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“Mia figlia è stata mandata allo sbaraglio”. La cooperazione internazionale è una cosa seria

Fonte Internet

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“Mia figlia è stata mandata allo sbaraglio”. Sono le parole della madre di Silvia Romano che fanno luce su un mondo, quello della cooperazione internazionale, dove, a fianco alle organizzazioni non governative accreditate che investono molto nella formazione del proprio personale, nella garanzia della sua sicurezza e in progetti che guardano avanti, operano una miriade di associazioni animate (quando va bene) dall’ingenuo e paternalistico desiderio di “fare del bene”. Con il risultato di mandare decine di migliaia di ragazzi di buona volontà ma poco preparati in zone poco sicure per progetti la cui utilità è quantomeno dubbia.

di Pierfranco Pellizzetti

A mio personalissimo modo di vedere, le furibonde e scomposte discussioni, finite persino nelle aule parlamentari, sulla liberazione e il ritorno a casa di Silvia Romano, sono oltremodo fastidiose proprio in quanto affastellano parole in libertà. Oltre a strumentalizzazioni che non lasciano emergere gli aspetti veri e inquietanti della vicenda, quale cartina di tornasole di una situazione più generale.

Una cagnara che non accenna a chetarsi.

Sicché il commento non tanto del ritorno a casa della ragazza, finita sotto sequestro per lunghi mesi ad opera di tagliagole dediti al business del riscatto, quanto del significato che intendiamo attribuirgli, non dovrebbe – a mio avviso – limitarsi alla presa di distanza dal ributtante delirio razzista e – di converso – dal buonismo peloso del politicamente corretto. Il dolciastro volemose bene un tanto al chilo, del tipo “Cara Silvia, perbenisti e bigotti non ti perdonano perché sei donna, giovane e felice”; come ha scritto il secondo blogger italiano per numero di interazioni Facebook (3,7milioni, alle spalle dell’inarrivabile Salvini); il mio quasi amico Lorenzo Tosa, già portavoce dei Cinquestelle in Regione Liguria e poi candidato alle europee per Più Europa. Lo stesso Tosa che – intervistando la project manager di ONG europee Daniela Gelso su TPI it – ha scoperto come «Silvia non fosse una cooperante e neppure una volontaria. Il suo incarico consisteva semplicemente nel far giocare i bambini del villaggio». Dove è stata rapita il 20 novembre 2018.

Francamente la considerazione più sensata che ho ascoltato sull’intera vicenda l’ha formulata proprio la madre della sequestrata: «mia figlia è stata mandata allo sbaraglio». In quel di Chakama, Kenya.

Se questo è il punto, allora si vadano a vedere i termini esatti della questione e si scoprirà che dietro la jiabah verdolina di Silvia/Aisha (che dir si voglia) ci sia ben altro di una astuta operazione anti-occidentale dell’islamismo politico: bombe-umane armate per esplodere contro i valori dell’Occidente. Ci sia – piuttosto – il problema del continuare a “mandare allo sbaraglio come cooperanti” ragazzi e ragazze inermi e altamente vulnerabili; del tutto impreparati a questo tipo di esperienza. Dunque, il modo con cui noi italiani (e non solo noi) affrontiamo il problema del rapporto con il Quarto Mondo; magari nell’intento di rifarci una verginità. La faccenda prigionia/liberazione della Romano, invece che questo canile di latrati e uggiolii, dovrebbe attivare una discussione sulle condizioni che hanno determinato questo e tanti altri sequestri/riscatti. Estendendo il discorso all’intera impalcatura delle sospette operazioni che si svolgono sotto il velo pietoso della cooperazione. Che – per andare sul campo – richiederebbe la selezione di solide personalità, attrezzate culturalmente e professionalmente ai contesti dove dovranno prestare la loro opera: società profondamente diverse dalle nostre, in larga misura devastate da crisi prodotte (anche) dalla de-colonizzazione e ad altissimo rischio per endemici conflitti tribali. Non ragazzine sprovvedute e sognanti, avvolte in nuvole rosa come i film patinati tipo “La mia Africa”, su cui hanno vagheggiato la loro personale rappresentazione, priva di riscontri effettivi, della destinazione che le attendeva. Molto spesso spiriti credenti, cresciuti nelle parrocchie lombarde dove imperava il volemose bene fasullo, con retro-pensiero affaristico, di Comunione e Liberazione; e l’avvio alla socialità era ritmato dai coretti ecumenici con chitarrine da “Viva la Gente”. Comunitarismo non su base religiosa ma sul conformismo rassicurante e consolatorio. Per cui il passaggio dal Cattolicesimo all’Islam si risolve in un semplice cambio di ritualità, forme e catechismi per essere cooptati(e) nel branco momentaneamente di riferimento.

