Christian Raimo, giornalista e scrittore
Il 18 ottobre il ministero dell’istruzione (Miur) ha presentato il progetto Campioni per l’alternanza. Si tratta di un protocollo d’intesa con sedici aziende per l’alternanza scuola-lavoro nel triennio delle superiori, ed è il modello con cui il ministero ha deciso di lavorare da qui in avanti.
Di alternanza scuola-lavoro parlavamo – e criticamente – già lo scorso febbraio, spiegando cos’era questa nuova disposizione della legge 107 (la cosiddetta Buona scuola): gli studenti dei licei devono fare obbligatoriamente almeno duecento ore di attività aggiuntiva nel corso del triennio, gli studenti dei tecnici e dei professionali devono fare almeno quattrocento ore.
Nel 2015, primo anno di sperimentazione, per molti dirigenti scolastici è stato complicato trovare le aziende disposte ad accogliere – e formare – centinaia di migliaia di studenti. Eppure, il numero fornito dal ministero sugli studenti partecipanti del 2015/2016 è 652.641, e la previsione è di portarlo a 1,1 milioni e 1,5 milioni rispettivamente nel 2016/17 e 2017/18.
Per questo l’accordo Campioni per l’alternanza è stato accolto dal ministero con entusiasmo: le prime sedici aziende coinvolte – Accenture, Bosch, Consiglio nazionale forense, Coop, Dallara, Eni, Fondo ambiente italiano, Fca, General electric, Hpe, Ibm, Intesa Sanpaolo, Loccioni, McDonald’s, Poste italiane e Zara – si sono impegnate a prendersi in carico 27mila studenti all’anno: moltissimi. Accanto a piccole realtà come Loccioni o Dallara, ci sono multinazionali come Fca, Hewlett Packard o McDonald’s. Quest’ultima, per esempio, ha dichiarato di poter seguire e formare diecimila studenti all’anno.
Il progetto è un misto di retorica del made in Italy e di un concetto astratto di innovazione didattica
Alla presentazione (qui si può vedere l’intero video) la ministra Stefania Giannini ha ribadito quale sia l’ispirazione del progetto – il modello tedesco – e quale sia l’obiettivo: “Una sfida economica, sociale e culturale”.
Secondo la ministra il progetto permetterà di “aggredire quello che è il nemico più temibile dell’Europa di oggi, e della nostra società, cioè la disoccupazione giovanile”, ovvero quei “due milioni di giovani che in Italia non studiano e non lavorano e non hanno speranza”. Ma il punto centrale è quello che Giannini definisce la sfida culturale: “Si tratta di superare il novecento, senza perderne la forza, ritornare a una tradizione tutta italiana, tutta europea, che significa collegamento – a partire dalle botteghe rinascimentali – tra la parte teorica, il pensiero critico e la sua possibile applicazione. Quello che i greci chiamavano techne e i latini chiamavano ars, che è diventato un po’ il punto qualificante del prodotto italiano, quando si parla soprattutto di manifattura”.
Nelle parole della ministra sembra esserci un po’ di confusione riguardo a quale sia il cuore del progetto – un misto di retorica del made in Italy e un concetto un po’ astratto come quello di un’innovazione didattica che però non cita mai chiari riferimenti pedagogici. E anche la citazione delle botteghe rinascimentali rispetto ai tirocini degli studenti presso McDonald’s o la Coop sembrano comunque stridenti. Alle domande più specifiche che Internazionale ha posto al ministero, le risposte non sono state molto più esaurienti.
Carta bianca alle aziende
“I Campioni per l’alternanza sono stati selezionati principalmente in base a tre criteri”, ha spiegato il ministero. “Esperienze di alternanza di qualità: hanno offerto percorsi di alternanza variegati (coinvolgono 14 settori di attività) che prevedono sia una parte informativa e di formazione che di svolgimento pratico. Ciascuno studente potrà sviluppare competenze trasversali: lavoro in gruppo, risoluzione di problemi complessi, comunicazione, per fare alcuni esempi. Al contempo ogni studente avrà la possibilità di mettersi alla prova e valutare attitudini e preferenze che potranno tornare utili nell’indirizzare i prossimi passi del proprio percorso di crescita personale e professionale”.
