di Raimondo Giustozzi
La Confraternita del SS. Sacramento di Civitanova Marche Alta invita alla partecipazione della festa della Candelora, giovedì 2 febbraio 2023, alle ore 17,30, presso la Chiesa del SS. Sacramento, pl. Garibaldi, Civitanova Alta. L’invito è legato alle iniziative per ricordare i primi cinquecento anni della propria attività in favore della Chiesa e della società civile.
Con l’arrivo di febbraio, al due del mese, arrivava e arriva anche oggi la festa della Candelora: “A Cannelora / dell’inverno semo fòra / Se ce negne e se ce pioe / ce ne stà quarantanove”. Un’altra versione del proverbio, meno conosciuta, recitava così: “Cannelora, Cannelora / dall’inverno semo fora / se ce da’ lu solarellu, trenta di’ de’ ‘nvernarellu”. Si sa che i detti popolari di un tempo, permeato dalla cultura contadina, nascevano e si affermavano dopo ripetute osservazioni del tempo atmosferico. Si era giunti a stabilire che se il tempo era cattivo il due febbraio, l’inverno sarebbe continuato ancora per mesi. Il proverbio brianzolo recitava così: “A la Madonna de la Seriòla / de l’inverna sèm föra , / ma se piöf o tira vent / de l’inverna sèmm dent”. La Madonna della Seriòla è la Madonna della cera, materiale usato per produrre le candela. La candela accesa fa luce tutto intorno. La festa della Candelora è la festa della luce.
Secondo alcuni studiosi, la festa della Candelora fu istituita nel 492 d. c. da Papa Gelasio I per cancellare le volgarità delle feste dedicate al dio Luperco che i romani celebravano proprio in questo periodo dell’anno. Col tempo queste feste si erano trasformate in manifestazioni licenziose e assai lontane dallo spirito delle origini. La giovane religione cristiana si innestava sulle tradizioni esistenti per trasformarle e piegarle al nuovo corso. Cristo era la luce del mondo, quindi non c’era altra festa che poteva ricordarlo se non quella della Candelora. Con febbraio, anche le giornate si allungano. La luce vince, anche se di poco, sulle tenebre delle lunghe notti, dominanti nei mesi di dicembre e gennaio. “Per Sand’Andò, un cargio de vò / Per Pasquetta, ‘na mezz’oretta”, recitava l’antico adagio popolare. La festa di Sant’Antonio, protettore degli animali cade al 17 di gennaio.
La storia galoppa: “Nel 1497 il conquistatore Alonso Fernandez de Lugo fece celebrare la prima festa della Candelora, dedicata in particolare alla Vergine Maria, in concomitanza con la festa della Purificazione, il due febbraio” (Fonte Internet). La chiesa cattolica al due febbraio di ogni anno festeggia anche la Presentazione di Gesù al Tempio che avvenne secondo le usanze dell’epoca, previste dalla legge giudaica per i primogeniti maschi. Molti pittori hanno reso celebre l’episodio narrato dall’evangelista Luca con dipinti unici al mondo. Tra i grandi artisti si segnalano: Andrea Mantegna, Ambrogio Lorenzetti, Beato Angelico, Giovanni Bellini, Gentile da Fabriano, Giotto di Bondone, Lorenzo Lotto, Jacopo Tintoretto.
Nello stesso giorno nelle chiese si benedicono le candele che il contadino una volta appendeva nella stalla o esponeva all’aperto per scongiurare il flagello della grandine o le scariche dei fulmini che si abbattevano sui pagliai. La candela benedetta si passava sotto la gola. Avrebbe tenuto lontano ogni malanno. Nella tradizione popolare brianzola, accanto a questo rito è rimasto l’uso di mangiare le ultime fette di panettone. Sembrano più buone di quelle natalizie. Fanno bene alla gola, come sostiene la devozione a San Biagio patrono appunto della gola, festa che cade al tre febbraio.
