di Raimondo Giustozzi
Claudio Principi (1921- 2014) non ha scritto solo saggi ma si è cimentato anche con la poesia. Il volume Contadinate Marchigiane raccoglie novantadue sonetti scritti in dialetto, quello di Montolmo, come chiama l’autore l’attuale Corridonia, la città dove è nato ed è vissuto. Dal 1962 al 1988, di sonetti ne ha scritti tanti. Nelle confidenze introduttive, rivolte al lettore, stima che ne ha prodotti circa mille e cinquecento. Nel periodo compreso tra il 1972 e il 1974 avverte il bisogno di raccogliere le composizioni che ritiene migliori e di pubblicarle. Scomparso il dialetto, complice la televisione e le scelte fatte dall’alto di privilegiare la lingua nazionale, il volgare rimane un residuato del passato, che non va cancellato ma fatto conoscere. Tutta la nostra civiltà è stata contadina. La prima grande rivoluzione è quella del Neolitico, quando l’uomo addomestica gli animali e coltiva i campi, da raccoglitore e cacciatore qual era nel Paleolitico. La seconda rivoluzione, quella industriale, in Italia si sviluppa negli ultimi cento cinquant’anni, in un lasso di tempo molto breve se paragonato ai millenni precedenti.
Certo, il mondo contadino aveva orizzonti ristretti, quelli legati ai confini dei propri campi, del proprio paese dove si andava per la fiera del bestiame o al mercato. C’erano anche le udienze dal fattore, l’amministratore del fondo che il contadino coltivava a mezzadria. Il fattore risiedeva quasi sempre in paese. Le udienze erano quasi settimanali. Fattore e contadino dovevano rispondere al padrone delle spese sostenute, dei guadagni fatti con la vendita del grano, del bestiame. La lingua usata nel mondo rurale era quella parlata, diversa da un territorio all’altro. Altri momenti durante i quali il contadino usciva dal proprio guscio erano quelli legati alle feste paesane. Si recava poi con il grano al molino per averne la farina. Portava le proprie olive al frantoio per averne l’olio. Il dialetto usato dall’autore del libro è quello che si parlava a Montolmo e dintorni negli anni venti – trenta del secolo scorso. Qualcuno può vederci quasi un’operazione dettata dalla nostalgia.
Non è così. Lo studio del passato è di lievito per capire il nostro presente e ci consente anche di conoscere quella civiltà per studiarne fatiche, sudori, speranze, saggezza. “I componimenti”, scrive Claudio Principi “vertono su una medesima tematica esistenziale, ma comprendono più che altro rognecate (mugugni), fermate de mènde (riflessioni), gnàgnere (lagnanze), penzate (idee estrose), recordanze (rimembranze), scàppate (battute umoristiche), appartenenti a personaggi vari e di età varia, ma sempre legati alla terra come contadini. E di qui il titolo di Contadinate marchigiane” (Claudio Principi, Contadinate Marchigiane, Tentativi di poesia dialettale e appunti sulla ruralità del passato, 1972- 74, Confidenze introduttive, pag. 12, Fondazione Carima, Macerata, 2000). Non c’è aspetto della vita materiale, vissuta nelle nostre campagne, che sfugga all’indagine precisa, appassionata e sorniona dell’autore. Ogni sonetto è sempre preceduto e seguito da spiegazioni e note ampie e dettagliate. Il volume consta di 310 pagine compreso l’indice e le note introduttive.
“Per quanto riguarda la struttura dei componimenti, va subito detto che essi sono quanto mai disomogenei, nel senso che non si attengono ad un medesimi e predeterminato modulo metrico; sicché si troverà, in questa raccolta e alla rinfusa, non una forma fissa, congrua e prescelta, bensì quella dettata dall’estro del momento e funzionale al tema trattato. Ma tra i testi, che sono in numero di 92, ho interposto capricciosamente 27 sonetti di regolare fattura, scelti tra i molti a suo tempo composti e che soltanto qui figurano” (Ibidem, pag. 13). Preziosa è anche l’avvertenza sul lessico, la morfologia e la sintassi del dialetto scelto. L’autore guida l’autore con spiegazione ampie e dettagliate nella comprensione della fonologia dei termini dialettali. Il volume è un’opera monumentale per la ricchezza dei temi trattati ma anche per la precisione scientifica (Claudio Principi, Avvertenza, pp. 17 – 19, op. cit.).
Vanghènno a Cardéto ( Vangando a Cardeto).
