Raimondo Giustozzi
‘Na storia, ‘na città (una storia, una città) è il secondo libro di poesie di Sandro Bella, pubblicato nel 1991. E’ un vero poemetto dedicato alla storia di Civitanova Marche, con settantadue sonetti in versi endecasillabi, distribuiti in venticinque paragrafi, legati in modo magistrale l’uno all’altro dalla narrazione sempre briosa. Ci si accorge di passare da un argomento all’altro solo perché si gira la pagina. Le illustrazioni del pittore Tonino Ferrajoli costituisco un valore aggiunto al libro. Le note a piè di pagina aiutano il lettore a districarsi nella comprensione di termini e espressioni dialettali oggi desuete, proprie di un mondo che non esiste più nella realtà quotidiana.
Il luogo dove nasce la storia è la cantina, frequentata da gente di mare, che, dopo la pesca o aver rammentato a terra le reti, amano ritrovarsi per una partita a carte, di quelle che hanno il bordo consunto e un po’ ingrassato. Al tavolo si ritrovano Vingè (Vincenzo), lo calafato, il carpentiere, lavoratore nei cantieri navali della città, Maretto, pescatore. ‘Ngiulì de Pimpinella, altro pescatore, entra nel locale e annuncia ai due il ritrovamento, presso il mulino americano, della tomba di un antico romano:“ Ma rispunnìa Vingè, lo più ‘gnorande: / Che… Roma… non ci- aia lo cimitero? – / Maretto, invece, senza dinne tande, / Boh, che tte saccio! Adé per me u’ mistero!” (Sandro Bella, ‘Na Storia, ‘Na Città, vicende civitanovesi in vernacolo, pag. 17, Civitanova Marche, 1991).
Traduzione: “Ma rispondeva Vincenzo, il più ignorante: / Roma non aveva il cimitero? – / Maretto, invece, senza dirne tante, / Boh, che ne so! E’ per me un mistero”. Ma in cantina si trova anche Lucètto, “lo scalande”, persona addetta al varo e al ritiro delle barche, amico dei due. Anche lui è un uomo di mare, ma a differenza di Vincenzo e di Maretto è uno che ama raccontare e mettere in versi la storia della propria città, narrandone avvenimenti e personaggi del passato e del presente. Si mette allora a raccontare. Roma amministrava anche il territorio di Civitanova Marche e quello dei dintorni, unendosi ad altri popoli, Piceni e Sabini. La storia bisogna conoscerla, dice ai due amici: “Per sapere, bisogna aver studiato. La storia, amici miei è la storia. E sapeste quanto poi è bella. Però ci vuole passione, ci vuole memoria”. Lucetto, il narratore interno alla storia, è Sandro Bella stesso che diventa cantastorie. Dopo i primi due sonetti, distribuiti nei paragrafi, Su una cantina degli anni sessanta e l’impero romano, incomincia la storia. Questi gli altri ventitré paragrafi:
‘Ngumingia la storia (Inizia la storia), Li Piceni (i Piceni), Romani e Piceni condro addri popoli (Romani e Piceni contro altri popoli), la città de Cluana (la città di Cluana), li varbari e la fine dell’impero romano (i barbari e la fine dell’impero romano), Vicus Cluentensis (villaggio del Chienti), la fine de Cluana (la fine di Cluana), Civita – Nova (Civitanova), combattimento tra Civita – Nova e Fermo, Li Feudi (i feudi), Li Portesi (gli abitanti del Porto), la Monarchia, Lo comune a parte (la richiesta di autonomia), la vetreria, la separaziò (la separazione), la prima granne guerra (la prima guerra mondiale), la fusiò de li du comuni (la fusione dei due comuni), Civitanova Marche, la seconda guerra mondiale, lo tranv (il tram), lo Porto dopo la guerra (il Porto dopo la guerra), Lucétto lo scalante (Lucetto lo scalante), Civitanova Marche ogghj (Civitanova Marche oggi).
Dall’unione di popolazioni diverse continua Lucetto, il narratore, nasce la città di Cluana. Piceni, Sabini, Greci e Romani trovano il posto molto importante per alimentare commerci nella direzione nord – sud e verso l’interno. In cantina è presente anche il nipote di Lucetto. E’ dietro al bancone per distribuire bicchieri di vino. Dice all’indirizzo dello zio: “’Na fresca zì’ Lucé’ !… ce ccimmendéte?! / Va vè’ che ssète un vrào converenziere, / ma… pure lo latino addè sapete?” (Ibidem, pag. 34). Traduzione: “Perbacco, zio Lucetto!… Ci provocate?! / Va bene che siete un bravo conferenziere, / ma anche il latino conoscete?”. Lucetto, dopo aver bevuto un altro bicchiere di vino continua nel racconto, parlando di Cluana che era allora una bella e grande città: “Città tranguilla, – dice lo scalande e pjna de venèssere e ricchezza, / Cluana, che sse d’dèra ghjà ‘m-bo’ ‘vvezza, / a divendà’ po’ sembre più ‘mbortande. // Scì, c’era quarghe òrda che virbande / de ‘n-approfottatore, o che gaézza, / che cumbinava quarghe scorrettezza, / frechènne, i’ mmalo modo, che mercande. // Ma… pègghjo angò’ se ccapitava èllo, / e sembre de trafùgo, che corzaro, / Dio ce ne scambi!… A succidìa u’ mmacèllo!!! / però, più o meno tutti era condéndi / de trafficà’ via terra o pe’ via maro, / o pe’ ‘’lla foce de ‘llo fiume Chjendi” (Ibidem, pag. 35).