Il secondo criterio è il forte impegno verso l’alternanza e gli studenti: “Tutte queste organizzazioni – grandi e medie aziende nazionali e internazionali ma anche organizzazioni non profit e ordini professionali – si sono impegnate a ospitare un numero di studenti significativo”, continua il ministero.
Infine, il terzo criterio è la novità: “Tutte queste organizzazioni si sono impegnate a definire percorsi di alternanza innovativi nel rispetto dei princìpi previsti dalla legge Buona scuola”.
I percorsi di alternanza delle organizzazioni entrate a far parte del programma sono stati definiti attraverso il confronto tra il ministero e i responsabili dei programmi di formazione e delle risorse umane delle organizzazioni coinvolte, spiega ancora il Miur, e sono “finalizzati a sviluppare competenze trasversali e conoscenze del settore di riferimento”.
L’impressione, anche da queste vaghe risposte, è che il ministero abbia dato carta bianca alle singole aziende per gestire come vogliono il progetto dell’alternanza, e senza un evidente criterio educativo nel caso di alcuni accordi.
Il punto che Zara ha a cuore è la trasmissione della cultura aziendale della multinazionale
Abbiamo chiesto a Zara di specificare quali sono i criteri del loro progetto e ci hanno risposto che “il programma si articola in attività di formazione e acquisizione di competenze nelle aree della gestione commerciale e della logistica, nell’utilizzo di tecnologie di supporto come per esempio la Radio-frequency identification (Rfid), nell’ecommerce, nel servizio al cliente, visual merchandising e layout di negozio”.
Ma accanto alla formazione tecnica, come già ricordato, il punto che Zara ha a cuore è la trasmissione della cultura aziendale della multinazionale: “Zara intende condividere con gli studenti la propria filosofia e i propri valori di riferimento, passione, impegno costante e attitudine al lavoro, quali importanti asset del percorso educativo. Zara basa la propria politica formativa e di crescita professionale sull’idea che l’apprendimento, oltre che una base teorica, debba fornire una solida esperienza sul campo che generi ‘saper fare’”.
“L’età media dei dipendenti”, continua l’azienda, “anche in posizioni apicali, è under 40 e questo fa sì che ci sia un’estrema facilità di scambio e reciprocità. Quindi un processo di learning by doing. Di certo non mancherà un’introduzione alla società e soprattutto all’attenzione che il gruppo Inditex mette sui temi della responsabilità sociale e della sostenibilità”.
Negli ultimi anni Zara ha puntato molto sulla credibilità del marchio, e dal loro ufficio stampa mi viene fatto rilevare che sul profilo aziendale di corporate social responsibility ci sono diversi documenti che mostrano la forte attenzione alle ditte fornitrici.
Inchieste indipendenti
Tuttavia, anche recentemente, le denunce di sfruttamento degli operai all’interno dell’azienda sono continuate. Solo l’anno scorso un’inchiesta indipendente ha messo sotto accusa Inditex, la multinazionale dell’abbigliamento che controlla Zara, addossandole la responsabilità di non fare sufficienti controlli nelle fabbriche produttrici in Brasile. Un noto attivista pachistano, Ehsan Ullah Khan, da anni sostiene che nonostante gli impegni dichiarati, Zara usa in gran parte lavoro minorile, impiegando ragazzini del sudest asiatico. E anche in Italia soprattutto i sindacati di base denunciano la mancanza di tutela di alcuni diritti fondamentali – l’indennità di malattia, la maternità – da parte dell’azienda.
Ma al di là dei dubbi sull’etica aziendale di Zara, è comunque interessante domandarsi in cosa consista in concreto il progetto dell’azienda approvato e promosso dal Miur. I 600 studenti presi in carico da Zara per centinaia di ore che cosa faranno in concreto? Saranno nel negozio ad accogliere i clienti? Aiuteranno in magazzino? Osserveranno? Faranno i commessi? Potranno stare alla cassa? Saranno, come di fatto è stato nel 2015 per molte aziende che hanno svolto l’alternanza scuola-lavoro, una non piccola massa di manodopera gratuita?
È difficile ottenere risposte chiarificatrici. In molti documenti ufficiali e nelle dichiarazioni delle varie aziende l’aziendalese si sposa allo scolastichese: la parola chiave del connubio è competenze. Spesso competenze trasversali. La didattica per competenze potrebbe essere una cosa seria, ma se fatta declinare dagli uffici marketing delle grandi aziende può trasformarsi in una caverna di Alì Babà concettuale, un plastismo a definire tutto e niente e a piegare il progetto didattico ad altri scopi.