“Il culto verso San Biagio sembra che si sia sviluppato solo cinque secoli dopo la sua morte. Venerato come uno dei Quattordici Santi Taumaturghi in Francia e soprattutto in Germania, san Biagio è famoso per l’ininterrotto ricorso al suo patrocinio da parte di chi soffre di patologie alla gola. Si narra che sia stato vescovo di Sebaste, in Armenia, e che sia stato condannato a morte durante le persecuzione di Diocleziano: la sua carne venne dilaniata con pettini di ferro da cardatore prima della decapitazione. La particolare associazione del santo con i mali legati alla gola deriva dalla leggenda (forse attribuita a lui perché il giorno della sua commemorazione cade nel periodo dell’anno in cui, almeno in Europa, tali disturbi raggiungono in genere il loro apice) secondo cui, mentre era in prigione, curò un ragazzo che aveva una lisca di pesce conficcata in gola. Ciò ha determinato lo sviluppo del rito di benedizione, in cui si tengono due ceri incrociati sotto la gola dei malati e si pronunciano le seguenti parole: “Per l’intercessione di san Biagio Dio ti liberi dalle malattie della gola e da ogni altro male” Tale pratica pare sia sorta nel XVI secolo ed è ancora in uso nei nostri giorni. Secondo una leggenda, prima di morire egli promise che chiunque avesse acceso una candela in sua memoria sarebbe stato libero da infezioni. E’ anche invocato per il singhiozzo, il torcicollo, la tosse e la pertosse; protegge dall’angina pectoris e, in Germania, anche dai mali della vescica (in tedesco, Blase). Esiste a Subiaco anche una cappella a lui dedicata. Il suo patrocinio a favore dei cardatori della lana ha dato origine al suo emblema iconografico” (1).
La festa della Candelora, quella di Sant’Antonio prima, è legata al mondo contadino. Con il mese di febbraio, quando le giornate erano appena soleggiate, uno dei primi lavori agricoli che occupava non poco il contadino era la coltivazione della vigna. A febbraio, marzo, si scaricava il letame, lo si spandeva alla base della vite, se era il caso venivano innestate viti nuove, potati i tralci vecchi. I sarmenti tagliati, raccolti e sistemati sotto gli spazi antistanti al forno, venivano utilizzati come legna da ardere, quando il pane veniva fatto ancora in casa. Si procedeva poi alla propagginazione il cui scopo era quello di rinnovare le piante; consisteva nel piegare il ramo di una pianta non reciso e sotterrarlo perché mettesse radici e quindi, staccato dalla pianta madre, costituisse un nuovo ceppo. In aprile si coprivano le propaggini di buona terra, si piantavano i sostegni, si legavano le viti con rametti di vimini o con legacci di paglia, preparati e bagnati precedentemente.
La stessa operazione avveniva nelle campagne brianzole, quando su alcuni pezzi di terreno, esposti al sole, si coltivava ancora la vite. Anche lassù veniva sparso il letame (ul rö) di cui si erano formati man mano grossi cumuli poco fuori la cascina. Il film di Ermanno Olmi, l’albero degli zoccoli, contiene molte sequenze su questo particolare. Il nipote segue il nonno, quando quest’ultimo preleva dal mucchio, precedentemente formato, palate di letame e lo adagia sulla carriola per portarlo nel campo. “Sui ronchi (i pianöö) dove solitamente si tenevano le viti (esattamente sul ciglio della parte piana detta contra) c’era movimento per la potatura. Il taglio si effettuava con metodo e competenza (Bróca cürta, vendémia lunga), ramo corto vendemmia lunga, mentre i tralci rimasti venivano fissati ai sostegni con rametti di salice che il contadino si era procurato lungo le rogge dove tali piante crescevano spontanee e che aveva messo a bagno per ammorbidirli e renderli più duttili”( 2).
La viticoltura in Brianza non esiste più da quando il terribile flagello della fillossera (1700- 1800) convinse i proprietari terrieri ad investire i loro capitali nella più redditizia gelsibachicoltura, unita alla nascente industria serica e alle prime filande disseminate lungo il corso dei fiumi: Seveso, Lambro, Adda. Oggi, solo il colle di Montevecchia, (punto di osservazione strategico per le sentinelle che controllavano l’arrivo dei barbari dal nord) è in grado di produrre un apprezzato vino locale, il bianco di Montevecchia, ottimo per accompagnare salumi e formaggi caprini che le trattorie del luogo propongono ai numerosi turisti domenicali.
Note
- AA.VV. I grandi libri della Religione, Santi guaritori salute e serenità, pag. 35, Mondadori Editore, 2006).
- AA.VV. Stagioni in Brianza, Cattaneo editore Oggiono, pag. 25, Oggiono – Lecco, 1985.
Raimondo Giustozzi
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