di Marco Simonelli
Della statunitense Anne Sexton Rosaria Lo Russo è interprete italiana almeno su tre differenti livelli: ne ha tradotto i testi in tre fortunate edizioni (Poesie d’amore, Le Lettere, Firenze, 1996; L’estrosa abbondanza, Crocetti, Milano, 1997; Poesie su Dio, Le Lettere, Firenze, 2003), ha contribuito alla sua diffusione con alcuni saggi (si veda soprattutto La ragazza cristica, in Poesie su Dio, cit.) sottolineandone la dimensione auto-mito-biografica in relazione alla condizione della poesia femminile occidentale, se ne è assunta la corporalità vocale in vari reading-performance restituendoci la proporzione dinamica ed emotiva di una scrittura ad alta componente orale (la Sexton, nell’ultima parte della sua vita, si esibì in clamorose ed ipnotiche letture dando vita ad un’esperienza altra di fruizione del testo poetico).
Esce adesso Io e Anne – Confessional poems (d’if, Napoli, 2010), con cd audio contenente una suggestiva rendition dei più noti testi sextoniani, un concerto per voce ed elettronica (l’armonizzazione parola-suono, il melologo, per usare una definizione cara a Lo Russo, si avvale della collaborazione dei Mondo Candido). Si tratta (sarà bene chiarirlo subito) di uno sforzo esegetico e contemporaneamente artistico che procede nella direzione della coerenza estetica, piuttosto che verso una resa letterale della voce della Sexton: le traduzioni di Lo Russo, lungi dall’essere meri calchi linguistici dell’originale, sono elaborate operazioni di doppiaggio autoriale e attoriale concepite con precisa conoscenza della realtà storica e poetica dell’originale.
A più di sessant’anni dalla nascita del fenomeno confessional (esploso in America con l’apparizione dei testi della triade canonica Lowell – Plath – Sexton) la poesia che “confessa” segreti, drammi e angosce personali dello scrittore ha sicuramente perso l’originale impatto innovativo finendo per diventare più una forma “canonizzata” che una definizione letteraria storica: sembra quasi che la poesia confessional, con le sue forti ripercussioni emotive, sia diventato oggi quasi un banco di prova, un esercizio obbligatorio di auto-analisi per poeti e/o aspiranti tali.
Sebbene allegorizzata e amalgamata in un impasto linguistico estremo, baroccheggiante e a tratti parodico, la poesia di Lo Russo ha preso le mosse da una innegabile componente confessional evidente in testi come Comedia del 1998 e Lo Dittatore Amore del 2004: si tratta di un’esperienza che adesso le permette di confrontarsi esplicitamente con la voce e le tematiche di Anne Sexton proponendo un candido e brutalmente consapevole controcanto ai testi della collega (“consorella Materassi”) statunitense.
Io e Anne è una doppia confessione (tanto personale quanto storica) di due personalità le cui diverse dinamiche espressive e realtà storiche sottolineano un territorio d’esperienza comune, di ribellione in prima analisi umana e solo successivamente femminista. Ecco allora che la Boston puritana degli anni Quaranta (città dove la Sexton visse, scrisse e “confessò”) non appare poi più lontana o distante della Firenze degli anni Settanta e Ottanta (in cui idealmente sono collocate le poesie di Lo Russo qui raccolte): il medesimo sguardo che disseziona chirurgicamente l’esperienza e la consegna alla pagina accomuna queste due voci che ricostruiscono con visuali differenti la stessa storia di legami problematici fra corpo e psiche, fra libido e destrudo.
“E dovevo imparare/ perché volevo morire invece che amare” è l’esergo del libro e insieme il tema portante di questo atto di riconoscenza nei confronti dei propri e altrui selves: laddove il discorso della Sexton si interrompe col suicidio (e, nell’aggregazione testuale, con un testo come “Al Sor Decesso che se ne sta sull’uscio”, forse la traduzione più sperimentale dell’intero corpus), Lo Russo sopravvive e nell’atto di concludere questo “libro dell’esperienza” redatto a partire da una duplice materia, analizza così lo scarto che le ha permesso di restare, quello di cui non fu capace la Sexton:
Ogni giorno porto a spasso la mia gentile tristezza,
quella che accarezza la zona morta accudendola con destrezza,
quella che guarda alle sconfitte con tenerezza, con pazienza,
quella che non ti accusa accusando le perdite, la mia
gentile tristezza: l’impressione di stabilità diventata una certezza.
L’animale morente si apparta sempre. L’animale si apparta
per accudire la zona morente: se rido è più forte, non piango
quasi più. Il mio corpo è diventato una fortezza. Sono
accaduta in me.
*
AL SOR DECESSO CHE SE NE STA SULL’USCIO
L’ora s’abbuia. L’ora ch’era lunga
s’accorcia l’ora occhialuta e stralunata,
s’acconcia la sottana, canta una canzone sdolcinata,
flirta coi ragazzi e gli dà uno strappo,
che nazimamma, l’ora, di crauti e birra,
o me vecchia adolescente, presto s’abbuierà.
Ma mi ricordo com’era giovane un tempo
quando giocava a strega maialetta col cerchietto
e ballava con sei maschi tremendi il jango,
quando faceva scappare i polli dal bacchetto
e prometteva di sposarsi Tizio e Caio,
ma non ci pensava poi manco per niente
di ritornar la sera presto al su’ pollaio.
Ci fu un tempo che il tempo aveva tempo
e il mare mi lavava con delicata brezza.
Non esiste il terrore quando si nuota nudi
o si va forte in motoscafo e si lancia la lenza.
Ci fu un tempo che col singhiozzo il fiato trattenevo
ma in quell’istante il Sor Decesso non l’incontravo.
C’hai tante maschere, Sor Decesso, grande attore.
Una volta t’eri impomatato un po’ alla Valentino
col gin di mi’ padre in saccoccia di straforo.
E anche se il mio vitino di vespa stava appeso all’uncino
del tuo lungo braccio bianco, per vertigini cretina,
mai e poi mai, no, non mi ghermiva
il tuo fascino di canaglia truffaldina.
Poi Sor Decesso tu m’hai teso un’esca,
così m’han detto, alla prima défaillance,
spronando la suicidina a festeggiar la sua
nella gran pupazzata grande entrée.
Ne uscivo impasticcata gridando adieu:
un’ebreuccia nel suo campo di sterminio.
Ora la tua birrosa trippa straripa, Dottor Balanzone.
Mentre scorreggi ti saltano i bottoni sul panzone.
Come posso giacermi con te, mio comico Florindo,
che sei così di mezz’età e tanto basso ceto.
Allora tu m’imbusti e tu mi pressi,
perbenino, come una farfalla, tu mi pressi
e per sempre la mia faccia pressata starà
accanto a quelle di Mussolini e il Papa.
Sor Decesso, quando andasti ai forni fu corto,
e cortese altrettanto fosti con l’affogato,
e più carino di tutti col bimbo mio dell’aborto
e fosti così e così anche coi crocefissi tutti.
Ma quando vieni alla mia morte fa’ che sia uno slow,
l’ultima pantomima, l’ultimo porno show,
perché devo ancora una volta provare
prima di potermi davvero spaparanzare
nella mia nera cassapanca nuziale.
(in Anne Sexton, L’estrosa abbondanza, a cura di Antonello Satta Centanin, Rosaria Lo Russo, Edoardo Zuccato, Milano, Crocetti, 1997)
Al Sor Decesso che se ne sta sull’uscio
[Rosaria Lo Russo, Io e Anne, d’if, Napoli, 2010]
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