Il comunicato di McDonald’s per esempio dice: “Il progetto si pone l’obiettivo di sviluppare le soft skill degli studenti italiani, ovvero quelle competenze di carattere relazionale e di comunicazione interpersonale fondamentali per approcciare al meglio il mondo del lavoro a prescindere dal ruolo ricoperto”.
Quando abbiamo chiesto all’azienda di spiegare queste soft skill e che valore educativo si ricava dal loro sviluppo, McDonald’s ci ha risposto: “Ci sarà una parte teorica che sarà dedicata a spiegare come funziona il ristorante, le norme di sicurezza, le principali norme legate alla ristorazione. Dopodiché ci sarà una parte pratica al ristorante dove i ragazzi non verranno impiegati nelle cucine; l’idea è proprio di basare il progetto sulle soft skill, sulla parte di competenze trasversali che possono essere utili indipendentemente da quello che farà il ragazzo nel futuro. Fondamentalmente verranno utilizzati al di qua delle casse, si occuperanno di assistere i clienti in diverse fasi della loro permanenza nel ristorante”. Per esempio li aiuteranno a fare l’ordine elettronico attraverso una sorta di grande iPad collocato nel negozio, oppure “affiancheranno le hostess che si occupano di gestire le feste di compleanno, e questa potrebbe essere una parte molto adatta per chi fa l’istituto psicopedagogico: far giocare i bambini e assistere i genitori nella loro permanenza nel ristorante. Abbiamo immaginato anche un supporto multilingue, per cui siccome abbiamo in alcune zone grande afflusso di turisti, potrebbe essere utile per chi fa il liceo linguistico”.
Il laboratorio macchine dell’Istituto tecnico industriale J. C. Maxwell di Milano, marzo 2008. (Francesco Millefiori e Alessandro Imbriaco, Contrasto)
È una domanda insinuante chiedersi dove sia la finalità educativa di tutto questo? Davvero è pensabile che sia formativo – anzi addirittura un modello da esportare in altre esperienze didattiche – per chi fa l’istituto psicopedagogico far giocare i bambini alle feste di McDonald’s e assistere i genitori nel frattempo?
Occorre poi tenere presente che l’impegno almeno virtuale di McDonald’s è davvero grosso: trentamila studenti all’anno per tre anni anche divisi per i cinquecento ristoranti presenti sul territorio italiano fanno comunque venti studenti per negozio – non è semplice immaginare come gestirli. E infatti quando chiediamo come pensano di usare le 400 ore che sono obbligatorie per l’alternanza scuola-lavoro, prima ci viene risposto in modo vago e poi più realisticamente che il tempo che può spendere un tutor di McDonald’s per seguire uno studente in alternanza saranno al massimo 40 o 50 ore. E il resto del tempo? “Be’, pensiamo che faranno molte esperienze, in tante aziende diverse. È questo il senso del progetto”.
Il che è ovviamente sensato, ma riduce sostanzialmente le dichiarazioni di impegno che si immaginavano.
Questioni critiche simili a quelle che abbiamo sollevato per Zara o per McDonald’s si possono anche sollevare per le altre aziende coinvolte.
Il ministero sta interpretando di fatto l’alternanza scuola-lavoro come stage. Gli stessi studenti spesso confondono i termini
In generale ci si può chiedere per esempio perché le persone che si occupano di formazione o di risorse umane, o che coordinano training aziendali devono essere deputate a fare formazione a ragazzi delle superiori – il ruolo e la competenza di un formatore aziendale non sarà diversa da quella di uno che ha a che fare con ragazzi di sedici anni? Perché gli studenti devono essere edotti a questa o quella “filosofia aziendale” come se fosse un valore aggiunto? Quale monitoraggio il ministero o le scuole hanno sulla scelta dei tutor? Quale tipo di valutazione sarà fatta del progetto?