Dunque, creature mandate al massacro; psichico, quando non fisico. Ultimo misfatto di ricorrenti operazioni giocate sull’appello alla compassione e alla solidarietà che non di rado nascondono business. Truffe. Come il caso dell’adozione a distanza di bambini affamati, utilissime per rimpolpare, con le donazioni, spillate ai commossi donatori, le finanze degli organizzatori di queste catene della bontà.

In uno scandalo genovese, personaggi di questa risma scipparono soldi pure a mie due figlie ragazzine, studentesse alle scuole medie, il cui l’obolo raccolto in classe da una professoressa militante in Compagnia delle Opere (braccio armato di CL), concorse all’acquisto dell’agognata fuoriserie Porche per il direttore dell’istituzione benefica pro infanzia abbandonata.

Non posso dimenticare la vicenda drammatica di un mio congiunto, volontario in Angola, dove era stato precettato a costruire una scuola per conto di una Onlus italiana, subito finito nei guai fino al collo perché la metà dei finanziamenti attesi per l’opera non arrivarono mai a destinazione, persi nei meandri del sistema bancario della Vecchia Europa. O magari inguattati proprio nel Bel Paese degli “italiani brava gente” (ma non di rado pure furbacchioni). Esperienza conclusa con il frettoloso rientro in patria, a seguito dell’assassinio di un membro di quell’italico team per l’edilizia benefica; cui alcuni nativi mozzarono la testa a causa delle pratiche inconfessabili che lo avevano portato a imbarcarsi nell’avventura angolana: il turismo sessuale, a spese di bambini e bambine dalla pelle scura.

Ne accenno a Silvia Stilli, portavoce di AOI, l’associazione che rappresenta le organizzazioni nazionali di cooperazione e solidarietà internazionale; costantemente monitorate dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), regolamentate dalla legge 125 del 2014 (apertura al sistema della cooperazione internazionale allo sviluppo). A partire dal protocollo sulla sicurezza siglato dalle nostre ONG e l’Unità di Crisi della Farnesina.

Ossia, realtà strutturate, che formano il loro personale investendo pure cifre cospicue, magari nei corsi di formazione tenuti dall’Istituto Superiore Sant’Anna di Pisa.

Ma quante sono queste ONG con tutti i crismi, attrezzate per inviare sul campo cooperanti professionali, ben retribuiti e altamente specializzati? All’incirca 220, a fronte di una folla di 22mila volontari in giro per ambienti altamente pericolosi, forti soltanto del loro impegno generoso; con le parole del documento “Suggerimenti per la gestione dei rischi e la sicurezza degli operatori”: «gruppi di volontariato o talvolta singoli che possono mettersi inavvertitamente in situazioni di rischio eccessivo». E chi – a parte le duecentoventi strutture attrezzate – dovrebbe evitare il “rischio sbaraglio” per questa consistente massa di generosi indifesi? Una miriade di organizzazioni, spesso fai da te, che non devono dare conto a nessuno dei propri progetti e di cui nessuno è in grado di fornire il numero: 500? 5000?