Traduzione: “Città tranquilla, – dice lo scalante e piena di benessere e ricchezza, / Cluana era già abituata fin da allora, / a diventare poi sempre più importante. // Sì, c’era qualche volta qualche birbante / di un approfittatore, o qualche canaglia, / che combinava qualche scorrettezza, / derubando, in malo modo, qualche mercante. // Ma… peggio ancora se capitava lì, / e sempre di nascosto, qualche corsaro. / Dio ce ne scampi!… / Succedeva un macello!!! / però, più o meno, tutti erano contenti / di commerciare via terra o via mare, / o per la foce del fiume Chienti”.
Cluana nella storia
Insomma, Civitanova Marche, dice Sandro Bella era destinata a diventare fin dalle prime origini una città importante. Il sito dove sorgeva Cluana era sul mare. Pomponio Mela scriveva “In ora Cluana”. Sulla spiaggia c’è Cluana. Plinio il Vecchio (23 – 79 d. C.), in una descrizione della V Regio nel Piceno, fatta per conto di Augusto, la pone lungo il litorale tra Potentia e Castellum Firmanorum. Cluana era situata all’incrocio tra la bisettrice di valle che entrava all’interno del territorio, lungo la vallata del Chienti, Cluentus per i Romani, flusor per i Greci, attraverso la via romana “Via antiqua quae venit a mare” e il diverticolo della Salaria Picena, direzione Nord – Sud. I commerci avvenivano via mare ma anche via terra, attraverso le due strade romane. Un’altra via per il commercio era rappresentata dal fiume Chienti navigabile fino all’altezza di San Claudio o meglio fino a Sarrocciano.
Sull’origine di questo toponimo, la vulgata più accreditata fa risalire il nome al latino sorex soricis, topo. Sulle rovine di un’antica villa romana nacquero delle grandi querce. Le loro ghiande, alimento per i maiali ma anche per i topi di campagna, attirarono i roditori in numero impressionante. Si sa che in dialetto i topi vengono chiamati “surci” o “surici”, da qui il nome Surriciano, Sarrocciano. Nei documenti medievali si parla sempre di Surriciano. Altri studiosi invece ritengono che l’origine del nome è da attribuirsi ai Saraceni, popolazioni piratesche che risalivano il fiume Chienti, navigabile fino all’altezza di San Claudio. A Sarrocciano esisteva un piccolo porticciolo di barche che scendevano fino al mare lungo il Chienti.
Tombe romane sono state rinvenute nel territorio comunale di Civitanova Marche. Una tomba a cappuccina è ben visibile all’interno della Scuola Media Luigi Pirandello di via Saragat. I resti di questa tomba vennero ritrovati nei pressi del ristorante Orso di Civitanova Marche, nel corso di alcuni lavori. Altri reperti di epoca romana, mosaici e tombe, sono stai rinvenuti durante lo sbancamento per la costruzione del sottopasso ferroviario di via Buozzi nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso. Sistemati provvisoriamente in diversi luoghi, ultimamente presso alcuni spazi esterni depuratore comunale, saranno trasferiti poco lontano da dove sono stati dissotterrati. E’ di questi giorni la notizia che saranno messi accanto al vecchio tornio per sale montate dell’ex fabbrica Cecchetti, in uno spazio di proprietà comunale in attesa di una nuova sistemazione. Si spera in un museo di cui si è parlato più volte.
Proprio all’incrocio fra la litoranea “Salaris Piceno” e la “Bisettrice di Valle” era situato un Compitum (area delimitata come spartitraffico) su cui era posto un Crepido, basamento con colonne e tetto contenente un Sacello dedicato ai Lares Campitales (divinità protettrici dei viaggiatori venerate negli incroci sia in campagna che in città). L’edificazione di un Campitum indica l’adeguamento del centro abitato ad una esigenza funzionale di uso pubblico, che eleva tale luogo a Municipium. Del Campitum si parla in una lapide su cui è riportata la notizia della costruzione eseguita da Filonico, servo di Lucio Ottavio di Preneste, che fece dalle fondamenta quest’opera. Il marciapiede intorno e l’ultimazione del tetto si devono alla generosa elargizione di denaro di Suprema Pola, forse donna del posto, moglie di Lucio Ottavio che voleva lasciare così un tangibile ricordo ai suoi concittadini.
Lo spazio, dove era collocato questo Campitum, può essere individuato nel grande quadrivio di San Marione, rotonda con al centro l’albero della vita. Ma per Cluana e per altre città romane del Piceno arrivano giorni tristi. Popolazioni diverse premono ai confini dell’impero romano e mettono tutto a soqquadro. Goti, Visigoti, Vandali, Unni chiamati sbrigativamente barbari scardinano le difese romane. Alarico, capo dei Goti, mette a ferro e fuoco Cluana.