Ogni azienda a queste domande risponde in modo diverso, diverso è quello che dice il ministero, ancora diverso è quello che abbiamo visto accadere l’anno scorso. Qualcuno ha monitorato, qualcuno ha scritto relazioni, la maggior parte non ha fatto nulla, e ha lasciato gli studenti in balia di se stessi oppure li ha utilizzati come semplici tirocinanti o stagisti. È indicativo che il ministero – a parte i dati numerici – non abbia fornito un’analisi dei punti critici. L’alternanza scuola-lavoro potrebbe essere pensata e realizzata in un altro modo? Sì, ovviamente. E fa specie che il ministero non sembri mettere a frutto le esperienze pedagogiche in tal senso e si basi invece sull’esperienza di training che le aziende propongono.
Quando parlo con Simone Giusti – docente e consulente di politiche dell’istruzione, della formazione e dell’orientamento, difensore della didattica per competenze e dell’alternanza scuola-lavoro – trovo per esempio un altro modello: “Il lavoro dovrebbe essere pensato come un ambiente di apprendimento. Noi abbiamo una concezione molto fordista della formazione: a scuola si impara, al lavoro si applica. Quando vuoi imparare qualcosa, devi smettere di lavorare, andare a fare un corso, prenderti un titolo e imparare a lavorare con delle conoscenze, abilità e competenze in più. In vari stati del nord Europa”, continua Giusti, “quest’idea è stata superata in nome del fatto che al lavoro si impara e che è compito degli stati venire incontro alle esigenze del lavoratore, fornendo gli strumenti per capire quello che ha imparato, e facendo magari un esame poi. In Francia, in linea teorica, puoi prenderti un dottorato di ricerca lavorando. Questo ovviamente valorizza il pluralismo dell’apprendimento”.
In sostanza, conclude Giusti, “l’alternanza scuola-lavoro dovrebbe collocarsi in un contesto di questo tipo, in cui far capire alle persone che anche al lavoro si impara. Il problema è che non si è intervenuti nel mondo del lavoro, e adesso si chiede alla scuola di compensare questa mancanza: ma la concezione che il lavoro possa essere un apprendimento non è nemmeno all’orizzonte di questo governo”.
Il risultato di tutto questo è che il ministero sta interpretando di fatto l’alternanza scuola-lavoro come stage. Gli stessi studenti che ho intervistato spesso confondono i termini. Ma questa modalità è la meno interessante e la meno attuabile.
Trasformare la cultura del lavoro
Il secondo segnale negativo del progetto Campioni per l’alternanza è che ancora una volta il ministero passa sopra l’autonomia scolastica. Giusti mi dà ragione e anzi rincara la dose: “Questa è un’altra delle tendenze disastrose riprese dall’ex ministro dell’istruzione Fioroni, spianando poi la strada a Gelmini e Giannini, ricominciando a emanare circolari a getto continuo, e trattando le scuola non come realtà autonome, ma come esecutrici”.
Quello che manca è una buona ideologia dietro questo progetto che faccia valere il dibattito pedagogico come strumento di trasformazione della cultura del lavoro. Quello con cui abbiamo a che fare è il contrario: il prodotto di risulta di un toyotismo fuori tempo massimo che – dopo essere stato applicato all’industria privata e alla pubblica amministrazione – vorrebbe essere portato anche nella scuola.
Quando si legge che i ragazzi vogliono imparare il problem solving e le soft skill, ci si è già arresi al fatto che le nuove generazioni non potranno modificare in nulla il mondo che si trovano davanti e che il valore più grande che gli si possa trasmettere è l’adattabilità. Fa un po’ specie che questo punto di vista non è solo sostenuto da manager aziendali con qualche abilità retorica ma è avvalorato da studi che le aziende stesse commissionano alle università – in una specie di circolo vizioso di autoconferma anche del dibattito.
Alcuni giorni fa sono usciti i risultati della ricerca Giovani e soft skill tra scuola e lavoro commissionata da McDonald’s all’Osservatorio giovani dell’istituto Toniolo, che ovviamente autoverifica la stessa ipotesi di partenza di McDonald’s. Ecco un brano del comunicato aziendale: “Esiste un crescente riconoscimento da parte degli esperti di risorse umane dell’importanza del rafforzamento della formazione dei giovani non solo su conoscenze e competenze tecniche, ma anche rispetto alle soft skill. I dati dell’indagine mostrano in modo molto chiaro come questa consapevolezza sia molto forte anche tra i giovani stessi. Essi assegnano infatti, da un lato, una grande importanza alle competenze trasversali, sia per la crescita personale che per il lavoro, e, d’altro lato, riconoscono una bassa capacità della scuola nel fornirle in modo solido”.
