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Arte.it. Porcellana, Mon Amour! All’insegna del Pop. E con una spolverata Splatter…

Fonte internet

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by Rebecca Delmenico e Alessandro Riva per IF

La porcellana? È pop. Anzi, arcipop. Poppissima. Alla faccia della lunga storia che la contraddistingue, degli oltre mille anni che ne segnano il cammino, oggi anche questo materiale, un tempo considerato nobile e pregiato (un esempio per tutti è la porcellana di Capodimonte, uno stile che nasce a Napoli, voluttuario e puramente decorativo, che sfocia nella produzione di piatti da muro, statuine ed elementi realizzati per arredare le abitazioni di nobili e borghesi), è diventato un mezzo artistico di massa.

Inventata attorno all’anno mille in Cina, sbarcata poi in Europa dove, nell’800, vive il suo periodo aureo impreziosendo le case della grande borghesia, oggi la “pop-cellana” vive una sua nuova stagione di rinascita, più che mai proiettata nell’immaginario del contemporaneo. In un periodo in cui persino i direttori delle grandi fiere si accorgono che l’arte contemporanea, dopo l’abbuffata di concettualismi e di video, foto o addirittura opere immateriali (performance etc.), sente la necessità di tornare alla manualità e a fare i conti con la tecnica, ecco che un materiale nobile per eccellenza, più prossimo alla dimensione artigianale che a quella dell’arte con la “a” maiuscola, torna prepotentemente alla ribalta. Con declinazioni pop. Ecco allora il grande successo di artisti come Francesco De Molfetta (che all’ultima Fiera di Bologna aveva un intero stand allestito come il tendone di un circo, il Demo Pop Circus, tra gli stand più originali e più apprezzati dal pubblico); e ancora di artisti come i Bounty Killart, che fin dal nome evidenziano la propria carica ironica e dissacrante, o di Massimo Giacon. O il grande successo di opere come quelle di Tomoko Nagao, giapponese ma di stanza a Milano da anni, che declina in chiave più classica ed europea il superflat nipponico alla Murakami o Nara.

Tra i motivi dello “sdoganamento pop” di questo materiale c’è stato anche il successo del design italiano, con la proliferazione di oggetti d’uso, realizzati da designer e artisti, legati a grosse produzioni. Spesso, oggetti con caratteristiche giocose, ironiche, doppi sensi, non necessariamente prodotti poi in porcellana, ma che hanno aperto concettualmente la strada a un atteggiamento diverso verso l’idea dell’oggetto-scultura con derivazioni iperpop.

In Italia però, rimanendo nel campo dell’arte contemporanea, si può dire che la “rivoluzione” della ceramica e terracotta utilizzate con declinazioni pop sia riconducibile agli anni Novanta, con due artisti che, in maniera diversissima l’uno dall’altro, hanno affrontato la figura umana con una declinazione anticlassica e fortemente innovativa: Paolo Schmidlin e Paolo Cassarà.

Sono stati loro, potremmo dire (assieme a una manciata di altri artisti, come Giuseppe Bergomi e Livio Scarpella, protagonisti di primo piano di un rinnovamento in chiave contemporaneo del modellato, ma assai più lontani dalla dimensione pop, e al duo Bertozzi & Casoni, approdati al lavoro in proprio dopo un apprendistato e un’attività come ceramisti professionisti), ad aprire la strada a un uso innovativo e originale della terracotta e della porcellana policroma nell’arte contemporanea italiana. “Credo che la terracotta non sia inquadrabile in un’unica definizione che la limiterebbe”, dice Paolo Schmidlin, autore di sculture, sempre realizzate in terracotta policroma, realistiche al limite dell’ossessione, raffinatissime dal punto di vista tecnico e inquietanti per l’aria di decadenza e di malinconia che riescono a trasmettere, dove i personaggi sono ripresi nel loro lato più tenebroso e cupo. “Essendo una tecnica utilizzata nell’arte già nella più remota antichità, sfugge, a mio avviso, a qualsiasi tentativo di costringerla su stretti binari. Forse tra le forme di espressione creativa la terracotta è proprio la più duttile perché può generare opere che hanno le più differenti impronte: dal più puro classicismo al pop più trasgressivo”. Ma è il pop la declinazione più calzante per la terracotta che si produce oggi? “Non so: per quanto riguarda il mio lavoro, ad esempio”, continua, “la definizione “pop” non la trovo totalmente calzante; certamente cogliamo richiami di questo tipo – anche dovuti all’uso del colore – ma ha certamente agganci anche con un tipo di figurazione più classica. Essendo un artista autodidatta, ho attinto con grande libertà da tutto ciò che mi ha stimolato nel corso della vita. Per cui, nelle mie terracotte policrome, possiamo trovare sì spunti pop (in particolare richiami all’iperrealismo americano), ma anche reminiscenze di tutto quello che negli anni ha catturato la mia attenzione; dalle bellissime ceramiche liberty Goldsheider, alla scultura policroma quattrocentesca, fino alle statue in cera di Madame Toussauds. Insomma, un mix indefinibile ma davvero molto vissuto”.