E’ il primo sonetto (pp. 25- 27) della raccolta. Cardeto è una frazione di Corridonia, l’antica Montolmo. Claudio Principi ricorda un episodio lontano nel tempo. Era ragazzo e si trovava dalle parti di Colbuccaro, altra grossa frazione del paese, con il papà Enzo, appassionato cacciatore. “Nei pressi di un atterrato, la povera e tipica casa di fango, mio padre si fermò un giorno per fare quattro chiacchiere con un anziano contadino che indossava pochi stracci e stava vangando un appezzamento, forse adibito ad orto. Mio padre doveva conoscere bene l’uomo, perché avviò il discorso… chiedendogli: – Come vva? – E quello, stancamente e con un mesto sorriso, rispose: – E ccóme vó’ che vvaca?… Lo vidi, vango; e cce se sa: vanghènno se camina a ppart’arrèto” (Claudio Principi, op. cit. pp. 21 – 22). Traduzione: “E come vuoi che vada? Lo vedi, vango, e si sa: vangando si cammina all’indietro”.
Il ricordo di questo incontro del tutto casuale con il contadino di Cardeto si lega in Claudio Principi, diventato adulto, con la lirica del poeta statunitense Edwin Markham (1852- 1940), “The man with the Hoe” (l’uomo con la zappa), ispirata al poeta da un famoso quadro del pittore francese Millet, che ha per soggetto un lavoratore della terra intento a zappare. Poco importa se il poeta statunitense, di cui Claudio Principi riporta la traduzione di Carlo Izzo, sostituisce la zappa con la vanga: “Curvo sotto il peso dei secoli s’appoggia / alla sua vanga e guarda fisso il suolo: / nel viso ha il vuoto dell’età, / sul dorso il fardello del mondo, / Chi lo uccise alla gioia e alla disperazione, / creatura senza lamento né speranza, / balordo e tardo, affratellato al bove?”. Nella lirica di Claudio Principi, il lamento del contadino si trasforma in un consiglio: “Tu sci angóri um mardàsciu, còccu mia: / datte da fa’, no’ mme vinì’ dderèto, / ma cchjappa n’atra via, / no’ le pistà’ le jèppe, statt’arrèto!...”. Tu sei ancora un ragazzo, cocco mio: / datti da fare, non venirmi dietro, / ma prendi un’altra strada, / non calpestare la zolle, stattene lontano, lascia la terra, abbandona i campi. Tutto il sonetto è attraversato da una saggezza unica ammantata da profonde riflessioni.
Pì – Pì – Vèlle – Vèlle (pio – pio – belle – belle).
Nella casa contadina c’era una quantità di galline, papere e oche. Se avessi chiesto quanti animali da cortile avevamo, quando abitavo con i miei genitori e i miei zii nella casa di Santa Lucia, frazione di Morrovalle, dubito che mia mamma sapesse il numero esatto. Erano tanti davvero, compresi anche tacchini, conigli, capponi, e polli. Mancavano solo i piccioni. Non ne abbiamo mai avuti. I capponi andavano al padrone come regalie, ma la carne di pollo non mancava mai sulla tavola. Una sorta di rito era il richiamo gridato a gran voce per radunare il pollame al momento della distribuzione del becchime: Pì – pì – vèlle – vèlle. Ho tradotto con un pio – pio ma non so quanto sia esatto. Rivivere questi momenti è come fermare quel tempo che si colora di nostalgia.
Ecco comunque il sonetto, il secondo della silloge. “A ccalata de sòle la vergara, / co lu canéstro de randurco, vala / tra le pùji che ‘spètta m- ménzo a ll’ara: / chji ruspa, chji spùcia sott’a ‘n’ala; // n- gèrti a llurzà’, quill’atri fa cagnara; / na còppia de picciù, golènno, cala… / Pì-pì-vèlle.., la vergara / ccuscì li chjama, e cco’ na mà che spala / ngomènza ll’àcene per tèri a spanne, / e ll’atri pùji de gni parte rriga, / e tutti vècca, e ffa na ròta granne! // Mmó la donna non chjama più, e se sbriga / scibbè a ccondalli; e ssèmbre mino spanne. / Rva via li galli, e angó la cónda triga” (Claudio Principi, Pì- pì- vèlle- vèlle, pp. 31- 32, op. cit.). “Alla calata del sole la vergara, / con il canestro di granturco, ella va, / tra i polli che aspettano in mezzo all’aia / chi ruspa, chi si spulcia sotto un’ala; //alcuni giocano, altri fanno cagnara; / una coppia di piccioni, volando, planano… / Pio – pio – belle- belle… la vergara / così li chiama, e con una mano getta gli acini a mo’ di pala / incomincia a spandere gli acini in terra, / altri polli arrivano da ogni lato, / tutti beccano, e formano una ruota grande! // Ora la donna non chiama più, e si affretta / a contarli per benino; e spande sempre meno becchime. / Rivanno via i galli e l’operazione di conta ancora dura”. Il richiamo del pollame in altre zone delle Marche, scrive Claudio Principi, avveniva con un altro intercalare: “A Matelica, il richiamo suonava con un curì- curì- curì, mentre ad Osimo si diceva, bicche- bicche- bicche, e a Portorecanati bì- bì- bì- bibine- bibine” (Ibidem, pag. 31).