“Je se dicìa Alarico a cussù èsso, / e Rre… de ‘n-accidènde che je spacca, / a isso e a tutti quandi ll’Unni appresso. // ch’adèra fatto fa’ ‘sso quarandotto. / Ll’Imbero, che vattìa ghjà ‘m-bo’ de fiacca, / dopo de quèssi fatti… adèra cotto! // Adèra vèll’e cotto e cucinato, / che addri varbari ghjà s ‘pprofittìa / a ccalà’ ghjò ‘gni tando; e ddo’ passìa, / non ce rmanìa nemmango u’ n-ga’ ‘rrabbiato. // E quelli de Cluana, che fugghjìa / su ‘n- gima de ‘llo vòrgo ricindato, / in tandi, su dda capo, se sarvìa; / ma… chj no’ n-zèra u’ m-bòco spiritato? // Ch’appò’ nemmango s’era rifugiati, / su ppe’ ‘sso vòrgo ‘n- gima a ‘lla cullina, / che… sùbbeto, statìa ghìà rilassati. // E je piacìa ‘sso posto tando vèllo, / perché guardìa jò vèrzo la marina; / cuscì… se conzolava u’ mmoccongèllo” (pagg. 40- 41).
Traduzione: “Gli si diceva Alarico a questo qui, / Era re, gli prendesse anche un accidente, / a lui e a tutti gli Unni che gli sono venuti appresso // aveva combinato tutto quel quarantotto. / L’impero, che batteva già la fiacca, / dopo questi fatti era già cotto! // Era bello e cotto e cucinato, / che altri barbari già si approfittano / a scendere giù ogni tanto, dove passavano, / non ci rimaneva nemmeno un cane arrabbiato. // Quelli di Cluana fuggivano / su in cima del borgo recintato con le mura, / in tanti si salvavano su in alto, / ma… chi non si era un poco impaurito? // Si erano poi nemmeno rifugiati, / su per questo borgo in cima alla collina, / che… subito, si erano già rilassati. // Il posto tanto bello piaceva a loro, / perché guardava giù verso la marina, / così… si consolavano un pochetto”.
Vicus Cluentensis (Villaggio del Chienti).
L’esistenza di un vicus, piccolo villaggio, abbarbicato nella parte più alta di Civitanova Alta, attorno alla fortezza del Girone, secondo alcuni coevo a Cluana, è confermata da un’epigrafe, scolpita in una lunga lastra di pietra, un frammento della quale fu rinvenuto nell’800 appena fuori Porta Marina (Civitanova Alta) e che è ora murato e visibile nell’atrio del palazzo che è sede della Delegazione Comunale di Civitanova Alta, in piazza della Libertà. L’epigrafe, distribuita su due righe dice: “Rior Vici Cluentensis vetustate dilapsum / Ius Ruffinus ed Iustus impendio suo recuraverunt”. Rior sta per superior e inferior (sopra, sotto). La lapide parla di due privati cittadini: Ius, Ruffino e Iustus, riedificarono a loro spese, un edificio del Vicus, tale azione benemerita, tanto da meritare una targa ricordo, dimostra l’importanza che doveva avere questa costruzione. Dall’esame dei caratteri latini si ritiene che l’epigrafe possa datarsi tra il I secolo a. C. – 50 d. C.
Il nipote di Lucetto chiede allo zio come si chiamasse questo nuovo borgo: “Ma a u’ n- tratto, lo nepòte, sbòtta e ffa: / – Se po’’ sapé’, zì’ comme se chjamava / ‘sso vòrgo tando vèllo che cce stava?- / Ah, ci hai rasciò’ nepò’,… no’ n-te ‘rrabbià’, // ch’adèsso te lo dico, purassà’! / Lo nome ‘dèra Vicus, ma ce java / ‘n- andro nome appresso, che sse jondàva / co’ quello che ssò ditto pòco fa. – // Ma ‘dèra ppo’ Vingè’ che sse ‘nzardìa / u’ m-bòco a ddì’: – Se ssò ccapito vè’, / me pare… Vicuse, che sse chjamìa? – // Vingè’ Pòstà che mae la dici justa? / Se dice Vicus, e senza quella E! / – … Sarà ssuscì Lucè,… ma no’ mme gusta!” (Ibidem, pag. 45).
Traduzione: “Ma ad un tratto, il nipote, sbotta e fa: / – Si può sapere, zio, come si chiamava / questo borgo tanto bello che stava là? – / Ah, hai ragione, nipote,… non ti arrabbiare, // che adesso te lo dico, ci mancherebbe altro! / Il nome era Vicus, ma ci andava / un altro nome appresso, che si giuntava / con quello che ho detto poco fa. – // Ma c’era poi Vincenzo che si azzardava / un poco a dire: – Se ho capito bene, / mi sembra… Vicuse, si chiamava? – // Vincenzo! Possibile che non la dici mai giusta? Sarà così Lucetto… ma non mi piace!”.