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Quelle di Cassarà col pop hanno invece un rapporto più univoco e meno controverso. I suoi primi lavori, del resto, coincidono con la caduta del muro di Berlino, nel 1989 (“è un po’ come se noi artisti, che lavoravamo in quegli anni, avessimo sentito la necessità di abbattere anche noi dei muri, quelli della classicità e dell’Accademia, sfidando un modo di fare scultura ormai superato e obsoleto”, dice lo scultore. “Del resto, oltre a noi, non c’erano altri artisti che lavorassero in questa direzione a quei tempi”). Affascinato dai mercatini siciliani con le ceramiche dai soggetti molto popolari, Cassarà comincia presto a rendere iper-pop anche le proprie creazioni. Ecco allora, di quegli anni, ragazzi ripresi alla fermata del tram, o al Bar Magenta, storico locale milanese, studenti intenti a chiacchierare in mezzo alla strada, e poi dj, ultrà pronti per andare allo stadio, ragazze alle prese con la propria quotidianità. Più di recente, lo scultore è arrivato (nel 2006) a trasformare Vittorio Sgarbi in una bambola, la Sbarbie, circondato (ça va sans dire) da giovani donne e impacchettato in una confezione scontata per famiglie: “l’idea era quella di prendere un personaggio popolare, televisivo, e ‘metterlo a nudo’ vendendolo idealmente a un prezzo speciale, trasformandolo così in oggetto iper-pop” (oggi in mostra nell’esposizione Oltre il limite, al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro, fino al 26 marzo). Questo nuovo modo di concepire la scultura in terracotta, molto ironica e pop, ebbe molto successo fin dagli anni Novanta, proprio in virtù della ricerca sul quotidiano, che tra l’altro ha avuto anche il pregio di documentare il costume di un’epoca, la moda, l’abbigliamento e i comportamenti giovanili.

Tra i pionieri dello sdoganamento pop dell’oggetto-scultura, non poteva mancare invece Massimo Giacon. Cinquantacinque anni, padovano da anni trasferitosi a Milano, Giacon è artista con un passato importante da protagonista del cosiddetto “Nuovo fumetto italiano”, la nouvelle vague di rinnovamento della tavola disegnata che ha visto tra i suoi compagni di strada autori storici come Mattotti, Igort, Pazienza, Scozzari, Liberatore e molti altri. Autore tutt’oggi di libri di successo a metà tra scrittura e disegno (l’ultimo, Ettore, Mr. Sottsass Jr. e il mistero degli oggetti, pubblicato da 24 Ore Cultura, racconta la storia del grande designer italiano con la tecnica della graphic novel), Giacon spazia però, nella sua produzione, tra disegno, grafica, pittura e scultura, ovviamente sempre all’insegna del pop. Nella sua mostra alla Triennale di Milano di qualche anno fa (The Pop will Eat Himself), l’artista aveva trasportato per la prima volta i suoi caratteristici animaletti fantastici, debitori al mondo dei comics come a quello dell’arte fantastica e onirica, ma spesso con un’aria di inquietudine che li rendeva sottilmente conturbanti, dalla carta alla terza dimensione. Come “Pop Ganesh”, l’elefantino folle dai tre occhi e i canini affilatissimi, dall’espressione folle e schizzata, che sta per mettere le fauci su un piccolo topolino; o il Woodbear, orsetto intagliato nel legno che pare aver preso vita al pari di Pinocchio; o i due gemelli Nose Twins, dal caratteristico naso a trombetta e cappello alla Pippo, che si fissano stupefatti; o l’imponderabile Montonsferatu, con corna e vello di montone e incisivi da vampiro; o il Coniglieschio, simpatico e svampito coniglietto… dal volto scheletrizzato!