Li Vicinati (I Vicini)
Nella cultura contadina di tanto tempo fa un posto di rilievo era riservato ai vicinati. Oggi si è individualisti perché ognuno crede di bastare a se stesso. La vangatura della vigna o dei filari di viti che attraversavano i campi, la mietitura del frumento, la trebbiatura, la raccolta del granturco, la vendemmia richiedevano tante braccia da lavoro. Proprio in occasione di questi grandi lavori agricoli c’era l’usanza contadina di reciproca prestazione d’opera. Si chiamava con il termine dialettale “lu rajudu”. Era un giorno di intesa con il vicinato che veniva a prestare il proprio contributo di lavoro, oggi a me, domani a te. L’autore estende questa antica consuetudine anche in altri momenti. Ucciso il maiale e fatta la pista, c’era l’usanza di portare ai vicini di casa, soprattutto quelli che avevano poca terra, chiamati con il termine “li curtinà”, e non potevano permettersi di allevare maiali né altri animali, parti della pista fatta in casa: sanguinaccio, lardo, costarelle, salsicce. In questa operazione erano coinvolti i ragazzi. Lo ricordo bene anche se è trascorso tanto tempo. Chi non ha vissuto questa cultura non può capirlo. Peggio per lui, lu raiudu era quello che oggi viene chiamato bene comune, ma che cosa sia veramente nessuno lo sa.
“Come ce vóle ll’ójo pe’ la luma, / ccuscì per nu’ ce vóle lu rajudu: / tand’è vviro, ccuscindra se custuma / da quanno ll’òmo java i- gniru gnudo! // Anche se pòrbjo gnènde c’è scritto, / chji fa lu contadì, non g’è mmarianne: / se mmètte ll’opre, e quanno ttròa lo dritto? / Scinza rajudu, no, mang’a pparlanne. // Dònga, combà, scuprìmele le carte: / se vvulimo parlà’ de vicinati, / lu rajudu va mistu de na parte. / Fòra che in quillu, è ccasi furtunati // vedé’ li vicinati tutti quandi / jì dd’accórdu e trattasse co’ rrespéttu, / judasse con vonzènzu e ttirà’ nnandi, / e dde lo justo fàssene un congèttu” (Claudio Principi, li vicinati, pp. 51, op. cit. ) Traduzione: “Come ci vuole l’olio per la lucerna, / così per noi ci vuole l’aiuto vicendevole: / tanto è vero, questo era il costume / fin da quando l’uomo andava in giro nudo! / Anche se non c’era scritto nulla, / chi fa il contadino, non c’è scampo (madonne): / se mette gli operai, quando mai potrà venirne fuori? / Senza l’aiuto vicendevole, no, manco a parlarne. // Dunque, compare, scopriamo le carte: / se vogliamo parlare di vicinati, / l’aiuto vicendevole va tenuto in considerazione / In questo modo, sono casi fortunati // vedere i vicinati tutti quanti / andare d’accordo e trattarsi con rispetto, / aiutarsi con il buonsenso e tirare avanti, / ed è giusto farsene una ragione”.