Ti piaccia o no, le cose stanno così, continua Lucetto, rivolgendosi a Vingè. ‘Ngiulì de Pimpinella non regge più al racconto: “’Ngiulììì !!! / Che fai te ppénnechi? Ma che facémo? // e svéjete! Non vòli più sindì’? / Toh, vèelo tu… c’è ‘sto vècchjé’ de vì’!”. “Angelo! Che fai, ti appisoli? Che facciamo? // Non vuoi più sentire? / Tieni, bevilo tu, c’è questo bicchiere di vino”. Richiamato all’ascolto Angelo, Lucetto continua nel racconto della guerra tra Goti e Bizantini. Era una guerra che non finiva mai. La carestia faceva poi la propria parte. Si viveva nella precarietà più completa fino all’arrivo di Narsete, un condottiero bizantino, che sconfiggeva (sderazzìa) gli ultimi re goti, conquistando l’Italia per conto dell’imperatore. Cluana, città posta sulla spiaggia, non esisteva più. Era andata tutta distrutta. Assieme a Cluana, anche Urbisaglia e Potenza conobbero la stessa sorte. La storia è scritta nelle pergamene dice Lucetto. Non c’è niente di inventato. Le fonti storiche parlano “ango de Urbisaja e dde Potenza, / che era gròssi cendri, ma ‘m-bo’ dèbboli / pe’ difènnese de quella dilinguenza. // Chjsà quand’anni po’ ch’adè passati / de ‘ssi tèmbi? Un sécolo… du’ sécoli… / e chj lo sa! Gnisciù l’ha mae condati!”. Le fonti storiche parlano “anche di Urbisaglia e di Potenza, / che erano grossi centri, ma un po’ deboli / per difendersi da quella delinquenza. // Chissà quanti anni sono trascorsi / di quei tempi? Un secolo… due secolo… / e chi lo sa! Nessuno li ha mai contati”.
Potentia e Urbs Salvia. L’Archeologia per la storia
L’archeologa Federica Erbacci teneva nella sede dell’Archeoclub di Civitanova Marche, Sabato 25 novembre 2006, una dotta conferenza sull’origine, lo sviluppo e la decadenza della colonia romana posta nella bassa valle del Potenza: l’antica Potentia, come veniva definita nella tavola Peutingeriana e nelle fonti letterarie: Tito Livio e Cicerone.
Gli scavi archeologici effettuati, con una certa sistematicità negli ultimi quarant’anni, hanno confermato quanto già veniva detto da Tito Livio: “In quel medesimo anno furono fondate due colonie: Potentia nell’agro Piceno e Pesaro nell’agro Gallico”. Quell’anno è il 184 a. C. I fondatori: i triumviri Labeone, Fulvio Flacco e Fulvio Nobiliore. In un suo intervento in Senato, Cicerone affermava: “Ricordatevi di quel fatto… di un terremoto orribile avvenuto a Potenza nell’agro Piceno, insieme ad un gran numero di fenomeni spaventosi”. Gli scavi iniziati a partire dal 1982 e che continuano anche oggi, hanno portato alla luce un tempio dedicato a Giove ed un portico che lo cingeva tutto attorno. Nella zona nord del sito è stata evidenziata la presenza di ceneri, carboni e frammenti di materiali ceramici attribuibili alla metà del I secolo a. C. Si sa che nella costruzione delle case romane veniva utilizzato molto il legno e l’illuminazione era garantita dalle lucerne, ecco perché le case romane, in occasione di un terremoto, tutto veniva bruciato e seppellito dalla cenere.
Il terremoto è del 56 a. C. Ma la popolazione non abbandona la città, anzi è certo che vi rimane, ricostruisce e adatta a nuovi usi strutture preesistenti e questo fino al II secolo d. C. Un periodo di crisi è registrato nel III secolo d. C. L’età compresa tra la fine del III e il IV secolo, senz’altro la città conosce un periodo di ripresa delle attività agricole e commerciali. Anche nel corso della guerra greco- gotica, a Potentia la vita continua nonostante il silenzio delle fonti letterarie, sono infatti di questo periodo lucerne e ceramiche di provenienza africana, attribuibili al VI secolo. E’ dal VII secolo d. C. che non si hanno più notizie della città, questo perché ormai la popolazione, persa la speranza di migliorare la propria condizione, dopo anni di sacrifici inauditi, per gli impaludamenti della linea di costa, decide di spostarsi sulle alture, fondando altri centri, come è accaduto ad altre città costiere.
