomma, gli ingredienti per una svolta c’erano tutti, e si stavano cominciando ad amalgamare tra loro: l’irrompere del sociale sulla scena delle canzonette, l’allargarsi del mio orizzonte compositivo-musicale e l’intesa con Sandro: fu lui a cucirmi addosso la nuova identità di tale Signor G., un borghese disincantato, con il quale potevo uscire dalla mia immagine stereotipata ed avventurarmi verso altri racconti. Su tutto, la riscoperta del mio corpo come veicolo di narrazione: cominciai a muoverlo, a distorcerlo, a metterne in evidenza i difetti e i pregi, tirando fuori da me insospettate virtù e doti mimico-facciali, enfatizzate da quei racconti-intermezzo che mi ero inventato nel tour con Mina, per cucire insieme tra loro le varie performance. Il pubblico nazional-popolare televisivo ebbe la prova di tutto ciò nella mia esibizione a Canzonissima 1969-70 con “Com’è Bella La Città”, in cui tirai fuori l’istrione che era in me. Molti anni dopo, all’inizio degli ’80, feci addirittura il salto nella prosa, debuttando nella recitazione accanto ad una regina della scena come Mariangela Melato, in un testo originale mio e di Luporini, “Il caso di Alessandro e Maria”.

 

Mi preparavo in modo maniacale prima di uno spettacolo, perché ho sempre odiato l’improvvisazione, la consideravo una mancanza di rispetto nei confronti del pubblico, mascherata da finto autocompiacimento. Ma sapevo di poter contare su un substrato di talento istintivo.

 

Chissà, se non avessi avuto Milano dentro di me, forse non avrei potuto calcare le scene di quel “Teatro-Canzone” di cui dicono sia stato l’iniziatore: con i suoi balconi a ringhiera e le trattorie di fuori porta, la mia città-cabaret fu il mio primo palcoscenico. Un luogo di apparente freddezza, da scoprire foglio dopo foglio in tutta la sua capacità di accoglienza. Lo scenario ideale per l’incontro a metà strada tra l’Io e il Noi, come quello avvenuto tra me e Luporini: ci hanno spesso definiti come reciproci alter-ego, ma forse siamo stati più un Noi bifronte, con i rispettivi lati di due “Io” in lotta perenne, non tra loro, ma ognuno con il proprio Ego.

 

Da tale lotta imparai che c’è un egoismo sano: quello che, facendo star bene con sé stessi perché si riescono a fare le cose congeniali, porta di conseguenza beneficio anche agli altri. Non importa quanti siano questi altri: nei primi spettacoli “Il Signor G.” e “Storie vecchie e nuove del Signor G.”, messi in scena tra il ’70 e il ’71, le sale non erano piene. “Ma se riesco a dire una verità ad uno, è sempre meglio che dire mezza verità a mille”. E, da lì, non ho più smesso: a cominciare da “Dialogo tra un impegnato e un non so”, il primo spettacolo tutto interamente scritto da Sandro e da me, a “Un’idiozia conquistata a fatica” della fine degli anni ’90, la folla è aumentata fino a raggiungere perenni sold-out.

 

Mi dicono che sia successo al di là di ogni basso gioco di seduzione. In effetti, non ho fatto altro che inseguire la verità, cercando di buttare giù tutti i falsi orpelli di ipocrisia e perbenismo che la offuscavano. “Si ricerca per ricercare, non per trovare”. Il mio Virgilio, in tale ricerca, non poteva non essere il mio “Io”, ma mai ripiegato su sé stesso: “Io Se Fossi Gaber”, “La Parola Io”, “Io Se Fossi Dio”. Ce n’è voluto per tenere questi molteplici Io lontani dall’Ego; se non l’avessi fatto, non avrei mai potuto parlare, per esempio, di Aldo Moro in modo così crudo e apparentemente irriverente in “Io Se Fossi Dio”, una lunga canzone-invettiva contro il falso pietismo, che mai avrei potuto incidere se non fosse stato per il Teatro.

 

Tra parentesi: qualcuno mi chiede se i miei epigoni riescano a fare altrettanto, presi come sono da questa civiltà dell’autocompiacimento conformistico e narcisistico ad ogni costo. Non ho risposte. So solo che, se per esempio negli anni ’70 avessi seguito i diktat valoriali del momento, non avrei potuto parlare anche del privato così come penso di essere riuscito a fare, perché l’imperativo categorico di allora ordinava “tutto è politico” o “attenti al riflusso”. Ma io me ne sono fregato, e in “C’è Solo La Strada”, ad esempio, dopo aver invocato il potere della piazza, sussurro “Anna ti amo”, o ancora, in “Chiedo Scusa Se Parlo Di Maria”, oscillo tra il bisogno di discettare sul Vietnam e il desiderio di amare una donna. Così come dondolo, d’altronde, tra appartenenza e disappartenenza, entrambe dimensioni del mio Io che tende al Noi. Ho bisogno di passare da un’identità all’altra: persino il Signor G., all’inizio, si divideva in due: il povero e il ricco.

 

E, quando pensi di essere d’accordo con me, all’improvviso ti mollo e trasloco dall’altra parte, lasciandoti da solo, con il tuo Io. Qualcuno, in questo, mi ha paragonato a Pasolini, quando ti porta con sé, come un pifferaio magico, sui sentieri di un’idea, per poi, all’improvviso, sorprenderti in rivelazioni del tutto opposte. Lui, così proteso verso i poveri e gli emarginati, non aveva remore a parlare, ad esempio, dell’“umanesimo cencioso dei ceti medi”, in altre parole quella falsa filantropia borghese di chi, ad esempio, si preoccupa dei problemi dell’Umanità mentre contemporaneamente non si fa scrupoli a comportarsi in modo subdolo nei reali rapporti interpersonali.  L’ho ribadito anch’io:

 

“Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E sull’amore e sulla carità

Mi sarei spiegato un po’ meglio

Infatti non è mica normale che un comune mortale

Per le cazzate tipo compassione e fame in India

C’ha tanto amore di riserva che neanche se lo sogna

Che viene da dire

“Ma dopo, come fa a essere così carogna?”.

 

Alla fine delle mie esibizioni, spesso rispondevo alle ovazioni del pubblico con un verso, un urlo di ringraziamento, a metà tra una emozione di imbarazzo e un morso.

 

Ed è così che vi lascio: che vi faccia compagnia la mia carezza violenta.

 

Quanto a me, sono ancora là, “…da solo, lungo l’autostrada, alle prime luci del mattino”.

 

by Micro Mega

 

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