Lucerna: un tempo l’illuminazione nelle case contadine era assicurata con il lume di coccio o di latta, alimentata con olii di scarto. I rapporti tra vicinati che si aiutavano l’un l’altro non erano regolati da nessuna carta scritta. Erano affidati alla tradizione orale. “Sem al mund per wütas”, dicevano i vecchi paisàn della Brianza contadina. Siamo al mondo per aiutarci. I paisàn erano i contadini. Anche lassù, in occasione della trebbiatura del grano o del granturco o nella macellazione della carne suina, i contadini si aiutavano a vicenda senza che ci fosse nulla di scritto. Un’altra occasione per stare insieme tra contadini era rappresentata dalle veglie nelle stalle durante i lunghi mesi invernali. L’usanza “Far filò” voleva dire discorrere del più e del meno, tra vicini di casa. Questa costumanza era assai diffusa nelle cascine brianzole che riunivano assieme sotto lo stesso tetto più nuclei familiari. Esiste tutta una letteratura che meriterebbe di essere conosciuta. Ma anche da noi, d’inverno, la stalla, dopo la cucina dove ardeva il fuoco del camino, era l’altro ambiente riscaldato dall’alito delle mucche. Ricordo che appena arrivavano i primi freddi di stagione, mio papà e mio zio sigillavano finestre e porte della stalla perché non passassero spifferi d’aria. Noi ragazzi facevamo i compiti di scuola, i grandi intrecciavano canestri di vimini o riparavano arnesi da lavoro, le donne sferruzzavano, la nonna raccontava le scantafavole. Sono ricordi incancellabili.
“Dico: mbrestasse tutto, le faméje, / fasse li cumbiméndi e li piacéri, / svagasse nzémo, spèce co’ le véje: / nzomma, cambà da vicinati veri. // Dicìa li écchji nóstri, e dicìa vène, / la vicinanza è mmènza parendèla, / ma ppiù che a li parendi ce se tène: / te scalla prima quilli, se tte jèla. // No, non fa na piega quella stima; / e ddefatti, se gghjmo a ffacce mènde. / singasu de bbesógno rriga prima / lu vicinatu, scì, de lu parènde. // E mmamma mia, per gghjonda: La Rijna, / dicia vettànama, non duvitate, / éssa pure recórre a la vicina! / parole sande, e ssèmbre recordate”( Ibidem, pag. 52).
Traduzione: “Dico: Prestarsi ogni cosa tra famiglie, / farsi i complimenti e i piaceri, / divagarsi insieme, specie con le veglie: / insomma, vivere da vicinati veri. // Dicevano i vecchi nostri, e palavano bene, / I vicinati sono una mezza parentela, / ci si tiene più a loro che ai parenti: / ti riscaldano prima quelli se hai freddo. // No, non fa una grinza quella considerazione, / difatti se facciamo mente locale, / nel caso del bisogno arriva prima / il vicinato che il parente. // E mia mamma, per giunta: la regina / diceva la benedetta anima, non dubitate, / lei pure ricorre alla vicina! / parole sante e sempre ricordate”.
Sulla macellazione della carne suina, scrive ancora Claudio Principi: “Però è na festa, è na rcurdura, via! / E ppó c’è quell’usanza venedètta / de scagnasse tra nu’, pe’ rrigalia, / m- moccó de pórcu dréndo a na cupétta: // n- tandì de grass’e- mmagro, na sargìccia, / na costarèlla, m- pizzittì de mirza / o fétucu; la ratta, m-bo’ de rìccia, / du’ cotechèlle a lardillitti a sfirza; // ma più cche atro, sango mballocato / per cunnicce scibbène la pulènda! / St’usanza vèlla, mbè, dè ddemostrato, / li vicinati pòrbjo li pparènda: // e quilli jórni de ssa rigalìa / è li jórni più bbélli che cce scìa! (p. 52-53).
Traduzione:: “Però è una festa, è una raccolta, via! / Poi c’è quella usanza benedetta / di scambiarsi tra noi, come regali, / un boccone di carne di maiale dentro ad un piatto fondo: // un tantino di grasso-magro, una salsiccia, / una costina, un pezzettino di milza / o fegato, il mesenterio, un po’ di grasso intestinale; / o due cotiche, o una filza di lardellati, / ma più che altro, sangue raggrumato e lessato / per condire per benino la polenta! / Questa bella usanza, bene, è dimostrato, / i vicinati proprio li apparente; / e quei giorni di regalie / sono i giorni più belli che ci siano”.
Dopo l’udienza
I rapporti con il padrone erano di stretta competenza del vergaro, del capofamiglia e la vergara, secondo la radicata consuetudine, non entrava mai in faccende che riguardavano solo gli uomini. L’udienza avveniva direttamente col padrone ma sovente con il fattore. Era stabilita in determinati giorni della settimana. Verteva sull’andamento dei lavori agricoli, l’allevamento del bestiame, le fiere, le vicende familiari, i programmi, le spese sostenute e da sostenere. In quei colloqui, per una ragione o per l’altra, il contadino trovava sempre il motivo di masticare amaro e di accumulare malumore e scontento dal momento che il padrone doveva sempre far pesare la sua superiorità, imporsi e angariare e impartire al proprio mezzadro ordini vessatori o scombinati, da incompetente. In alcune di queste udienze, il mezzadro doveva portare le regalie al padrone fissate nel contratto di mezzadria (Claudio principi, Dopo l’udienza, pp. 79 – 80, op. cit.).