Davvero dobbiamo credere a un modello di ricerca per cui gli studenti mettono al primo posto tra i valori formativi l’abilità di comunicazione interpersonale (86,2 per cento), il desiderio di imparare (86,1 per cento), la capacità di problem solving (85,6 per cento), la disciplina, la costanza e l’attenzione ai dettagli per il raggiungimento degli obiettivi (85,2 per cento) e il senso di responsabilità (84,9 per cento)? Insomma davvero dobbiamo ritenere che l’obiettivo della formazione sia in sostanza la customer care? E che i ragazzi si immaginino già pronti ad accogliere con il sorriso il prossimo cliente appena entrato nel locale?
L’appuntamento del 17 novembre
Sembrano domande retoriche, ma sono invece contestazioni fattuali che già molti studenti pongono al ministero. Il 10 novembre varie associazioni studentesche hanno organizzato delle proteste contro questo modello di alternanza. Il Coordinamento dei collettivi studenteschi ha inscenato un blitz nel Mc Donald’s di piazza Duomo, a Milano. E l’Unione degli studenti (Uds) ha pubblicato diversi documenti che criticano in maniera decisa l’impianto del progetto.
Francesca Picci, coordinatrice nazionale Uds dice: “Le aziende scelte non rispettano assolutamente i requisiti minimi per un’esperienza di qualità. Ci chiediamo come possano essere formative attività portate avanti in aziende, come McDonald’s, che non rispettano i diritti dei lavoratori e le norme ambientali; inoltre è evidente come siano luoghi dove i percorsi saranno completamente non inerenti al percorso formativo studentesco. Abbiamo bisogno di un’alternanza scuola-lavoro di qualità, davvero formativa e tutelata da uno statuto per chi studia in alternanza che oggi ancora manca, un codice etico a cui devono sottostare le aziende per essere considerate luoghi idonei. Gli studenti non sono merce di scambio e non possono essere sfruttati come manodopera gratuita, la formazione è un’altra cosa”.
La ministra Giannini ha fatto sapere che nei prossimi mesi sarà pubblicata una carta dei diritti e dei doveri di chi studia in alternanza, che si spera chiarirà alcuni di questi dubbi e fornirà una guida su quale è la cultura del lavoro in cui si iscrive il progetto dell’alternanza scuola-lavoro.
Nel frattempo è stata lanciata per il 17 novembre una giornata di mobilitazione studentesca nazionale “per fermare questo accordo scandaloso, e scendere in piazza anche contro gli effetti di questa Buona scuola.’’
Quanti studenti oggi sanno leggere una busta paga? Quanti conoscono la differenza tra sciopero e serrata?
Accanto a questo confronto acceso di idee sulla scuola è davvero indicativo un altro fenomeno meno censito. Con il declino delle grandi ideologie novecentesche – il novecento da superare, secondo le parole della ministra – che facevano del lavoro il loro paradigma di riferimento, sta scomparendo del tutto un’alfabetizzazione familiare o informale legata alla cultura del lavoro.
Coinvolti obbligatoriamente in percorsi ancora così sgangherati di alternanza, la maggior parte degli studenti liceali non conosce gli elementi essenziali della storia operaia, dei diritti del lavoro e così via. Quanti studenti oggi sanno leggere una busta paga? Quanti conoscono la differenza tra sciopero e serrata? Quanti sanno cos’è l’articolo 18, di che testo fa parte e cosa implica? Chi è incaricato a scuola di trasmettere questo tipo di conoscenze? Per esempio, informare su come le ultime riforme hanno insistito nel ridurre le ore di storia da vari curricula delle superiori, con l’effetto di una cancellazione de facto dell’educazione civica?
E ora il risultato potrebbe essere che un ragazzo di diciott’anni impari i valori di Zara o le soft skill di McDonald’s e non abbia mai sentito parlare di rappresentanza sindacale, non abbia idea di come funzioni il jobs act, non sappia dell’esistenza dello Statuto dei lavoratori.
Che insomma l’alternanza faccia crescere nei ragazzi solo la coscienza della necessità di adattarsi al mondo del lavoro, eliminando qualunque consapevolezza e spirito critico.
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