La colonia romana di Potentia doveva avere un’estensione di circa 162.000 mq totali, delimitata ad Ovest dall’attuale tracciato della A14, a Sud dalla bisettrice di valle del fiume Potenza, che risaliva ad altre città dell’interno: Ricina (Macerata), Trea (Treia), Septempeda (San Severino Marche), Prolaqueum (Pioraco), ad est dalla linea di costa, a nord dall’attuale agglomerato a sud di Porto Recanati, dove sono stati rinvenuti i resti di una necropoli. La città fu fondata dal nuovo, come scrive Tito Livio. I cittadini erano Romani ai quali era stata assegnata una porzione di terra da coltivare, corrispondente a sei iugeri, circa un ettaro e mezzo. Altri cittadini erano dediti al commercio via Mare, con la Dalmazia e con la Grecia. Reperti archeologici, come una pisside a vernice nera, suggeriscono la presenza in città di una famiglia molto ricca, quella degli Oppi, banchieri e negoziatori, che saranno presenti al Auximum (Osimo) ma che hanno avuto contatti anche con la vicina Porto Sant’Elpidio. Infatti, nel corso dei lavori riguardanti la sistemazione di Villa Murri sono state scoperte delle epigrafi che recano il nome di questa famiglia. Il terreno era fertile ed in prossimità del fiume Potenza che all’epoca dei Romani era senz’altro navigabile per lungo tratto verso l’interno, come nel caso di altri fiumi delle Marche. Gli scavi hanno per il momento riportato alla luce il tempio di Giove di cui è visibile solo il podio di base della costruzione, circondato su tre lati da un portico con colonne. Una colonna è stata restaurata del tutto ed è l’unica che spicca in mezzo a tutta l’area, visibile anche dalla strada statale, sulla destra, poco dopo l’abitato di Porto Recanati. Il comune di Porto Recanati, conscio dell’enorme importanza dei ritrovamenti archeologici, ha dedicato nel 2001 una intera mostra alla antica città romana di Potentia, uscendo anche con pubblicazioni di diverso tipo anche fuori dai confini locali e regionali, portando i ritrovamenti rinvenuti in Germania, in una cittadina gemellata con il comune marchigiano.
Urbs Salvia, come Cluana, come Helvia Recina, Pausola, Settempeda. Muoiono alla romanità e rinascono medievali: Urbisaglia, Cluentensis Vicus, Macerata, Corridonia, San Severino. Passa come una raffica di tragedia la guerra gotica lungo tutta la valle del Chienti, del Potenza e del Fiastra. Alarico conquista l’antica città di Urbs Salvia, già fiorente centro romano e la rade al suolo nel 410. Secondo quanto ha lasciato scritto Procopio di Cesarea, la guerra gotica avrebbe causato nella sola invernata del 538 d. c. la morte di non meno di cinquantamila persone, lungo il territorio del Chienti; non meno dura fu la dominazione longobarda.
I marmi policromi dell’antica Urbs Salvia testimoniano una ricchezza di traffici e di commerci della città che contava allora trentacinque mila abitanti, più grande quindi di Pompei. “Ad oggi, solo un ettaro circa dei sessanta occupati dalla città antica, è stato scavato” (Cfr. Catalogo della mostra Antiqua Frustula). Questi frammenti ci parlano quindi di mercanti che avevano contatti con il lontano oriente, ma con tutto il mondo allora conosciuto e di una città opulenta che voleva decorare i propri edifici pubblici con i marmi più ricercati ed in voga a Roma. Le epigrafi ci raccontano di mariti, di mogli e della durata della loro vita coniugale. Fa tenerezza tutto questo. Le anfore recano il bollo del proprietario dell’officina. Le pedine testimoniano come anche nella colonia picena fossero diffusi e praticati i giochi da tavolo, antesignani del nostro “filetto” o “fila tre”. I frammenti di piatti, di lucerne, gli orli degli unguentari, le maschere, le chiavi a scorrimento o a mandata, i cucchiai, i sigilli o punzoni decorativi, gli strumenti chirurgici, di cosmesi e d’uso domestico, come le fibule e le monete, tutto testimonia la vita materiale dei nostri lontani progenitori. Ed è con questo spirito che ci si deve avvicinare all’archeologia. La storia è il passato nella misura in cui possiamo conoscerlo, attraverso documenti, testimonianze, fonti scritte e non: tegole, forme di campi, collari da tiro e quant’altro l’uomo ha inventato per rispondere con gli oggetti della vita materiale a quelle sfide che la natura, il territorio, le avversità hanno sempre posto. La storia non è una oggettiva ricostruzione del passato in sé concluso e dunque solo come passato :”Se il passato fosse veramente finito o morto, vi sarebbe un solo atteggiamento ragionevole verso di esso. Lasciate che i morti sotterrino i loro morti. Ma la conoscenza del passato è la chiave per capire il presente. Gli avvenimenti passati non possono essere separati dal presente vivo senza perdere il loro significato. Il vero punto di partenza della storia è sempre qualche situazione attuale on i suoi problemi” (Cfr. J. Dewey, Democrazia e educazione). I morti di questo passato lontano rivivono attraverso quello che loro ci hanno lasciato.
Civita Nova
Lucetto continua nel suo racconto. Passano i secoli, forse u’ m-bardi, un paio “Fin’ che lo Papa, Primo de Gregò’, / facìa la pace co’ li Longovardi, / ch’era calati fin’a u’ m-bèzzo i’ gnò // pe’ conquistà’, non certo pe’ rriguardi, / e ghj facènne pure… u’ m-borverò’. – / Lucetto, indando, vede se ‘dè tardi, / se ferma, e mette po’ le ma’ ‘n-zaccò’; // che ffa? Te tira fòra ‘na pippetta; / la ppiccia sùbbeto, co’ u’ n- furminande, / e ffa du’ tirate a vòcca stretta, / parlènne po’ de Papa e Imberatori, / e tutta quella jènde più ‘mbortande / ch’ha dato pòche gioje e più dolori” (Ibidem, pag. 52).
