di Maria Sole Garacci
Nel gennaio 1890, George-Albert Aurier pubblicò sul Mercure de France un magnifico articolo, quasi ecfrastico, in lode del lavoro di Vincent Van Gogh. Questi, già reduce dalla tremenda crisi che lo aveva portato al ricovero nel manicomio di Saint-Remy, e preda di episodi allucinatori e di deliquio alternati a momenti di fragile rassegnazione, rispose tuttavia al critico d’arte con una calda lettera di ringraziamento: sempre e comunque attento alle cose di pittura ed esercitato ai confronti, alle descrizioni, all’osservazione, insomma alla critica d’arte, nella lettera citava, peraltro, un suo debito verso Paul Gauguin e quell’Adolphe Monticelli, colorista oggi pochissimo apprezzato, che a lui piaceva molto.
Ecco l’inizio della recensione di Aurier:
“Sotto cieli ora intagliati nel barbaglio degli zaffiri o delle turchesi, ora impastati di non so quale zolfo infernale, caldi, nocivi e accecanti; sotto cieli simili a colate di metallo e di cristallo fusi, dove si distendono talvolta, irraggiati, torridi dischi solari; sotto l’incessante e formidabile rifulgere di tutte le luci possibili; in atmosfere grevi, fiammeggianti, cocenti che paiono spandersi da fornaci fantastiche dove si volatilizzano ori, diamanti e gemme singolari – è il dispiegarsi inquietante, torbido, d’una natura strana, a un tempo veramente vera e pressoché soprannaturale, d’una natura eccessiva in cui tutto, esseri e cose, ombre e luci, forme e colori, s’impenna, si drizza in una rabbiosa volontà di urlare la sua canzone essenziale e appropriata, sul timbro più intenso, più ferocemente acuto”.
Per noi venuti al mondo quando, già da tempo, le ombre sulla sabbia si erano fatte color lavanda, i cavalli blu, i cristi gialli, le montagne viola, e che abbiamo visto aprirsi, in volti arancioni, abissi neri orlati di luci verdi e rosa, la pittura di Van Gogh non è affatto “strana” o disturbante. Anzi, così piacevole la contrazione della pupilla colpita dai suoi colori saturi e violenti, che questi quasi non ci bastano più, e cerchiamo di vederli meglio visitando allucinanti mostre immersive che proiettano su schermi al plasma giganteschi vasi di girasole. Ma, all’epoca, proprio così doveva apparire la natura da lui dipinta. A un tempo vera e soprannaturale, eccessiva in tutto. Urlante sul timbro più intenso la sua essenza.
Il film di Julian Schnabel si propone, appunto, di restituire qualcosa di quella prima visione per noi perduta, o appannata. E, in alcuni momenti, ci riesce: quando, ad esempio, un paio di scarponi deformati dall’uso acquisiscono di fronte alla telecamera un’incredibile “presenza”. L’esser-ci di Heidegger, che di quelle struggenti, assolute scarpe dipinte ad olio fece un’analisi filosofica; oppure quando, con un’inquadratura radente, si mostra il rilievo della pittura sulla tela e, virando la scena sul bianco e nero, gli ulivi dipinti prendono corpo tra gli ulivi reali. Oggetti e non apparenze.
Sfogliando le lettere di Vincent a suo fratello Theo, circa seicento, troviamo numerose e attente riflessioni sul modo in cui le cose fisiche esistono sotto il sole; sulla luce, sui colori, sul loro tono, sugli effetti reciproci della loro giustapposizione. E, immergendoci in queste osservazioni, ci rendiamo conto di come egli guardasse il mondo intorno a sé; di quale sensibilissimo sguardo posasse sulle manifestazioni della natura, estraendone miracolosamente la loro infiammabile sostanza, vivissima, mobile e bruciante, come se tra noi e la realtà fosse caduto un velo di assuefazione calato sugli occhi dalla consuetudine.
