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Cinema. Mio fratello si chiama Robert ed è un idiota

Fonte internet

Fonte internet

Mario Sesti  Film expert, festival curator

Ha fatto citare Terrence Malick, Jean Cocteau, Michael Haneke. Ma fa parlare anche Sant’Agostino, Bergson e soprattutto Heidegger: il grande pensatore del ‘900 che con la sua opera, Essere e tempo, negli anni ’20, rivoluzionò il linguaggio stesso della filosofia come le avanguardie artistiche contemporanee rivoluzionarono per sempre quello dell’ arte.

Può un film che è sempre fatto di oggetti persone e paesaggi affrontare un tema così astratto come la natura del tempo, sulla quale dalla filosofia fino alla fisica e alle neuroscienze di oggi la ricerca si è accanita senza mai aver davvero dipanato il suo mistero?

Mein bruder heisst Robert und ist ein idiot (Mio fratello si chiama Robert ed è un idiota), di Philip Groning, verrà presentato in anteprima italiana al MAXXI di Roma, sabato 13 aprile, ed è un film che, selezionato alla Berlinale due anni fa, affronta il significato dello scorrere della durata e altre classiche tematiche filosofiche (protagonisti sono una fratello ed una sorella: il primo aiuta l’altra a ripassare appunti e testi nell’imminenza di un esame): l’esistenza, la conoscenza, la felicità.

In realtà il film avuto un’accoglienza clamorosamente controversa. Da una parte un pubblico, anche autorevole, che non ha tollerato la durata eccessiva (quasi tre ore) e l’ostinata dialettica dei due protagonisti il cui tempo, infinito, come quello di ogni adolescenza, contempla unicamente la parola, le birre e le sigarette e il girovagare nella campagna assolata della Baviera al confine con la Francia e la Svizzera, intorno a una stazione di servizio, dall’altra un drappello di critici che hanno visto nel film una sfida all’estremità della forma del cinema, e delle sue possibilità di concetti e pensiero, sempre più rara nel panorama contemporaneo.

“Sono contentissimo di poter mostrare il mio film in Italia, in un museo della creatività artistica contemporanea come il MAXXI” dice Groning che parla un italiano molto pulito (ha vissuto a Roma) e che incontrerà il pubblico dopo la proiezione (per poi spostarsi al Lucca Film Festival).

E in effetti il film, che ha una svolta inattesa nella parte finale dove la violenza irrompe inattesa ma in incubazione nella svogliata malizia di competizioni e antagonismi sentimentali tra i due fratelli, lascia a bocca aperta per l’intensità e il frastuono visivo con il quale ogni dettaglio di un microcosmo (la traccia di un’ape, il tappeto del frinire delle cicale, i frammenti di luce sul pelo d’acqua di un lago, il fruscio di un coniglio, i versi degli uccelli, lo sterminio di sfumature del verde e del cambio di luce nel corso del giorno), viene a ogni sequenza scomposta e ricostruita, ritagliata e fusa nel flusso di immagini, in una sorta di neocubismo cinematografico che porta a inedita radicalizzazione la sintassi del montaggio cinematografico generando un tempo uniforme, instabile e scintillante in cui il presente, come direbbe Platone, sembra “l’immagine mobile dell’ eternità”.

La durata è implacabile ma la densità visiva è stordente, unica, capace di rifrangersi all’infinito come i dettagli delle piscine di un grande pittore come David Hockney. “Hockney? – dice Groning, che è diventato tra le voci più importanti del cinema tedesco con un memorabile documentario sui frati trappisti, Il grande silenzio, e con La moglie del poliziotto, premiato a Venezia – è un pittore che ho amato e anche studiato con attenzione”

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