Traduzione: Finché il Papa Gregorio Primo, / faceva la pace con i Longobardi, / che erano calati fino un pezzo in giù // per conquistare, non certo per riguardi, / e andando facendo anche un polverone. – / Lucetto, intanto, vede se è tardi, / si ferma e mette poi le mani in tasca; // che fa? Tira fuori la pipa; / l’accende subito, con un fiammifero, / e fa due tirate a bocca stretta, / parlando di papi e imperatori, / e di tutta quella gente importante / che hanno arrecato poche gioie e più dolori”.
Tante, troppe sono le nozioni che Lucetto distribuisce a piene mai ai propri amici. Maretto non ci si raccapezza più e chiede: “Ma de ‘sso Vicus… no’ n-ze sa più gnè?- / Ma comme no, Maré!… Ci hai da penzà’ / ch’adèra divendato, gnènde che, / ‘na vèlla eppò’ ‘nvidiata gran città; // che tand’è vero, sembre pe’ sapé’, / a c’era angò’ lo vescovo: e sse sa / do’ c’è lo vescovo, derète c’è / li preti, frati, e chjese i’ n-quandità. // Po’ sai che cci sta scritto su ‘n- ufficio? / Ch’era lo feudo più popolato / tra quelli de lo Stato Pondificio! // E ‘n- andro scritto angò’ c’è su ‘n- cartello, / lassù… da Annibal Caro, dòngh’è nato, / Pico non vide mai nido sì bello” (Ibidem, pag. 57).
Traduzione: “Ma di quel borgo non si sa più niente?- / Ma come no, Maretto!… Hai da sapere / che era diventato, niente meno che / una bella e poi invidiata grande città; / tanto è vero, sempre per sapere, / c’era anche il vescovo: e si sa / dove c’è il vescovo, dietro ci sono / preti, frati, chiese in quantità. // Poi sai che ci sta scritto su in ufficio? / Era il feudo più popolato / tra quelli dello Stato Pontificio! / E in un altro scritto ancora c’è su un cartello, / lassù… da Annibal Caro, dove è nato, / Pico non vide mai nido così bello”.
La città posta in collina, prima chiamata Vicus Cluentensis, cambia nome, diventa Civitas Nova, per distinguerla dalla Civitas Vetula, la città vecchia, Cluana, di origine romana. Ma per la nuova città, destinata a diventare ricca e potente, si profilano all’orizzonte nuovi problemi. Desta l’invidia della vicina Fermo che teme di essere superata. Iniziano allora lotte fratricide tra Fermo e Civitanova. Giù, vicino al mare, dove un tempo sorgeva Cluana, all’altezza della ripa Sancti Maronis, poco lontano dal piccolo santuario, edificato a ricordo del primo martire piceno, Marone appunto, c’era uno scalo, un pontile dove si praticava il commercio via mare.
“Sso scalo, o ‘sso pundile comme sia, / a lo mannava avandi u’ m-bo’ de jènde / che stava a Sammarone su ‘’la via / che vuà ghjà conoscete pure a mende, // che ghjava su… a ffinì do’ ce statìa / ‘llo vòrgo divendato ghjà potende; / e tutti de cossòra, commattìa / co’ Fermo che facìa lo prepotende // pe’ lo potere de lo litorale, / che angò’ a dispetto de tutti li Sandi, / java avandi,,, co’ sciavola e pugnale. // Chjsà quand’anni po’ de ‘mmazzamendi, / c’è stati tra Fermà e Citanoandi? / Se dice… tandi!… ‘Na decina… vendi…”( Ibidem, pag. 63).
Traduzione: “Questo scalo, o pontile che sia, / lo mandava avanti un po’ di gente / che abitava a San Marone sulla via / che voi conoscete anche a mente, / che terminava dove c’era / quel borgo diventato già potente; / Tutti loro avevano a che fare / con Fermo che si comportava da prepotente // per il controllo del litorale, / che anche a dispetto di tutti i santi, / andava avanti con la sciabola e il pugnale. // Chissà quanti anni di lotte, / ci sono stati tra i Fermani e i Civitanovesi? / Si parla di tanti anni, dieci, venti”.
La strada che da San Marone sale sulla città posta in collina c’è ancora. E’ la via Gabriele D’Annunzio. La distruzione della pieve di San Marone ad opera dei Fermani è un fatto storico, realmente accaduto. Nell’estate del 1292, al comando di Jacopo da Massa e Gentile da Magliano, due capitani di ventura, i fermani distrussero le torri di difesa della pieve, il piccolo incasato che si distribuiva attorno ad essa, bruciarono i campi circostanti, la casa del pievano, il mulino comunale, le case, i cascinali e tutte le attrezzature portuali.