“La mia ceramica”, dice Giacon, “è talmente pop che non sembra nemmeno ceramica. Ho giocato a togliere alla ceramica il suo aspetto austero, ma allo stesso tempo ho voluto dare al pop un significato meno frivolo. Il cosiddetto “new Pop” giapponese e americano l’ho sempre trovato spettacolare e divertente, ma io ho sempre cercato una “via europea”. Io non sono né americano né giapponese, per cui mi manca quel “sense of wonder” meravigliosamente decerebrato. Per cui io sento la pesantezza della storia, e anche la pesantezza del vivere, del vissuto. Per questo, le mie ceramiche sono pop, ma contengono anche quella dolenza che proviene dalla nostra cultura. Con una nota beffarda”.

Non meno caustico è Francesco De Molfetta, in arte Demo, che proprio di recente ha presentato un florilegio di raffinatissime porcellane di Capodimonte, ma declinate sempre con un doppio senso ironico e dissacrante, in una mostra, significativamente chiamata “Pop-cellana”, presso la galleria “29 Arts in progress”, a Milano. L’universo artistico di Demo è ironico e vivace, la componente del gioco è una cifra intrinseca alla poetica di un artista che vede bene come il gioco sia anche imitazione, camuffamento, rottura delle regole, rovesciamento dei significati e gioco a rimpiattino con il senso nascosto dei titoli e dei nomi. Le sue sono composizioni che intrecciano i grandi temi dell’iconografia e (dell’artigianato) classico con suggestioni provenienti dalla cronaca, dal costume e dalla vita contemporanea, spesso con forti dosi di sarcasmo verso temi quali il consumismo selvaggio, il trash food, la sessualità esibita, l’ossessione tecnologica, la volgarità dilagante dei comportamenti quotidiani. Ecco allora le tre grazie trasformate in fatine reggitrici di patatine e hamburger, il simbolo del Mac Donald’s fare le veci di centrotavola galante, una bambola gonfiabile magicamente trasformarsi in vaso da fiori, e così via.

L’artista, sorprendentemente, definisce come “nostalgico” il proprio approccio alla porcellana: “Non ho avuto la pretesa di innestarmi forzatamente in cicli produttivi imponendo a tutti i costi il mio immaginario ex novo”, spiega, “quanto, piuttosto, ho preferito utilizzare il già esistente manipolando e riaggiustando. In effetti, anche il mio avvicinamento all’Arte rimane sempre frutto di una manipolazione, una rielaborazione di preesistenze, non la pretesa di coniare a tutti i costi qualcosa di nuovo. Con tutto il sontuoso bagaglio di tradizione legata alla lavorazione della terracotta in tutte le sue derivazioni (invetriata, maiolica, porcellana, grès, ecc.) mi è sembrato divertente riscoprire le forme e le finiture dei classici Capodimonte (ho lavorato lì in una ditta di produzione di ceramiche artigianali per un breve periodo con la finalità di riutilizzare parte del loro archivio calchi) e di altre manifatture importantissime come Limoges. Il mio lavoro è stato in qualche modo “sartoriale”, un taglia e cuci sia estetico che concettuale. Ho denominato questa operazione POPcellana, cioè la fusione di un immaginario e di una tradizione cosiddetta “popolare” con un medium antico quanto la storia dell’uomo (il quale ha da sempre utilizzato la terracotta per manufatti sia decorativi che funzionali, e pertanto si può ufficialmente declamare che la storia dell’umanità sia scorsa in parallelo alla storia della terracotta). Così, potrei dire che il mio approccio è stato più quello di un alchimista postumo, di un manipolatore di cose già esistenti, più che di un creatore ex novo”. Della serie: nell’era del post-moderno avanzato, non si inventa ormai più niente, ma si mescola e rimescola tutto all’infinito.

