Di Francesco, G. Capitani.
Esiste uno sperduto ex manicomio sulle colline da qualche parte in Italia, istituito per volontà di un nobiluomo, che preferì internare il figlio nella villa paterna, fra altri matti, anziché altrove, fra altri matti ancora. L’anormalità schiacciata al denominatore comune – altri malati, in una casa conosciuta – ed il disagio individuale non più percepito – era venuta a mancare l’estraneità del matto da quanto attorno: uno fra pari, per l’operare di una sorta di Procuste che nel suo letto, ogni volta, avrebbe potuto impedire alla coscienza dei matti di riconoscere la patologia -.
Allo schiacciamento patologico comune il poeta sfugge. Ora, chi fa poesia non è matto o almeno non lo è nell’accezione più comune del termine – di stolto, ubriaco nel ragionamento -, può essere folle – leggero, disincantato alle cose, più resistente che le rigidità delle convinzioni diffuse, attratto da un terreno più fresco di verità – ovvero, ancor meglio, imprudente – privo di vergogna e di paura, fatto di volontà -, tal che opera il moto emancipatorio dal senso comune – disinteressato dalla semantica della verità, preferente il riconoscimento di una commedia composta da prevedibili finzioni cui tutti, più o meno abilmente e con aleatorio successo, partecipano -.
Vi sono poeti che nel manicomio – luogo di a-mistificazione della follia siccome oggetto di diagnosi, terapia e di maneggio razionale – in mezzo a gente talvolta parziale talvolta stolta ed esausta da trattamenti disumani ed impossibili, hanno fatto poesia ed hanno trovato verità di senso. Eppure il manicomio scarnificava, era coacervo d’abbandono e disperazione ed in cui s’era internati a vita – il malato sarebbe tale quando irrecuperabile, come farebbe d’orgoglio la scienza psichiatrica madre coi figli propri -, in cui “si impara a morire” (Alda Merini), come un pre-decesso scandito dalla pedante burocrazia dell’istituto manicomiale, nella forma di un superamento dell’identità.
Nel caso della poetessa – per la prima volta reclusa a sedici anni – la sovversione del senso comune non aveva fattezze intellettualistiche, almeno non direttamente. Scriveva parole carezzevoli l’un l’altra – come “amore e morte”, solo apparentemente ossimoriche e così musicalmente consonanti -, eppure tali da svestire le nervature più sensibili. A suo dedicare, la poesia: “trascorre tra le mie dita come un rosario/Non prego perché sono un poeta della sventura/che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore/sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida/sono il poeta che canta e non trova parole/sono la paglia arida sopra cui batte il suono/sono la ninnanànna che fa piangere i figli/sono la vanagloria che si lascia cadere/il manto di metallo di una lunga preghiera/del passato cordoglio che non vede la luce”. Due registri a drammaticamente impattare: quello poetico, così innocente ed educato – e tutti ricordano così la poetessa nelle rare interviste concesse – e quello manicomiale – il tempo infinito, la coazione severa e gentile, le umanità a terra sciolte di saliva e sguardi smarriti -. Nacque un connubio che fece figlia la poesia: “la mia pistola alla tempia si chiama poesia”, scrisse. Ancora “amore e morte”: una resa mai accaduta del registro poetico al manicomio che dominava, indisturbato nel suo intercedere da parole fortissime ma mansuete e quindi distrattamente consentite al veleggio nei luoghi bianchi delle case dei matti.
Non fu il percorso esistenziale di Dino Campana, altro poeta manicomiale, che finito per l’ultimo quindicennio della sua vita recluso, nulla più scrisse – e non s’ha modo di conoscerne le ragioni cliniche se non ipotizzando più violenti e dirompenti terapie psichiatriche, più che la rinuncia -. E la cui resistenza al manicomio non finì a parole concilianti allo stato manicomiale, come per la poetessa milanese: “luogo della poesia” e di “eco del delirio”, in esecuzione di un patto scellerato con la reclusione coatta. Campana era poeta visionario eburneo, dirompente ed esclamativo, che a patti con la reclusione la lingua non avrebbe conceduto: “Pace non cerco, guerra non sopporto/Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno/Pieno di canti soffocati. Agogno/La nebbia ed il silenzio in un gran porto” – un intercedere scandito, ritmico, formalmente fiero e dignitoso, generoso di formule retoriche e difficile da ammansire alle deflagranti poetiche dell’abbandono manicomiale -. Echi classicheggianti – a D’Annunzio, ad esempio, fra gli italiani – in coazione con fortissime intensità semantiche. Cadute le forme d’imperio della scrittura- figlie di una volontà che si riproduce, annichilita nei luoghi di cura mentale -, cedette la poesia. Eppure provò il sentimento della conciliazione: “Mi tuffo dal più alto precipizio della mente/(..)/Prendimi alienazione e portami con te in caverne primitive dove l’essere razionale è escluso… inebria l’abulia dell’animo di dissomiglianza di saggezza invecchiata. Tienimi pazzia…tienimi!”. Non riuscì però l’afflato manicomiale – luogo di governo della sua pazzia, mozzata a carne viva da più sedute di elettroshock che con certezza gli furono applicate -. Dino Campana rimane il poeta della ricevuta maledizione familiare e, in tutta risposta, dell’irrisolto errare nei luoghi del mondo – “E le fermate di notte sotto le tettoie di ferro, nomi diversi, nord o sud , uno stesso lontanar di fiumi rossastri, uno stesso sgancìo netto di catene”, sembra Sibilla Aleramo dedicare a Dino Campana, ultimo suo tempestoso amore – . Non fu il poeta della reclusione, la reclusione sfinì il poeta.
Quel che al poeta sottrasse, la poetessa milanese trovò, anni dopo, consegnate alcune parole proprio al poeta toscano che l’insània rese muto. C’è un tratto in cui la poetessa evoca a sè Campana a splendere selvaggio: “riscuoti questa mente innamorata del suo dolore/seme della gioia”. Invece lui: fu taciuto dall’inferno dell’internamento e in egual modo privato dalla corrispondenza dell’amore/dolore/seme della produzione poetica, rivelatosi inadatto al sudiciume manicomiale, come il noto uccello di Baudelaire – “Il poeta è come lui/principe delle nubi/che sta con l’uragano e ride degli arcieri/esule in terra fra gli scherni/impediscono che cammini le sue ali di gigante””-.
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