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Mar mediterraneo e la dieta patrimonio dell’umanità

Mediterraneo-1

di Valerio Calzolaio

Dopo le feste, perdurante la necessità di stare tanto a casa propria oltre che a distanza, mettiamoci a dieta! La dieta mediterranea esiste più o meno da quando esiste il Mediterraneo così come lo conosciamo nei tempi odierni, una ventina di migliaia di anni. Le specie umane erano divenute onnivore decisamente prima, da alcuni milioni di anni e, probabilmente, era capitato che già assaggiassero alcuni alimenti e cibi che oggi ne costituiscono celebrata parte, almeno quelli non lasciati fermentare intenzionalmente, con diversa intensità e frequenza. Noi stessi, i sapiens, eravamo già rimasti l’unica specie umana quando il Mediterraneo si è configurato più o meno con questo caratteristico clima, con questo livello di altezza delle acque e delle coste, con questo numero e ampiezza delle isole. Rispetto all’evoluzione nel passato remoto, all’unica conformazione terrestre Pangea e all’unica conformazione marina Tetide, il Mediterraneo afroeuroasiatico è il residuo marino che collega il continente più antico, l’Africa, e la più parte delle terre emerse, altri due continenti, le specie che vi vivevano e che vi sono evolute (estinte o meno).

 

Il “nostro” Mediterraneo non è l’unico mare a chiamarsi così: analoghi eponimi, in mezzo a terre (altre), si rintracciano in America, nel Sud Est asiatico, nel Nord Europa. Senza andare troppo indietro nel tempo, fino a circa 6 milioni di anni fa il Mediterraneo era collegato all’Oceano Indiano e vi esistevano numerosi organismi tipici degli ambienti tropicali; poi il collegamento si chiuse e quasi si prosciugò; la riapertura del collegamento con l’Atlantico, quello che si chiama oggi lo stretto di Gibilterra, consentì di superare la crisi di salinità (dovuta alla chiusura) durata oltre un milione di anni. Fino a circa 50 mila anni fa anche il Sud dell’Europa era stato raggiunto poco e male dai sapiens. Quando restammo i soli umani in Europa, cacciatori raccoglitori popolarono le molte aree non ghiacciate con un flusso di materiali, competenze, pratiche, comunicazioni, reti. Tuttavia, per quasi 40mila anni, il clima rimase pessimo, il mare basso e freddo, esistevano solo sacche punteggiate di gruppi con opportunità di spostamenti a breve raggio (dal nord Europa verso sud) e scarsa capacità migratoria intercontinentale.

 

Molti inventarono inediti itinerari terrestri, scambiarono oggetti cibi idee, mescolarono le esistenze collettive e qualcuno iniziò a navigare anche nel Mediterraneo su canne o pelli, sempre più, via via che la morsa glaciale cominciò ad allentarsi poco meno di 20mila anni fa (pur con l’oscillazione del grande congelamento del Dryas, fra 12.800 e 11.500 anni fa). Con il clima ovunque più mite e i suoli europei meno ghiacciati migrarono insieme popoli, geni, lingue e idee. I contorni del bacino marino salato sono simili a oggi proprio dalla fine dell’ultimo periodo glaciale globale, poco meno di 12.000 anni fa: un’area di mare piccola ma la più vasta al mondo con un clima simile (semiarido, caldo d’estate e piovoso d’inverno) e tanti differenti ecosistemi terrestri, insulari peninsulari collinari (ancora fra le 18 aree più ricche di biodiversità del pianeta, l’ulivo la specie storicamente più rappresentativa).

 