Un mondo che recalcitra a qualsivoglia tentativo di portare ordine, anche perché ogni intervento regolativo imporrebbe proibitivi aumenti dei costi di gestione, tali da mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza di tali iniziative. A fronte delle titubanze dello stesso MAECI di “non snaturare vocazioni” (sic!),

Fermo restante l’evidente problema umano che tale situazione si porta dietro. Sicché – ci si chiede – quali sono i bacini di raccolta in cui viene selezionato il personale da inviare al fronte solidale in terre lontane?

Silvia Stilli tratteggia al riguardo una variegata pluralità di motivazioni alla partenza, che vanno dal desiderio di affrontare un’esperienza formativa all’opportunità di un viaggio finanziato in terre esotiche (in gergo, volonturismo). Fermo restando che aleggia sempre la priorità religiosa, laica o confessionale che sia. Nonostante che Stilli mi precisi il criterio rigorosamente adottato dall’AIO, secondo cui il proprio personale svolge il suo compito astenendosi da qualsivoglia esposizione di simboli di fede «Perfino tatuaggi», mi precisa. Tuttavia regola che non vale per quell’Africa Milele, con sede nella marchigiana Fano, organizzatrice del viaggio in Africa di Silvia (o Aisha, che dir si voglia) Romano; ragazza che, prima del rapimento del 28 novembre 2018 e successiva conversione all’Islam, era segnalata in giro per il Kenya con vistosi crocefissi appesi al collo

Ma l’aspetto religioso ci porta ad affrontare sotto un angolo visuale un po’ diverso l’intera questione retrostante all’infrastruttura di cooperazione e volontariato nel Quarto Mondo: l’dea stessa di sviluppo. La questione per cui un quarto di secolo fa Gilbert Rist, docente al’Institut universitaire d’études du développement di Ginevra, si chiedeva: «e se lo sviluppo facesse parte della nostra religione moderna»?

Credenza da non confondere con un messaggio che indiscutibilmente fa parte dell’eredità occidentale, seppure la secolarizzazione abbia tolto alle Chiese il monopolio definitorio delle credenze condivise. Un sentire religioso che – tuttavia – «emigra altrove, e soprattutto là dove non lo si aspetta, in particolare per quello che passa generalmente per profano». E magari mantiene una sorta di presa interstiziale in zone ancora saldamente presidiate dalle organizzazioni religiose – segnatamente cattoliche – come in parte della Lombardia in cui è cresciuta la Romano. Magari in quella bergamasca da cui proveniva la ventenne Vanessa Marzullo, vittima in Siria nel 2014 – insieme all’altra cooperante umanitaria, la varesotta Greta Ramella – di una vicenda analoga a quella attuale kenyota.

Lombarde alla nuova crociata, questa volta umanitaria?

Appunto spiriti credenti, fedeli alla missione di salvare il mondo attraverso la testimonianza di un valore occidentale, come lo sviluppo, presunto universale.

Non è dello stesso avviso l’antropologo della London School Jason Hickel, originario dello Swaziland, che ha recentemente denunciato il consolidarsi di una vera e propria “industria miliardaria dello sviluppo”, di cui il volontariato cooperante è l’inconsapevole prima linea. Spesso l’alibi.

Una mitologia – quella sviluppista – che iniziò come trovata di pubbliche relazioni il 20 gennaio 1949, nel discorso di insediamento del secondo mandato presidenziale americano di Harry Truman; il primo evento della storia trasmesso in televisione e seguito da dieci milioni di spettatori. Per l’occasione occorreva una trovata comunicativa forte e quella fu l’annuncio in piena Guerra Fredda di una visione nuova e potente, in cui inquadrare l’ordine internazionale che stava emergendo: «dobbiamo intraprendere un programma nuovo e audace per mettere i benefici delle nostre scoperte scientifiche e del nostro progresso industriale a disposizione del miglioramento e della crescita delle aree sottosviluppate». Con il retro-pensiero che i paesi ricchi del Nord-America e dell’Europa, in quanto sviluppati, rappresentavano la punta di lancia e l’one best way del progresso. Fermo restando che in quel gennaio del 1949 non esisteva alcun piano effettivo per un programma del genere.

