di Gianfranco Bettin
Italia 2019: la secessione elettorale di gran parte del popolo apre la via alla secessione istituzionale della parte più ricca. È forse l’esito politico più concreto delle elezioni europee nel nostro paese. La Lega di Salvini trionfa e catalizza il voto di ceti popolari ovunque, a nord come a sud, e li somma a quelli del suo elettorato tradizionale di partite Iva e artigiani e piccoli imprenditori del settentrione. Ciò non potrà che dare una spinta fortissima alla cosiddetta “autonomia differenziata”, cioè la possibilità per le Regioni che ne hanno la forza (segnatamente Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna) di ottenere poteri e risorse straordinari dallo Stato. In definitiva, di governarsi da sé in materie fondamentali.
È forse bene ricordare di cosa stiamo parlando precisamente.
Intanto, va detto che, da parte delle Regioni che lo vogliono, è possibile ottenere un aumento delle competenze tramite un accordo con lo Stato, previo parere degli enti locali interessati e il via libera del Parlamento (a maggioranza assoluta). Il 28 febbraio del 2018, dopo i referendum propositivi in favore dell’autonomia in Veneto e in Lombardia, e dopo analoga richiesta venuta dall’Emilia Romagna pur senza ricorrere al voto popolare, il governo Gentiloni ha stipulato con le tre Regioni altrettanti accordi preliminari su una possibile autonomia. Le Regioni chiedono però cose diverse: Lombardia e Veneto maggiore autonomia su tutte le 23 materie di competenza previste, puntando a una gestione esclusiva, l’Emilia Romagna invece reclama più autonomia “soltanto” su 15 materie e un maggiore potere di programmazione. Le materie cruciali sono il fisco (su cui il ministro Tria ha accettato un accordo che lascia alle tre Regioni una quota dell’Irpef prodotta sul territorio) e la fiscalità locale, la sanità, le infrastrutture e i trasporti, l’istruzione e i beni culturali. Quanto alla sanità, le Regioni reclamano la gestione del personale, compresi i liberi professionisti. Su questo c’è un contrasto con il ministro interessato, che considera eccessiva la richiesta e per ora ha dato l’ok solo su sei competenze: assetto istituzionale, organizzazione dell’offerta ospedaliera, ampliamento della rete formativa, abolizione del ticket fisso in ricetta e possibilità di prevedere ticket territoriali e programmazione degli investimenti sull’edilizia sanitaria.
Su infrastrutture e trasporti, la Lombardia chiede le concessioni su alcune autostrade e le strade e ferrovie passino alla gestione regionale; idem le funzioni di programmazione e controllo di beni, impianti e infrastrutture. Il Veneto vuole pure la gestione degli aeroporti. Il ministro Toninelli non è però d’accordo. Anche l’Ambiente è nella contesa: Lombardia e Veneto chiedono la piena autonomia sulle infrastrutture – e sul loro impatto ambientale – comprese le opere strategiche ora di interesse nazionale.
Per quanto riguarda la competenza sulle sovrintendenze e sui beni paesaggistici la Lombardia chiede una totale autonomia su personale, bilancio e gestione di vari beni statali (come la Pinacoteca di Brera che potrebbe diventare, appunto, “regionale”).
In materia di istruzione si chiede infine l’organizzazione del sistema educativo, dell’alternanza scuola-lavoro, l’apprendistato, i rapporti di lavoro col personale, la formazione e il finanziamento delle scuole paritarie.
Come si vede, si tratterebbe di un imponente trasferimento di poteri e di risorse dallo Stato a queste tre Regioni, che metterebbero perciò un bel po’ di distanza tra esse e tutte le altre, realizzando una sorta di modello di Italia a due velocità e soprattutto a due diverse carature di potere. La diversa velocità è, in fondo, il prodotto di un sistema socio-economico e in parte anche politico e istituzionale e, se vogliamo, anche di un sostrato culturale, stratificati nel tempo. Non è questo in discussione e neppure si vuol zavorrare la dinamica di queste aree con vincoli o penalizzazioni per mantenerle al livello delle altre. Ma per la prima volta si realizza uno sforzo al contrario: se finora si era puntato a sostenere e “sollevare” le regioni più deboli e lente, ora, con questa “autonomia differenziata”, si sbriglia la corsa di quelle più forti, si consente loro di potenziarsi nei settori chiave (in realtà, a tutto campo), accumulando un ulteriore vantaggio competitivo e una tale forza strategica aggiuntiva da rendere il divario pressoché incolmabile e, soprattutto, spezzando finalmente (per i fautori dell’egoismo regionale) quel nesso tra le performance di un’area e la solidarietà nazionale che, bene o male, ha retto fin qui e fin qui ha contribuito a realizzare l’unità del paese.
Nulla vieta che anche le Regioni deboli possano chiedere l’autonomia, si dice. Certo, celebrerebbero queste nozze con i fichi secchi delle proprie scarse risorse, arrancando dietro le locomotive alimentate da risorse auto prelevate e autogestite vedendole allontanarsi sempre più e, intanto, gravandosi di competenze nuove a cui, nel caso, far fronte senza strumenti e risorse adeguate. Accentuando così la propria debolezza di fronte ai compiti e la propria delegittimazione di fronte ai cittadini e alle loro domande, ai loro bisogni.
Non è un caso che la questione dell’“autonomia differenziata” si accompagni strettamente, nella strategia della Lega di Salvini, con la proposta della flat tax. Anche qui, parificare in una condizione di minor conferimento di tasse allo Stato contributori che stanno rispettivamente agli antipodi per capacità economica significa, oltre che impoverire le finanze pubbliche (e quindi ridurre i servizi che sostengono), allontanare sempre più ricchi e poveri, ceti alti e medio alti e ceti medio bassi, stratificare iniquamente non solo gli scaglioni di reddito ma i cittadini e le persone in quanto tali e in quanto fruitori di servizi e, infine, di diritti (laddove i doveri, invece, in primis quelli fiscali, vengono spettacolarmente alleggeriti ai ricchi).
Salvini crea la propria suggestione di uomo forte accanendosi sugli ultimi degli ultimi, gli immigrati, ed esibendo muscoli e toni da poliziotto dei vecchi tempi, riciclati nei social e nella sempiterna e servile tv generalista. Ma la materia autentica e finale del suo consenso confida di capitalizzarla su altri temi. Archiviata la secessione blasonata e visionaria di Miglio, archiviata anche quella raffazzonata e improbabile di Bossi, Salvini e la sua Lega “nazionale” puntano su una secessione istituzionale nei fatti, più articolata e sfuggente ma concretissima e tendenzialmente progressiva e inarrestabile (il modello è quello dello snaturamento costituzionale avvenuto in regimi come quello di Orbàn, un passo alla volta, fino alla “democrazia illiberale”) e puntano altresì su una secessione fiscale dei ceti più ricchi, illudendo gli elettori che si tratti di riforme che servono a tutti, perfino a chi ha votato per l’opposizione visto che una parte di essa non disdegna questa svolta fiscale (e comunque è subalterna alla destra e alla sua retorica anti tasse e, quanto all’autonomia, con l’Emilia Romagna condivide la riforma in corso, sia pure in termini appena appena più moderati).
Il quadro uscito dalle elezioni europee di maggio rafforza questa prospettiva. Mai come oggi sono state alle porte una vera disarticolazione della struttura unitaria e solidaristica e una vera dissoluzione dello spirito e della missione egualitaria del prelievo fiscale e dei servizi che esso finanzia. Mai questa svolta regressiva e spietatamente discriminante e gerarchizzante sul piano istituzionale e su quello sociale è stata più vicina.
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