L’incipit del sonetto è dato dalla vergara che riceve il marito, ritornato dall’udienza: “Quanno me rvène a ccasa da l’udiènza, / marìtumu sta in giurma e stralunatu, / descóre da-per-issu e sta svagatu: / je parli? Non te sènde n’accidènza! // L’urtu de nèrbi ci-à, me rvè ngacchjatu: / pista um pè, sputa e ddice: Che scjifènza! / A stu munnu c’è ssulu marvolènza; / e in quant’a lu patró: mòra mmazzatu! // Io, come ddonna, staco da na parte: / de certe frésche no’ mme mbìccio, no. / Però me dà penzé: se jjòc’a ccarte // e ppèrde?, rvène discurrènno sulu, / ma mai mattégghja! E ddònga, lu patró, / co’ ll’udiènza, me sa lu manna spulu!”
Traduzione: “Quando mio marito mi ritorna a casa dall’udienza, / è ingrugnito e ha una brutta cera / discorre tra sé e sé ed è svagato: / Gli parli? Non ti sente affatto! // E’ preso dalla nevrastenia, mi ritorna a casa incavolato: / pesta un piede, sputa e dice: che schifo! / A questo mondo c’è solo malevolenza, / e in quanto al padrone: muoia ammazzato! //. Io, come donna mi metto da parte: / di certe faccende non mi impiccio. / Però mi fa stare in pensiero: se gioca a carde / e perde, ritorna discorrendo da solo, / ma mai dà di matto! Dunque, il padrone, / con l’udienza me lo rimanda completamente ripulito (perché gli vince tutto)”.
A la Fjera (alla fiera)
La fiera del bestiame avveniva in un giorno fisso della settimana. Era un appuntamento al quale il contadino era solito andare sempre. Si informava sull’andamento dei prezzi e sul variare della domanda e dell’offerta. Era anche un’occasione per uscire dagli stretti confini del proprio campo da coltivare, allacciare rapporti con amici, bere qualche buon bicchiere di vino in loro compagnia in qualche cantina. Si aveva anche l’opportunità di contattare carradori, costruttori di birocci, il calderaio, il castrino, il bottaio, il vivaista, insomma tutto il variegato mondo della fiera. Quando si ritornava a casa si era coscienti di aver comunque imparato qualcosa. Si imparava a stare alla larga di ciarlatani, impostori e imbroglioni.
Era quindi utile andarci perché si faceva esperienza di uomini e cose che potevano essere importanti nella vita: “…Certo che cce se svaga, / ma c’è da dì’ che cchji ci-à testa mbara, / a ffòrza de sindinne de gni sòrta: / li discursi repaga, / te fai tando più ‘ccòrtu, quest’è cchjara. / e ppó, per falla corta, / fa vène a stà’ ttraménzo a ttanda jènde, / ché a stà’ ssulu dovèndi malamènde. // Prima de rvinì vvia, / fa pure vè na scòrsa a lu varbjère / per fasse dà’ na bbèlla scapecciata; / m’anghi ce la vurrìa / na scappatella llà lu candinére, / e llì pòrca mbestata! / con quarch’amicu fa ‘m- moccò sardèlla: / allóri, scì, che ffai na fiera vèlla” (Claudio Principi, alla fiera, pp. 242, op. cit.).
Traduzione: “Certo che ci si svaga, / ma c’è da dire che chi ha la testa impara, / a forza di sentirne di ogni sorta: / i discorsi ripagano, / diventi più accorto, questo è chiaro / e poi, per farla corta, / fa bene stare in mezzo a tanta gente, / perché a star solo diventi malvagio. / Prima di ritornare via, / fai pure una scappatina dal barbiere / per farsi tagliare i capelli in maniera radicale, / ci andrebbe bene anche una scappatella in cantina, / e lì Era un giorno di intesa con il vicinato che veniva a prestare il proprio contributo di lavoro, secondo l’antica usanza de “lu raiudu“, oggi a me, domani a te. perdiana! / con qualche amico mangi una sardella. / allora, sì, che sei stato ad una fiera bella”.