“In questo momento i campi di grano quasi maturo hanno un tono scuro, di un biondo dorato; un rosso vermiglio o bronzo dorato. Questo è portato al massimo effetto dal contrasto con il blu cobalto del cielo.
Immagina delle figure femminili contro un simile sfondo, molto rozze, molto energiche, visi, braccia e piedi resi bronzei dal sole, con polverosi e ruvidi abiti indaco e berretti neri sui capelli corti, mentre vanno verso il loro lavoro su un sentiero polveroso di un viola rossastro con qualche erbaccia verde in mezzo al grano…”[1].
Talvolta l’oggettualità di ciò che lo circonda (e uso a proposito, ambiguamente, un termine tanto artistico che psicoanalitico) è per il pittore così prepotente da esigere di essere sfidata, catturata: dipinta.
“…la casa e i suoi dintorni sotto un sole sulfureo, sotto un cielo di un blu cobalto puro. Questo è davvero un soggetto difficile! Ma io voglio vincerlo, proprio per questa ragione. Perché è impressionante: queste case gialle nella luce del sole e l’incomparabile freschezza del blu”[2].
E i colori possono anche svelare un significato simbolico, una verità morale.
“Ho cercato di esprimere le terribili passioni umane con il rosso e con il verde.
La stanza è rosso sangue e giallo spento, un tavolo da biliardo verde al centro, quattro lampade giallo limone con un alone arancione e verde. Ovunque c’è un contrasto e un’antitesi tra i più diversi verdi e rossi. Nelle figure dei due ruffiani addormentati, piccoli nella stanza ampia e spoglia, un po’ di viola e blu. Il rosso sangue e il giallo-verde del tavolo da biliardo, per esempio, contrastano con il delicato verde Luigi XV del bancone.
Gli abiti bianchi del proprietario, che vigila da un angolo della sua fornace, diventano giallo limone, di un verde luminoso e pallido”[3].
Tutto questo, lo vediamo avvenire (più che essere rappresentato) su una tela di Van Gogh. Quale tecnica cinematografica, quale regia può efficacemente mettersi tra noi e quelle opere, replicarne non solo la temperatura, la fisicità, le ragioni, ma il movimento tra intuizione ed espressione? In questo tentativo, Van Gogh – At Eternity’s Gate fallisce laddove aveva fallito, con altri mezzi, anche Loving Vincent: gli stacchi del montaggio, i movimenti febbrili della macchina, le riprese in soggettiva attraverso l’occhio/obiettivo appannato e bagnato di lacrime (del resto già viste in Lo scafandro e la farfalla) non riescono a imitare la gestualità pittorica dell’artista, e annoiano per la loro gratuità e ridondanza. Come, ad esempio, nelle scene iniziali, che vogliono mostrare l’incontro con la natura, con il sole, o con una pastorella.
Ciò che Schnabel, anch’egli pittore, sembra essersi proposto di rendere – la visione della realtà fisica e il desiderio dell’artista di condividerla con gli altri uomini – sfugge continuamente ai vani e ripetuti tentativi di trasmetterlo al pubblico, confondendosi con l’immedesimazione in una disperata e allucinata soggettività, perennemente sull’orlo del dissolvimento. Viviamo con il protagonista, attraverso i suoi occhi, gli effetti di un generico stato psicotico, ma cosa questo, nell’opinione del regista, abbia a che fare con la creatività, e più in particolare con quella ricerca sulla percezione che in Van Gogh è così presente e lo rende così importante, oppure con il suo linguaggio, non ci è dato di capire. Non ci si addentra, il che è deludente per un film tanto ambizioso, nel topos ormai frusto del connubio tra “genio e follia”, per capire dove queste si incontrino; per capire se sia possibile individuare, tra raptus e intenzionalità, il misterioso punto in cui il processo creativo si genera. Questione cruciale proprio per un artista come Van Gogh, folle eppure studioso e serio osservatore della pittura altrui e della propria, che consumò la propria vita e la propria spasmodica ricerca artistica sul crinale di una strenua lotta tra volontà e malattia.
