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Zeta e svastica. Cos’è il rascismo, l’aberrante ideologia totalitaria della Russia di Putin.

Fonte Internet

Fonte Internet

da Raimondo Giustozzi

L’invasione dell’Ucraina posiziona il dittatore del Cremlino nella stessa categoria storica di Hitler, Stalin e Mussolini. L’imperialismo xenofobo e misticheggiante non ha un futuro perché guarda a un passato che non esiste

Rascismo. In inglese suona «Rashism», una crasi tra Russia e fascismo. È una parola d’uso comune nel Paese che ne ha sotto gli occhi la traslitterazione, potreste averla sentita nelle pause della traduzione durante l’intervista a un sindaco o un politico ucraino. È sinonimo di crimini di guerra, di volontà d’annientamento. Il suo simbolo è la zeta, aberrante come una svastica. Per un ventennio l’Occidente si è chiesto che cosa ci fosse «nella testa di Vladimir Putin», oltre a rivoli spesso mistificati di culti e dottrine precedenti. La risposta è questa ideologia neo-totalitaria.

L’«operazione militare speciale», cioè un’invasione su larga scala di uno Stato libero e indipendente, è stata surrettiziamente motivata dal Cremlino con un richiamo al Secondo conflitto mondiale, all’epopea patriottica del fronte orientale. «Denazificare», era il mantra. Peccato che i nazisti stiano a Mosca: le truppe russe avrebbero dovuto marciare al contrario allora, non verso Kyjiv. È chiara a ogni cittadino ucraino ed europeo la continuità tra le mostruosità del Novecento e la guerra totale e terroristica scatenata dal dittatore.

La mobilitazione dell’opinione pubblica russa è parziale come quella di leva, che ha causato fughe di massa (a parole è conclusa, ma manca un decreto presidenziale). Il 24 febbraio segna però uno spartiacque anche nella traiettoria della Federazione: non può essere più considerata “solo” un’autocrazia. Comincia l’ultimo esperimento putiniano, la costruzione di un regime assoluto. La presunta superiorità «spirituale» di un nazionalismo razzista riesuma una xenofobia claustrofobica, la conversione bellica dell’economia sotto sanzioni, l’imperialismo di matrice coloniale, l’idolatria della morte che – bollinata dal patriarca Kirill – darà «la vita eterna».

Il Cremlino vuole tornare a un passato mai esistito. Ha «una concezione necrofila e priva di senso della Storia», come ha scritto Timothy Snyder sul New York Times. Non sono nemmeno interpretazioni, ma perfette falsificazioni quelle dei discorsi di Putin. Un esempio. Il 30 settembre ha evocato Hiroshima e Nagasaki, quindi lo spauracchio nucleare, ma l’atomica del 1945 servì ai vincitori per fermare la guerra e non per prolungarla, come vorrebbe lui, che invece la sta perdendo.

l rascismo, ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in una conferenza stampa della scorsa estate, sarà assimilato al nazismo nei libri di storia e su Wikipedia. La pagina esiste già. In cirillico, si scrive «рашизм». Questi sei caratteri contengono riferimenti all’italiano (il fascismo è stata un’infelice esportazione made in Italy), all’ucraino, al russo e anche all’inglese. La versione originale è più efficace di qualsiasi traduzione, perché riesce a fondere foneticamente le parti che la compongono.

Il lemma sarebbe nato nel 2008, ai tempi della guerra in Georgia. Secondo altre ipotesi, risalirebbe ad alcuni anni prima, alla Cecenia, quando la brutalità di Putin consolidò il suo potere. In frasi come «strangoleremo i terroristi direttamente nella tazza del cesso», che hanno esercitato un certo fascino sulla società russa di allora, c’erano i germi del rascismo di cui ci siamo meravigliati. L’accelerazione coincide con il ritorno al vertice di Putin nel 2012 dopo quattro anni da premier.

Con l’interventismo in Siria, in Africa e poi l’annessione illegale della Crimea nel 2014, antefatto di quelle fasulle di oblast che Mosca ha perso o perderà militarmente, evapora l’illusione dell’«avvicinamento a all’Europa», cullata – in verità soprattutto dall’Occidente – con Mikhail Gorbachev e il primo Putin. Si oppone una retorica del «noi» contro «loro», della «terza Roma» protettrice di valori cosiddetti autentici mentre «loro», appunto, «contano i generi in dozzine».

È una reazione a un’Occidente che, in realtà, Putin non ha (mai) compreso davvero. Era una consolidata tradizione dell’intelligence sovietica, di cui il presidente è stato impiegato, fabbricare resoconti aderenti più ai desideri dei superiori che alla verità. Gli ultimi anni, di isolamento pandemico, hanno aggravato il distacco dalla realtà del «nonno nel bunker», come lo apostrofano i dissidenti e i giovani.

Un aneddoto racconta una direttiva del Kgb agli ufficiali all’estero: ordinava di rintracciare i piani della Nato per un attacco nucleare preventivo all’Urss. Naturalmente, non esistevano. L’inner circle dello “zar” avrà fatto lo stesso con l’Ucraina? Il problema della propaganda del Duemila è che abbiamo finito per crederci pure noi. Non solo Putin. Kyjiv sarebbe caduta in pochi giorni, dicevano i talk show dove gli stessi opinionisti ci ammoniscono oggi sull’invio di armi. Strabuzzano occhi e prossemica e citano articoli tradotti con Google Translate.