Lucetto cerca in tutti i modi di tenere desta l’attenzione dei suoi interlocutori. Continua nel racconto: “E ‘ssi fermà’, che sembre gnorandava / servènnese de tandi mercenari, / no’ gne zizzava mae li patti chjari / perché duvìa fa’ danno dònghe ghjava. / E scondri… assardi… comme li corzari, / e sse murìa chjdù, se ne frecava! / Facìa li mercenari pe’ denari, / e al viva la Repubblica… svernava. – // Che era la Repubblica de vaffétto?- / je domannìa Vingé lo calafato / ‘m-bo’ prima de scolasse u’ n-vecchjeretto. // ma lo scalande, ridenne je fa: / Vurrio sapé’,Vingé, se ssi ‘mbarato / quarghe còsetta de ‘sta storia qua! // ‘Dè inùtele ch’io parlo, eppò’ a la fine / tu non capisci mango ‘n- accidènde / Po’… famme lo piacere, non dì’ gnende, / e parla quanno piscia le gajine! // Vingé, me si capito vène?… – Scine! / Però, … ma comme va a finì ‘ssa jènde? – / – Gnè, va a ffinì che u’ m- Papa combiacènde, / che c’ia ghjà pure piene le palline, // je fa fa’ pace: e ppe’ la correttezza, / a dà rasciò’ pe’ sembre a Citanò’ / facènneje custruì’ po’ ‘na fortezza // pe’ reparasse, e ppe’ sarvà’ la pèlla, / da ‘lli pirati che vinìa quagghjò: / … Arabi… Turchi… e combagnìa vèlla” (Ibidem pp. 64- 65).
Traduzione: “A questi fermani, che erano sempre ignoranti / servendosi di tanti mercenari, / non piacevano mai i patti chiari / perché dovevano fare danno dovunque andassero. / Scontri, assalti, come i corsari, / e se moriva qualcuno, se ne fregavano! / Facevano i mercenari per denaro, / e al viva la Repubblica, tiravano avanti. – // Che era la Repubblica che non valeva? / gli domandava Vincenzo il calafato / un po’ prima di scolarsi un bicchiere di vino, // ma lo scalante, ridendo gli fa: / Vorrei sapere, Vincenzo, se hai imparato / qualche cosa di questa storia! // E’ inutile che io parli, poi alla fine / tu non capisci manco niente / Poi… fammi il piacere, non dire niente, / e parla quando pisciano le galline! // Vincenzo, mi hai capito bene?… – Sì! / Però… ma come va a finire questa gente?- / – Niente, finisce che un Papa compiacente, / che ci aveva pure piene le palline, / fa fare pace: e per correttezza, / dà ragione per sempre a Civitanova / permettendo che costruisse poi una fortezza / per rifugiarsi, e per salvare la pelle, / dai pirati che venivano quaggiù: / Arabi, Turchi e compagnia bella”.
Li Feudi (I Feudi)
Per tutto il 1400, Civitanova Marche, il centro abbarbicato sulla collina, conosce uno sviluppo poderoso. Le antiche mura non bastano più a contenere una popolazione in continuo aumento. Si procede ad una grande opera di sbancamento e nasce quasi un nuovo quartiere, quello che insiste ancor oggi verso Porta Mercato, che ha nella via Roma l’arteria principale. Le mura cittadine vengono consolidate dai maestri comacini e dotate di quattro poderose porte munite di macchine ed accorgimenti difensivi che rendono quasi impossibile l’attacco di bande armate. All’interno si sviluppano e prosperano imponenti centri religiosi che svolgono nel territorio anche la funzione di servizio civile e sociale per una popolazione in continua crescita: l’ospedale della Misericordia, l’omonima confraternita, il convento con l’annessa chiesa degli Agostiniani, dei Francescani e la collegiata di San Paolo.
Nella prima metà del 1500, tutta questa crescita tumultuosa viene meno, la città si racchiude in se stessa, vivendo una crisi economica senza precedenti. Nel decennio che va dal 1519 al 1529 si abbattono su tutto il territorio comunale e all’interno del centro storico terribili pestilenze. Le condizioni igienico sanitarie saltano, in presenza di uno sviluppo demografico senza precedenti. Nel 1527 le bande dei Lanzichenecchi mettono a ferro e a fuoco la città eterna. E’ il sacco di Roma. Quello che avviene lontano dai confini locali ha dei contraccolpi improvvisi ed imprevisti anche per Civitanova Marche.
Passata la tempesta, i Papi si trovano davanti ad un bivio: mettere mano alla costruzione di grandi opere pubbliche, quali quelle di innalzare i parapetti del Tevere per scongiurare la tracimazione del fiume che avviene sistematicamente ogni anno, o dare vita alla costruzione di edifici pubblici che possano far ridiventare Roma il centro della Cristianità, da piccolo borgo di poche migliaia di anime che si era ridotto ad essere con le devastazioni subite. Si sceglie la seconda soluzione. La sede di Pietro si indebita fino all’osso con le più nobili famiglie romane: i Colonna, gli Orsini e tra questi, anche i nobili Cesarini che prestano soldi. La somma pattuita è di 14.000 scudi. La Delegazione Pontificia, il ministero del Tesoro di allora, calcola che Civitanova Marche potrebbe dare, con tasse e contributi vari, un gettito pari a 500 scudi all’anno. Stipula allora un contratto con i Cesarini per 30 anni. Giulio Cesarini prende possesso del feudo di Civitanova Marche nel 1551 e si mette all’opera, tassando tutto quello che può finanche il diritto di approdo lungo la costa.