Su una linea non diversa si muovono poi i Bounty Killart, gruppo formato da un quartetto di giovani artisti, i torinesi Gualtiero Marchioretto, Rocco D’Emilio, Dionigi Biolatti e Marco Orazi, caratterizzati, come dicono loro stessi, da “una visione tagliente” della realtà e “dalla lingua biforcuta sul presente”. Le loro appaiono come crude parodie della contemporaneità, dei suoi vizi e dei suoi fraintendimenti, attraverso il filtro di opere apparentemente classiche (o neoclassiche). Ecco allora un Nettuno armato di salvagente con tanto di ochetta davanti, ecco un’Ultima cena con tanto di schermo di computer a troneggiare al posto degli avanzi della cena (e a creare stupore negli Apostoli, tanto che viene da chiedersi che cosa vi sia riprodotto nello schermo), ecco un Discobolo che diventa un rockettaro nell’atto di lanciarsi in un assolo di chitarra, ecco, ancora, statue farsi il selfie, guardare il pc, darsi il deodorante sotto le ascelle… un florilegio di follie che, a ben guardare, rispecchiano però molto, molto bene la nostra realtà quotidiana. “C’è chi, in riferimento alle nostre opere, parla di Surrealismo”, dicono loro: “al contrario, la nostra è un’arte estremamente realistica, per quanto radicale”.

Più incline alla fantasticheria colta è invece l’opera di Andrea Salvatori. Originario di Faenza, città della ceramica, dopo gli studi all’Istituto d’arte per le Ceramica e poi in Accademia a Bologna, ha iniziato la collaborazione con altri artisti che usavano la ceramica come medium espressivo. “Studiando in Accademia”, dice, “mi son scoperto simpatizzante del kitsch, dei ninnoli, di tutto quel mondo apparentemente banale e usualmente facile, e di lì, un passo alla volta, un inizio di maturità nel mio lavoro si è evoluto inizialmente intervenendo direttamente su questi ninnoli da comodino della nonna, con piccoli interventi a volte tra il pop, il pulp, lo splatter e le decontestualizzazioni. Poi, piano piano, la forma stessa della ceramica ha cominciato a prendere il sapore di una nuova classicità, elaborando figure o vasi con interventi spiazzanti, o a volte deridendo l’oggetto di design con situazioni ancora più inusuali”.

Ma, tra ninnoli della nonna, vasi e vasetti, piccoli oggetti iconici carichi di doppi sensi, singolare che il mondo della nuova “pop ceramica” sembri appannaggio tutto maschile. Difatti, non è così: non si può certo dire che manchino le artiste donne, e che nel campo della rielaborazione pop della ceramica siano meno attive dei loro colleghi maschi. Anzi. Tra le protagoniste del neo pop internazionale, impossibile non citare la giapponese Tomoko Nagao, creatrice di un’estetica (anche con la ceramica) dal carattere iper-pop e di diretta derivazione dell’immaginario a fumetti giapponese, ma anche con chiare ascendenze classiche e barocche. Ultima sua creazione in porcella, la testa di una Salomè contemporanea, debitamente servita su un piatto, ma con tanto di fiocco in testa, sorriso stampato sul volto e goccia di sangue che cola dal piatto. Un vero ossimoro visivo, di grande delicatezza formale e di straordinaria presa scenica.

Ma Tomoko non è la sola artista donna a cimentarsi in questa tecnica antica con sguardo ironico e leggero. Più cruda e politicamente scorretta, infatti, la svedese Maria Rubinke è famosa per le sue “bloody porcelain” che sembrano uscire da una fiaba dark dei fratelli Grimm. Unici colori: il bianco della porcellana, il rosso del sangue e tocchi di nero. Ecco bambine che si autodecapitano (tirandosi le treccine) o si automutilano con le proprie mani, altre che si cavano gli occhi, altre ancora che si sparano… giochi apparentemente crudeli, ma trattati con la raffinatezza della porcellana bianca e con l’eleganza di un ricamo vittoriano. Paure, traumi e incubi cristallizzati in creazioni che ben poco hanno a che vedere con il classico modo di intendere la porcellana, e che tuttavia spiazzano proprio per la ferrea eleganza che le contraddistingue sul piano formale.

Non diversamente, anche le damine della britannica Jessica Harrison sembrano unire un’anima classicheggiante (sono perfette riproduzioni delle statuette convenzionali di fine 700), ma con alcuni particolari… dissonanti: sono infatti ricoperte di tatuaggi e, cosa molto più inquietante, presentano colli decapitati, reggono in mano in proprio cuore strappato dal petto, o mostrano un braccio sfigurato da un orribile incidente, o si arrotolano il proprio intestino intorno a un braccio: sembrano, insomma, il misterioso miscuglio nato dalla mano di un artigiano classico, dall’immaginazione di una Mary Shelly rediviva unita al gusto splatter di uno sceneggiatore horror. Anche questa è la “pop-cellana” contemporanea, bellezza!

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