La tirata di Putin al Forum economico internazionale di San Pietroburgo era involontariamente ironica quando ci rinfacciava «obsolete illusioni geopolitiche». Sulle quali, però, sembra basata la sua visione del mondo, diviso in sfere d’influenza. Sono ottocentesche anche le mire neocoloniali sulle quattordici ex repubbliche sovietiche. La Moldavia era l’obiettivo successivo, se gli ucraini non avessero fermato le truppe russe. Poi chissà, magari la «voce del padrone» si sarebbe fatta sentire in Kazakistan e Azerbaijan, a ogni un tentativo di smarcarsi dal suo giogo.

Gli schemi del Cremlino sono vecchi di mille anni. Come lo è il progetto plurisecolare di assoggettare il popolo ucraino e le altre nazioni confinanti. La guerra, per la classe dominante, rappresenta l’occasione di sistematizzare un’ideologia che era militante soprattutto all’interno dell’apparato. All’élite, interessata a lucrare e non alle speculazioni sulla democrazia, viene ora chiesta una prova di fedeltà. Si chiede alla «maggioranza silenziosa» un sostegno attivo e non passivo, di uscire allo scoperto. Se esiste.

L’ideologia di Stato, intanto, si fa più arcaica. I toni messianici sono un palliativo di un difetto enorme: il rascismo non ha una visione del futuro. Se le manca nella prassi, è merito degli ucraini che stanno vincendo la guerra, negando a Putin la vittoria con cui sognava di coronare il suo ventennio. È una dottrina antimoderna: del passato più che del futuro. Nasce morta anche la riforma dei programmi scolastici per insegnare fondamenti di putinismo a partire dagli asili. Perché studiare il Medioevo quando puoi viverlo?

I riferimenti del presidente mescolano vari filoni del passato (un libro di E/O ne racconta bene le basi filosofiche, rilette e distorte), dalla «quarta ideologia» di Alexander Dugin che plagia l’Eurasiatismo novecentesco al sovietismo, perché Putin in ultima analisi è questo: un uomo sovietico. È sempre più evidente la saldatura con la Chiesa ortodossa, se il patriarca Kirill promette la vita eterna agli «eroi» che cadono per «difendere la patria». Non si capisce come possano proteggerla attaccando per primi un altro Paese.

Mentre le perdite stimate dell’esercito russo sono vicine alle centomila, il Cremlino adotta  una funerea liturgia della morte. In una superpotenza stracciona, il cui asset principale è la carne da cannone scaraventata al fronte con equipaggiamento carente, è surreale il discorso con cui Putin “consola” la madre di un soldato spiegandole che almeno non è morto di alcolismo o in un incidente stradale. Tanti sprecano la vita ubriacandosi, è il sottotesto di quelle frasi glaciali, mentre lui no. Lui «ha vissuto davvero». Cioè per una causa.

Il culto della grande vittoria del 1945, in questa visione, diventa il culto della guerra tout court. Lo testimonia anche l’ascesa dei signori della guerra, che spendono massacri come quello di Bakhmut per accrescere la loro influenza politica. Il ras della Wagner, Yevgeny Prigozhin, manovra i suoi mercenari nel Donbas, ma il vero fronte che gli interessa è quello di Mosca. Vale qualcosa di simile per i ceceni di Ramzan Kadyrov, ansioso di mettersi in mostra. Sono due volti del rascismo e, non a caso, vengono ascritti tra i papabili all’ipotetica successione.

I russi, è un adagio ormai logoro, venivano ricompensati con la stabilità. Putin non può più garantirla, anzi è diventato il principale ostacolo al «ritorno alla normalità». Purtroppo, la narrativa rascista ha in parte attecchito. Molti dei fanti intercettati o raggiunti dai giornali esteri in questi mesi si sono detti frustrati e delusi dai loro comandi, ma pronti a tornare in battaglia. Nella Storia russa, spesso sono state le disfatte militari a innescare il collasso di un sistema politico: la guerra con il Giappone del 1904-1905, il primo conflitto mondiale, la ritirata dall’Afghanistan nel 1991. Putin rischia di replicare il teorema.

Circola una battuta in Ucraina su perché i russi abbiano scelto la lettera Zeta, listata dei colori di San Giorgio, come simbolo dell’invasione. È una mezza svastica, perché l’altra metà se la sono rubata in magazzino. Deride al tempo spesso la miseria dell’esercito nemico e la corruzione sistemica che ha contribuito a  indebolirlo. In Europa, ci siamo interrogati per decenni sul ritorno del fascismo, su quale filiazione dell’estrema destra potesse resuscitarlo o se fosse piuttosto universale. Gli ucraini si sono accorti prima di ogni analista (e prima di noi) che se davvero un rigurgito totalitario stava vivendo un revival da qualche parte, quel posto era la Russia di Putin.

Linkiesta Esteri – 23 Dicembre 2022

 

Matteo Castellucci

 

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