A lu mulì (al mulino)
Un altro ambiente frequentato dal contadino era il mulino. Il pane veniva fatto in casa quasi ogni settimana, ecco perché si aveva sempre bisogno della farina fresca. Il pagamento per la macinazione dei cereali, grano o granturco, consisteva nel cedere al mugnaio una parte di farina, invece del denaro. Questa forma di compenso era chiamata la mulènda. Altri due personaggi tipici frequentavano il mulini, oltre ai contadini. Erano lu farinéllu e lu battaréllu. Il primo si limitava a trasportare partite di cereali alla macinazione per conto di fornai, pastai e grossi proprietari terrieri che preferibilmente usavano pagare la molitura in denaro. Il secondo si incaricava di raccogliere e portare alla macinazione piccoli quantitativi di cereali per conto terzi, per lo più artigiani che pagavano a cottimo o famiglie del popolo minuto che erano riuscite a racimolare cereali, attraverso la questua, la spigolatura dei campi, le remunerazioni in natura per prestazioni varie. Interessanti erano i rapporti esistenti tra il mugnaio e i contadini, che lavoravano i terreni confinanti con il vallatu, cioè con la roggia che riforniva di acqua il mulino. Questi ultimi spesso sottraevano furtivamente l’acqua che serviva loro per irrigare il terreno o per lavare i panni (la cura dei panni).
Proverbiale era poi la diffidenza che il contadino aveva verso il mugnaio: “…Comme s’è dditto sèmbre: Molenà / da la farina vianga, / co na mà ppesa, con quell’atra rramba, / e: molenà da la vianga farina, / co’ na mà ppesa, e ll’altra mà rambina!”. “Come è stato sempre detto: mugnaio dalla bianca farina, / con una mano pesa, e con l’altra ruba”. Continua ancora il nonno, rivolto al nipote: “E ppó: Recordete, dicìa de jónda: / sta’ ccórtu e … vista prónda!, / ch’ài da sapé. Quaranda molenà, / quaranda macellà e cquaranda osti, / fa cendovéndi latri justi justi!”. Poi. Ricordati, diceva in aggiunta: / stai attento e vista acuta, / perché devi sapere che quaranta mugnai, quaranta macellai e quaranta osti, / fanno centoventi ladri giusti giusti.
Le raccomandazioni della benedetta anima del nonno non finivano qui: “Magara je reccomannava pure: / tièndi jóppe a la gabba; / tìrala vène, sa’, la martinicca! / Oho, dico. Gna che ffréni, e ddónga fréna, / ché vai carcu e … lo vasso te se ticca! // Lu contadì se ne recórda sèmbre, / e vva pe’ lu mulì, / quella matina présto de noèmbre, / rpenzénno a quill’avvisi e quelle lagne, / e um-bo’ je vè de rride e m-bo’ da piagne” (Claudio Principi, al mulino, pp. 258- 260, op. cit.). Traduzione: “Magari gli raccomandava anche: / trattieniti giù per la discesa, / tira bene la martinicca! / Oh! Dico, bisogna che tu freni, dunque frena, / perché vai carico e la pendenza ti attira verso il basso! // Il contadino se lo ricorda sempre, / va per il mulino, / quella mattina presto di novembre, / ripensando a quelle raccomandazioni e a quelle lagnanze, / e un po’ gli viene da ridere e un po’ da piangere”.
La gabba è chiamata la strada stretta e scoscesa, ricoperta da ponti se urbana e da vegetazione se in campagna. La martinicca era un elementare freno a mano. Una lunga fune permetteva di tirare una leva. Quest’ultima agiva su un rullo attorno al quale si avvolgeva una catena che comprimeva i cerchioni delle ruote. “Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, e ogni stagione aveva la sua usanza e il suo linguaggio secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno” (Cfr. C. Pavese, La luna e i falò, pag. 81). Il libro Contadinate Marchigiane contiene molti sonetti legati ai grandi lavori agricoli: l’aratura del terreno (lu contadì ara), la semina (la somènda), la mietitura del frumento (lu metetò), la fienagione (lu fienatò), la potatura degli alberi (lu potatò), la raccolta del granturco (lo randurco cresce) e tanto altro. Questi lavori si distribuivano nei diversi mesi dell’anno, secondo un preciso calendario agricolo. Gli argomenti meritano altri articoli. Non era possibile mettere tutto in una sola volta. Altri sonetti rimandano alle riflessioni proprie del contadino, alla sua visione della vita sempre in bilico tra l’accettazione supina del proprio destino e il desiderio di riscatto. Tutto questo sarà materia di altri piccoli contributi.
Raimondo Giustozzi
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