Ben presto però si accorge che la cittadina marchigiana con tutto il suo territorio non può dare più di 300 scudi all’anno. Si riapre allora la vertenza con la curia romana che aggiunge a Civitanova Marche il feudo di Montecosaro, che da stime fatte dovrebbe rendere 200 scudi. Gli abitanti del vicino paese si rivoltano quasi subito uccidendo l’Uditore generale dei Cesarini, Dario Attendolo da Bagnocavallo ed il figlio Francesco, trascinandone i cadaveri per le strade; tredici rivoltosi pagheranno con torture ed impiccagioni. Fino a non pochi anni fa, nella data dell’impiccagione, a Montecosaro, la campana dell’orologio pubblico, al vespro di ogni giorno, batteva tredici lunghi lugubri rintocchi per ricordare l’evento. Civitanova Marche non ha il coraggio di ribellarsi e continua a pagare. Ormai sicuro del feudo, il Cesarini ritiene opportuno costruire un palazzo residenziale per sé e per accogliere ospiti illustri. Per realizzarlo utilizza una parte dell’area della piazza principale e l’antichissimo palazzo priorale.
Così, Lucetto racconta la nascita del feudo di Civitanova dato dal papa al duce Giuliano Cesarini: “E quanno che ne’ r- Mille e cinguecendo, / un certo papa… Giulio? O chjnghe sia! / Se vede che no’ n-era stato attèndo / a spènne più de quello che duvìa, / se ‘dèra ‘ndebbetato, a fòco lèndo, / co’ quarghedù’ de la ‘Ristocrazia; / che ppe’ ‘sso vuffo de momendo, / je dava Citanò’, … ma a menzadrìa?! // Ghjà che la resa no’ n-era feconda, / allora Giulio, che facìa ‘m-bo’? / je dava Mondecò, cuscì pe’ ghjònda, // paghènne ghjà ‘sso vuffo… a prezzo fisso. / Ma guarda u’ m-bo’ ‘sto pòro Mondecò’! / Ce java angò’ de mènzo pure isso! // Lucetto raccondìa de ‘ssi Signori / ch’ha commannato sembre pe’ tand’anni, / sfruttènne ‘sse città, piccole e granni, / in cambio po’ de che? … ‘Lli pòchi onori? // Ma ghjà se stava su li primi arbòri / de ‘n-epoca tranguilla e senz’affanni, / lascènnese derète quell’inganni, / pe’ racquistà’ ll’orgòjo e li valori. // E quanno ch’è passata la tembesta, / c’è sembre quella voja e condendezza, / che fa tirà’ ‘n-bo’ su… fa arzà la testa!… // Lo maro, co’ ‘lla ‘stésa ch’è infinita, / dacìa a ‘ssa jènde ‘’la certezza / de rcumingià’ da capo ‘n-andra vita” (Ibidem, pp. 69- 70).
Traduzione: “Quando nel Millecinquecento, / un certo papa …Giulio? O chiunque sia! / Si vede che non era stato attento / a spendere più di quello che doveva, / si era indebitato, a fuoco lento, / con qualcheduno dell’Aristocrazia; / che per pagare questo debito del momento, / gli dava Civitanova,… ma a mezzadria?! // Già la resa non era feconda, / allora Giulio, che faceva un po’? / gli dava Montecosaro, così in aggiunta, / pagando già questo debito a prezzo fisso. / Ma guarda un po’ questo povero Montecosaro! / Ci andava di mezzo anche lui! // Lucetto raccontava di quei signori / che hanno sempre comandato per tanti anni, / sfruttando le città, piccole e grandi, / in cambio poi di che cosa?.. Quei pochi onori? // Ma già si viveva in una nuova alba / di un’epoca tranquilla e senza affanni, / lasciandosi dietro quegli inganni, / per riacquistare l’orgoglio e i valori… // E quando è passata la tempesta, / c’è sempre voglia e contentezza, / che ti tira un po’ su… fa alzare le testa!…// Il mare, con quella distesa infinita, / dava a quella gente la certezza / di ricominciare da capo un’altra volta”.
La vita riprende ma c’è quasi un ritorno al passato. Gli antichi abitanti di Cluana, ora Civitas Nova, Civitanova, riprendono l’antica fatica della pesca. Di notte abitano nella Città Alta, ben difesa da possenti mura. Al mattino scendono per la strada del palazzaccio e si recano sulla spiaggia per solcare il mare e pescare. I pericoli non sono del tutto scomparsi. Molti marinai cadono nelle mani di pirati saraceni. Ma si sa che la gente di mare è gente dura. Non molla mai anche di fronte alle avversità. Nascono Li Portesi, i nuovi abitanti del Porto. Con qualche volo pindarico si arriva al 1800, alla formazione dell’Unità d’Italia, alla ferrovia, all’industrializzazione della parte bassa che da frazione si avvia a superare il centro posto sulla collina. Nascono le fabbriche, la vetreria, l’industria metal meccanica, i cantieri navali e il commercio. Le due realtà si separano. Porto Civitanova chiede e ottiene l’autonomia amministrativa. Per anni ci sono due comuni. La prima guerra mondiale, la seconda, la ricostruzione del dopoguerra, la nuova fusione in un nuovo comune. Questo ed altro nella prossima puntata. Mettere tutto in un articolo avrebbe appesantito la lettura. Il poemetto ‘’Na Storia ‘Na città” merita di essere letto e conosciuto un po’ alla volta. E’ troppo bello.
Raimondo Giustozzi
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