Il Mediterraneo è oggi ampio circa 3 milioni di km² (2,5 senza Mar Nero, comunque è corretto e rilevante considerarlo nel bacino, come confermano le secolari propaggini russe), un 180esimo della superficie marittima globale. Ha una certa omogeneità di longitudine (intorno ai 35 gradi), con una distanza delle frastagliate coste oggi fra 150 e 800 chilometri. È un insieme di mari, un complesso sistema di correnti e frane sottomarine, un fragile sistema reticolare e insulare costiero, un retroterra aperto ed esteso, una barriera porosa e liquida, un attraversamento rischioso e spesso drammatico (peraltro meno complicato degli oceani), un’unità ambientale e sociale di entrate uscite scambi innesti rotte conquiste fughe convivenze integrazioni, da un certo momento anche spazio negoziale di libertà, ove talora trovare rifugio dalle costrizioni storicamente determinate, ove talora morire in incognito senza patria. La conformazione attuale è, comunque, relativamente recente, un mare propenso alla connettività, piccolo ma non minuscolo, baricentrico rispetto a coste e microregioni, aree con climi oscillanti e mobile biodiversità non radicalmente diverse fra loro, barriera fisica e sfida migratoria, unificatore e divisore, protetto e minacciato al contempo, a lungo complicato ostacolo per umani migranti ed erranti: un mare “nostrum” dove il noi è sempre stato mobile, flessibile, meticcio, conflittuale.

 

Il complesso rapporto tra cibi (comprese le indispensabili bevande) ed evoluzione naturale (poi pure culturale) è stato analizzato e gestito da tempo immemorabile in ogni civiltà umana, riguarda il rapporto fra le tante specie diverse degli ecosistemi dove siamo capitati anche noi, magari migrati da altre parti con al seguito altre specie. La selezione naturale è un processo evolutivo graduale, cieco e privo di intenzioni e obiettivi: nasce dall’accumulo di variazioni ereditarie che, poco per volta, una generazione dopo l’altra, migliorano il funzionamento degli organismi, man mano che le varianti genetiche più adatte alle condizioni locali si moltiplicano a spese di quelle meno adatte. Più adatte qui e ora per come si è, non migliori in assoluto ovunque per ogni individuo. Noi e i nostri cibi passati e presenti siamo un prodotto di un’evoluzione parallela, tanto più che Homo sapiens ha aggiunto un processo sapiente di selezione artificiale (con discutibile impronta sugli ecosistemi) per produrre nuove varietà vegetali e animali, di cui (anche) cibarsi. Fra gli altri, ne ha di recente ricostruito i tratti salienti Jonathan Silvertown, che insegna ecologia evoluzionistica a Edimburgo, in Dinner tith Darwin. Food, Drink and Evolution (2017), “A cena con Darwin”, Bollati Boringhieri, 2018, pag. 262, euro 25.

 

Silvertown parte dalla dieta essenzialmente vegetariana degli ominini e dal precoce inizio di macellazioni, per narrare con dettaglio interdisciplinare l’origine africana delle specie umane e di noi sapiens, la lenta conquista dell’uso del fuoco e del cucinare, iniziando pure a migrare da tutte le parti. Pare che le strade decisive per sopravvivere fossero costiere, dove un’alimentazione importante poteva essere garantita da frutti di mare. Ci dotammo anche di altri caratteri, soprattutto il linguaggio della parola, articolato e astratto. Cominciammo pure a lavorare gli alimenti, il pane è probabilmente il primo cibo lavorato (antecedente il Neolitico): i semi dei cereali vanno raccolti, trebbiati e vagliati per separare i chichi dalla pula, poi macinati in farina, mescolati e lasciati lievitare, cotti. Hanno bisogno di domesticazione, un rapporto che abbiamo esteso a molte specie vegetali e animali, utili a risiedere, sopravvivere cucinando, riprodursi in modo più o meno sano ed equilibrato per la nostra unitaria specie meticcia, abituata ovunque a condividere il cibo (un impulso innato della nostra psiche). E veniamo allora alla dieta e alla cultura mediterranee dei nostri tempi.

 

