di Alex Giuzio
Per l’ennesima volta negli ultimi tredici anni, la politica italiana non è stata in grado di concludere una riforma delle concessioni demaniali marittime, quelle cioè su cui insistono migliaia di piccole e medie imprese fra stabilimenti balneari, porti turistici, ristoranti, campeggi, ormeggi e altre attività situate lungo i circa ottomila chilometri di coste italiane. Quello di Draghi è stato l’ottavo governo – dopo Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2 – ad avere rimandato la soluzione a chi verrà dopo, lasciando nel limbo la gestione di una risorsa pubblica complessa, fragile e preziosa, che finora è stata regolamentata in modo approssimativo e frammentario. Si tratta di un tema tanto ostico quanto importante (per una trattazione più ampia rimando al libro La linea fragile, appena pubblicato dalle Edizioni dell’Asino), oggetto di una narrazione distorta e superficiale da parte dei mass media e dell’opinione pubblica, e che invece merita un approccio più approfondito e consapevole proprio perché riguarda un ambiente ricco di valore sia ambientale che economico, oltre che esteso tutto intorno alla nostra penisola.
Le ragioni del riordino delle concessioni demaniali marittime
In Italia la concessione demaniale marittima è stata concepita come un patto fra lo Stato e il privato imprenditore: a fronte di un canone calmierato, il concessionario è obbligato a farsi carico della cura di una porzione di bene pubblico per conto dello Stato (pulizia, sicurezza, manutenzione, eccetera), traendone in cambio un guadagno attraverso l’attività di accoglienza e ristorazione. Quella italiana è una modalità di gestione dei litorali unica al mondo, dal momento che in tutti gli altri paesi i costi per la manutenzione e la pulizia delle coste sono di competenza dell’amministrazione pubblica e i concessionari pagano canoni più alti e sono in numero ridotto. Il modello italiano, che si è diffuso a partire dal secondo dopoguerra, ha invece generato il proliferare di una grande quantità di imprese private lungo i litorali, dando vita a un sistema turistico molto peculiare in termini di peso economico e di impatto antropico. Tuttavia, in seguito alla direttiva europea “Bolkestein” del 2006 sulla liberalizzazione delle concessioni, si è generato un dibattito dovuto al fatto che tali imprese private beneficiano di una risorsa collettiva come la spiaggia, che secondo il diritto comunitario dovrebbe essere oggetto di periodici bandi pubblici per la sua assegnazione a privati.
Nel nostro paese, invece, grazie alla legge 88/2001 vigeva il regime normativo del “rinnovo automatico”, che prevedeva la riassegnazione della concessione ogni sei anni al medesimo titolare. Nel 2010 l’ultimo governo Berlusconi ha frettolosamente abrogato la legge sul rinnovo automatico per adeguare la normativa italiana alla direttiva Bolkestein, senza sostituirla con un altro sistema di gestione delle concessioni che si assumesse il difficile compito di conciliare l’esistenza di migliaia di imprese private con l’obbligo di mettere a bando il suolo pubblico su cui sono sorte. E nemmeno i successivi governi lo hanno fatto, limitandosi ad approvare varie proroghe ex lege per allungare la durata delle concessioni esistenti (prima fino al 2015, poi al 2020 e infine al 2033) e prendersi tempo per lavorare a una riforma organica che però non è mai arrivata.
La situazione è precipitata a novembre 2021, quando il Consiglio di Stato ha annullato la validità dell’ultima estensione al 2033 e proibito qualsiasi ulteriore proroga, poiché anche questo meccanismo ha rappresentato una forma di rinnovo automatico al medesimo titolare, pertanto in contrasto col diritto europeo. Per evitare gli effetti devastanti che avrebbe comportato l’immediata decadenza di tutte le concessioni, in quanto migliaia di imprese si sarebbero trovate da un giorno all’altro con un titolo scaduto in mano e prive del diritto a continuare il proprio esercizio, Palazzo Spada ha anche stabilito che i titoli in essere potessero restare validi fino al 31 dicembre 2023, ma che entro tale data dovranno essere stati oggetto di bandi pubblici. In questo modo il governo Draghi è stato di fatto costretto a intervenire con una riforma organica del settore, che lo scorso febbraio il consiglio dei ministri ha deciso all’unanimità di inserire all’interno del disegno di legge sulla concorrenza.
I contenuti della riforma Draghi
Recependo le disposizioni del Consiglio di Stato, la riforma del demanio marittimo proposta dal governo Draghi prevede l’istituzione delle gare pubbliche sulle concessioni entro il 31 dicembre 2023 con il riconoscimento di un indennizzo economico per il titolare uscente a carico del subentrante. Su quest’ultimo aspetto, tuttavia, si è acceso un intenso negoziato tra le forze politiche di maggioranza, fra chi voleva concedere l’indennizzo solo sugli investimenti non ammortizzati e chi invece chiedeva che venisse calcolato sull’intero valore aziendale.