Van Gogh incarna, in versione moderna e romantica, l’idea antica dell’artista ispirato dalla divinità, che di questa si fa tramite con l’uomo, sacrificando la propria pace e financo la propria vita. In questo, alcuni versi di Hӧlderlin, la cui tensione interiore venne infatti accomunata a quella del pittore da Karl Jaspers, ce lo ricordano:
“Così i figli della terra ora
bevono il fuoco sacro senza rischio.
Ma è nostro, o poeti,
restare a capo scoperto
sotto la tempesta di Dio,
afferrare con la propria mano
il raggio del Padre,
porgere al popolo il dono divino
circonfuso dal canto”.
In Genio e follia, Jaspers giungeva alla conclusione che “la personalità, il talento preesistono alla malattia, ma non hanno la stessa potenza. In queste personalità la schizofrenia è la condizione, la causa possibile perché si aprano queste profondità”. Del resto, quello dell’artista saturnino e melancolico è un mito le cui origini verranno analizzate anche da Ernst Kris e Otto Kurz (il primo psicanalista oltre che storico dell’arte) in La leggenda dell’artista, e da Rudolf e Margot Wittkower in Nati sotto Saturno.
Mitigata dalla distanza temporale, dalla fortuna postuma del suo lavoro, nonché dalla canonizzazione hollywoodiana compiuta dal romanzo biografico di Irving Stone (poi portato sul grande schermo da Vincent Minelli e interpretato da un bellissimo e prestante Spartaco/Kirk Douglas), Van Gogh è diventato il nostro amico fragile. “And when no hope was left in sight on that starry, starry night, you took your life as lovers often do. But I could have told you: Vincent, this world was never meant for one as beautiful as you”, cantava Don McLean. Sentiamo quasi, ammirando i suoi quadri così belli, così accetti, ormai, al nostro sguardo, che se fossimo stati lì non gli avremmo negato la nostra amicizia e la nostra comprensione; che avremmo riconosciuto il suo talento, a differenza di quei rozzi e insensibili cittadini di Arles che, stanchi e spaventati dalle sue intemperanze, firmarono una petizione contro di lui.
A differenza del film di Minelli, e più similmente a quello di Robert Altman interpretato da Tim Roth, il film di Schnabel ha il pregio di rinunciare a rendere gradevole, se non affascinante, un personaggio che non doveva esserlo troppo, specie in certi momenti. Ma sopravvalutata è la prova di Willem Dafoe, il quale per la maggior parte del tempo sembra come inebetito, e troppo anziano nel ruolo di un trentasettenne infantile incapace di sopportare le frustrazioni e l’abbandono (questa sembra l’interpretazione del disagio psichico del pittore suggerita nel film), fragile e spaurito come un bambino che trova conforto solo nell’abbraccio materno, pietoso e protettivo del fratello Theo (il quale, sappiamo, nel giro di sei mesi dalla scomparsa di Vincent morirà in seguito a una terribile crisi nervosa che, nel frattempo, aveva condotto in manicomio anche lui).
Resta emblematica della versatilità di questa figura, specchio proteiforme dei nostri cliché e anche della nostra relazione con la realtà sgradevole e incomponibile del disagio psichico, la teoria sulle circostanze della sua morte che ha preso piede negli ultimi biopic dopo il libro del 2011 Van Gogh. The Life degli americani Steven Naifeh e Gregory Smith, abbracciata da Schnabel. Si scagiona il pittore dal gesto suicida, sostenendo sia stato ucciso da un paio di ragazzetti ignoranti di campagna, altruisticamente protetti dal silenzio della stessa vittima, uomo reietto ma mite e amorevole. Un martire beato.
Indipendentemente dalla verosimiglianza di tale interpretazione, peraltro non sostenuta da prove certe, non è interessante che si prenda così alla lettera, ribaltandola, quella statura di “suicidato della società” drammaticamente riconosciutagli e protestata da Antonin Artaud?
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