All’inizio nel Mediterraneo trovammo determinate specifiche specie di piante e animali. Eravamo onnivori e ci siamo adattati facilmente. Sulle coste del suo bacino, sulle valli che da monti e colline disegnano il corso dei fiumi che vi confluiscono, su molte sue isole erano già vissute altre specie umane, da quando ha l’attuale conformazione solo noi sapiens, in vario modo capaci di assemblarci come comunità distinte di lingue, arti e scienze, sempre con un qualche contatto le une con le altre, più o meno pacifico. Non c’è, pertanto, una data di nascita per la dieta mediterranea, cereali verdure frutta pesce, prodotti secondari di piante e animali allevabili o coltivabili, allevati e coltivati nel bacino, furono alla base alimentare di innumerevoli esperimenti di selezioni, abbinamenti, fermentazioni, strumenti e arti del cucinare, a proprio rischio e pericolo (per il pesce qui). Già allora erano pochi i vincoli imposti alla nostra dieta dall’evoluzione, basti pensare che oggi siamo in grado di assimilare più di 4000 specie di piante (anche un tempo velenose e poco invitanti). Aldilà di come variamente si è mangiato nel bacino del Mediterraneo negli ultimi millenni, nella storia moderna e contemporanea è via via emersa una specificità della dieta mediterranea, per capacità nutritive e riduzione di rischio di varie malattie. Sono state effettuate ricerche scientifiche comparate e scritti centinaia di volumi in materia, un altro (gustoso) è uscito di recente: Marco Bianchi, La nostra salute a tavola. La dieta mediterranea tra gusto, scienza e benessere, HarperCollins Milano, 2020, pag. 187 euro 19.50 (grande formato, illustrato).

 

Verso il 1515-1516 Leonardo da Vinci, pittore scultore anatomista architetto zoologo astronomo scenografo progettista e a lungo cuoco vicino a Ponte Vecchio a Firenze, scrisse una poesia dedicata allo stile di vita e alla dieta mediterranea, fra l’altro consigliò di evitare spuntini e di masticare bene, di non riempirsi troppo, di combattere la pigrizia, di limitare alcol e stress. Secoli dopo, il biologo e fisiologo americano Ancel Benjamin Keys (1904-2004), studiando i disturbi gastrointestinali e le malattie cardiovascolari, mostrò che “the Mediterranean way” era un approccio ottimo per stare meglio in salute, un sistema alimentare ricco in particolare di olio extravergine, frutta, verdura, pane, pasta, legumi e pesce. Lui si trasferì in Italia con la moglie e collega Margaret Haney (1909-2006), dieci anni fa l’Unesco ha dichiarato la dieta Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità, si tratta di una cultura orale più che un semplice modello nutrizionale.

 

La dieta mediterranea deriva da una tradizione lunga secoli e non si riduce a un facile schema da seguire a occhi chiusi e senza facoltà di dialogo. La sua bellezza risiede proprio nell’estrema possibilità di variare, combinare, sperimentare l’uso e il consumo di alimenti tipici in proporzioni adeguate. Il contesto obbligatorio suggerisce l’assunzione di molta acqua (circa 2 litri) e l’attività fisica giornaliera dei commensali (prima e dopo), la convivialità del desinare, la preferenza per la stagionalità di prodotti perlopiù locali. Poi, si tratta di mettere gli alimenti su una piramide virtuale, alla base quelli da mangiare più volte al giorno ogni giorno (frutta, verdura, cereali integrali), a salire quelli che dobbiamo introdurre nei nostri pasti via via più raramente (latte e derivati, olio, frutta a guscio, erbe e spezie, pesce e pollame, uova e legumi, moderatamente vino, carne e salume, moderatamente dolci). Il nostro migliore alleato è il microbiota, la popolazione di batteri che vive con noi nel nostro intestino, sia autoctoni che ingeribili.

 

Il cuoco e personaggio televisivo italiano Marco Bianchi (Milano, 1978), ricercatore di oncologia molecolare e divulgatore scientifico, ha ora realizzato una godibile sperimentazione di ricette (o portate) coerenti con la dieta mediterranea, distinguendole in modo tematico per sezioni: cereali, verdure, proteine, latte e derivati, frutta, frutta a guscio, dolci. L’introduzione generale è minima. Ogni sezione contiene poi dieci gustose proposte (settanta complessivamente), inframezzate da alcune brevi schede (in genere tre) che motivano la collocazione degli alimenti nella piramide e offrono ulteriori sintetici approfondimenti scientifici sui relativi benefici e rischi. Il libro è corredato di colori, immagini e disegni, con belle illustrazioni (di Nicolò Canova) e foto dei prodotti o degli elaborati impiattati (di Gaia Menchicchi, Manuela Parati, Barbara Bordato). Come al solito, le ricette sono impostate per 4 persone, introdotte dalle quantità e narrate brevemente senza fronzoli in 3 o 4 punti relativi alla progressione della preparazione. In fondo ci sono i ringraziamenti, gli indici (portate, ingredienti, approfondimenti) e la bibliografia distinta per introduzione e sezioni.

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