Tre mesi di dibattito non sono bastati ai parlamentari per trovare una linea comune, facendo tardare l’approvazione dell’intero ddl concorrenza che però era obbligatorio votare entro la fine di maggio, poiché contiene altre riforme vincolanti al fine di ottenere dall’Europa i fondi Pnrr (anche se tra queste non rientrano le spiagge, al contrario di ciò che hanno fatto credere i media generalisti). Per uscire da uno stallo che non si riusciva a risolvere, la politica ha deciso la strada più facile, quella cioè di rinviare al successivo decreto attuativo la definizione dei criteri per il calcolo dell’indennizzo, dimostrando ancora una volta di non essere in grado di prendersi la responsabilità di legiferare sulle materie più urgenti e complesse che riguardano il paese. Ciò significa che ancora per qualche mese non sarà definito l’aspetto più nodale della riforma, su cui si dovranno basare le procedure di gara: di conseguenza gli attuali titolari di stabilimenti balneari non sapranno in quanto consisterebbe l’indennizzo che spetta loro per la perdita della propria azienda in caso di passaggio di mano del titolo e, soprattutto, le amministrazioni comunali (a cui per legge spetta la gestione delle concessioni demaniali marittime) avranno pochissimo tempo a disposizione per scrivere ed espletare migliaia di bandi applicando i criteri che dovranno essere definiti dal decreto attuativo. A questo proposito, però, il ddl concorrenza concede un anno di deroga in più (ovvero fino al 31 dicembre 2024) ai Comuni che dovessero dimostrare difficoltà oggettive a organizzare le gare entro la fine del prossimo anno.
Rinviare non è più possibile
Il futuro di ottomila chilometri di coste italiane dipende da una riforma che il paese attende da troppo tempo, e che non riguarda solo migliaia di piccole e medie imprese familiari prive di certezze sul proprio destino, ma anche un ecosistema esposto più di altri alle conseguenze del riscaldamento globale di causa antropica. Eppure, la politica non si è dimostrata sensibile e responsabile né davanti a una situazione precipitata dal punto di vista normativo in seguito alla sentenza del Consiglio di Stato, né tantomeno davanti all’innalzamento del mare che sta divorando le spiagge italiane e che imporrebbe delle forme di arretramento gestito dei manufatti in prima linea sulle coste in erosione.
Non c’è migliore occasione del necessario riordino complessivo delle concessioni demaniali marittime per introdurre le innovazioni normative di cui le coste italiane hanno bisogno, ma per farlo occorre uscire dall’avvilente dibattito pubblico che finora ha dipinto tutti i concessionari balneari come dei ricchi privilegiati e usurpatori e che ha invocato una generica liberalizzazione, senza preoccuparsi del rischio che un’apertura del mercato priva di un’adeguata regolamentazione statale possa comportare l’ingresso del capitalismo globale anche lungo le spiagge italiane. Posto che con la riforma Draghi non si sta parlando di “liberare le spiagge” dagli stabilimenti balneari, bensì solo di sostituire gli attuali titolari con altri, riassegnare le concessioni tramite evidenze pubbliche deve significare dare la possibilità, agli imprenditori che finora hanno gestito la loro porzione di litorale in modo virtuoso, di dimostrarlo passando dai bandi in modo da riottenere la concessione di un bene collettivo per merito e non più per diritto acquisito, e al contempo allontanare chi finora ha lucrato senza investire né prendersi adeguata cura della risorsa su cui si sono basati i propri introiti, per poter lasciare il posto a imprenditori più validi oppure alla spiaggia libera. Ma è fondamentale che le gare non diventino procedure al rialzo economico o basate sulle leggi del mercato globale, che significherebbe dare in pasto anche questo pezzo di patrimonio pubblico ai grandi capitali anziché preservare l’esistenza di piccole e medie imprese di tipo familiare. Ed è altrettanto importante introdurre nuovi vincoli ambientali per limitare l’impatto delle strutture che insistono sulla fragile linea di costa, un ecosistema in costante mutamento che l’uomo deve rispettare se vuole continuare a godersi i vantaggi di viverci, anziché farlo adattare alle proprie esigenze antropiche come fatto finora. Ma questa sembra una consapevolezza non ancora abbastanza diffusa nella nostra classe politica, che sta continuando a non decidere il destino delle coste italiane.
Sul tema delle coste italiane, Alex Giuzio ha recentemente pubblicato con le Edizioni dell’Asino La linea fragile. Uno sguardo ecologista alle coste italiane: un’inchiesta sui litorali italiani, vittime di abusi edilizi, turismo di massa e distruzione ecologica.
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