Semmai nasceva una visione.

Sicché – come scrive Hickel – «ancora oggi la storia dello sviluppo continua a esercitare una forza irresistibile nella nostra società. La si incontra ovunque si volga lo sguardo: nei negozi equi e solidali come quelli di Oxfam e della Triad, negli spot televisivi di Save the Children e della World Vision, nei rapporti annuali pubblicati dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale e ogni volta che guardiamo la classifica delle nazioni del mondo in base al Pil. La sentiamo ripetere da rockstar come Bono e Bob Geldof, da miliardari come Bill Gates e George Soros, da attrici come Madonna e Angelina Jolie, con i suoi abiti coloniali e uno stuolo di bambini africani accalcati smaniosamente intorno a lei».

Nel frattempo avremmo dovuto renderci conto che il sistema economico globale è organizzato in maniera tale da rendere (quasi) impossibile uno sviluppo reale. Nel combinato disposto di brevetti, farmaceutici e non solo, regolazioni del commercio internazionale e le montagne di debiti sotto cui sono sepolte le capacità di manovra di quei governi (non di rado formati da collaborazionisti del neocolonialismo occulto). Tutti dati di fatto che gravano come macigni sulle volonterose aspirazioni del volontariato. Difatti dopo un sette decadi di predicazioni generose a salvarsi l’anima, il numero di umani che versano in povertà estrema è esattamente lo stesso del 1981: all’incirca un miliardo e 23 milioni. Quando narrazioni edificanti ci inducono a credere che la povertà mondiale sia diminuita: gli unici luoghi in cui si è registrato un calo sono la Cina e l’Asia orientale, laddove l’uscita dalla miseria è avvenuta in base a sentieri economici diversi da quelli imposti con la forza dai bracci armati del Washington Consensus; FMI e Banca Mondiale.
Consapevolezza che – invece – era chiarissima agli occhi di quel grande irregolare del pensiero novecentesco che fu Albert Hirschman (tra l’altro economista dello sviluppo con esperienze sul campo) che nel suo The Strategy of Economic Developement, scriveva già nel 1958: «combattere l’inefficacia di tante proposte di politica economica costruite a priori senza tenere conto delle condizioni concrete, ma anche di prevenire la brutalità che improvvisamente può rimpiazzarle trasformando il miraggio dello sviluppo in incubo». E poi aggiungeva, «lo sviluppo non dipende tanto dal trovare combinazioni ottime di risorse e di fattori produttivi dati, quanto dal richiamare e dall’arruolare per lo sviluppo risorse e capacità nascoste, disperse o mal utilizzate». Sicché, ai suoi occhi l’unico intervento utile per trarre popolazioni da condizioni sub-umane è quello di aiutarle a esprimere da sé sentieri di crescita materiali compatibili con la loro cultura e – per così dire – il genius loci. Ed è quello che penso anch’io. Poi ci sarà il tempo per parlare – se lo vorranno i diretti interessati – di diritti civili, democrazia e altre idee di importazione. Un po’ quello che ha fatto e sta facendo un amico impegnato nella cooperazione, che spesso bazzica con i suoi interventi proprio questo sito, come Giorgio Pagano; il quale ha trascorso lunghi periodi nelle poverissime isole São Tomé e Prìncipe nel golfo di Guinea, aiutando gli abitanti a liberarsi dallo sfruttamento occidentale, gestendo in proprio le risorse di quella terra: cacao e pesca.

 

Concludendo, il problema su cui fare mente locale non sono le conversioni islamiche e i relativi simboli, i soldi spesi o meno per riportare a casa la vittima di turno di un sequestro, bensì le nostre ipocrisie/incoerenze. E i disastri umani che ne derivano. Seppure inintenzionalmente.

Magari le carenze in materia di sana ermeneutica del sospetto, annegata nelle retoriche terzomondiste.

by MicroMega

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