di Federico Fubini – corriere.it
Con la crisi, gli europei hanno iniziato a emigrare fra Stati dell’Unione. E il trend prosegue anche con la ripresa. Una trasformazione sociale in senso «americano»: la trasformazione della demografia europea in uno studio della Fondazione Leone Moressa
Nicola Gatta ha iniziato il 2018 come aveva finito il 2017: mantenendo lo stipendio a zero per se stesso e tutti i suoi assessori. I risparmi servono per far salire il numero dei residenti del suo Comune dai 2.802 attuali, o almeno a evitare nuovi cali. Il sindaco offre duemila euro l’anno — sconti su tassa per i rifiuti, mensa scolastica o asilo nido dei figli — a qualunque famiglia europea decida di stabilirsi a Candela. La condizione è di non provenire da villaggi piccoli come Candela stessa: Gatta non vorrebbe mai spopolarli come è accaduto al suo Comune quando, in questi anni, centinaia di giovani se ne sono andati in Italia del Nord, Germania o Regno Unito.
Se per caso l’Unione Europea cercasse un tema centrale per il 2018, potrebbe chiedere a questo sindaco in provincia di Foggia, perché ha una proposta più convincente delle molte che si ascoltano a Bruxelles o Francoforte: in Europa milioni di persone si stanno spostando sempre di più dai territori poveri di reddito e di opportunità — svuotandoli — verso le aree a densità sempre più alta di lavoro, conoscenze e reti sociali. Con la Grande recessione i giovani italiani, greci, spagnoli, bulgari, rumeni e di una decina di altri Paesi si sono messi in moto attraverso le frontiere dell’Unione. Solo ora però le conseguenze politiche e finanziarie in molti Stati iniziano ad emergere: si profilano dei vincenti e dei perdenti, e nuovi squilibri dei quali, a quanto pare, nei vertici di Bruxelles non si parla mai.
Un’Europa «americanizzata»
Gli europei sono sempre più disposti a cambiare Paese per lavorare e l’Europa in questo sta diventando più simile all’America, benché paradossalmente a tendenze incrociate: qui accelerano, lì rallentano. All’inizio del secolo quasi nove americani su cento cambiavano Stato ogni cinque anni, poi la crisi e il crollo immobiliare hanno rallentato i traslochi. In Europa invece la Grande recessione ha innescato una trasformazione del costume che prosegue con la ripresa: secondo Eurostat, nel 2016 vivevano in un altro Stato dell’Unione almeno 18 milioni di europei, il 12,5% più di due anni prima. Con il rafforzarsi dell’economia e la prospettiva di nuovi posti di lavoro ben pagati nelle economie più dinamiche, anche le migrazioni interne alla Ue aumentano. Nel 2015 (ultimo anno registrato da Eurostat) si sono trasferite da un Paese europeo a un altro 1,46 milioni di persone, il 13% più di due anni prima. Gli espatriati europei, oltre il 3% della popolazione, sono la quarta o quinta nazione dell’area euro e a questi ritmi raddoppieranno in dieci anni.
Il sogno dei fondatori si avvera: come in America, i giovani vedono nell’intera Unione Europea lo spazio nel quale realizzare le proprie vite. In Germania, al 2016, l’età media dei 4,3 milioni di europei residenti è di 31 anni. C’è però una differenza rispetto agli Stati Uniti o alle vaste migrazioni interne della Cina: la Ue non ha un bilancio comune che finanzi funzioni come scuole, polizia, sanità o pensioni nei territori che restano indietro e perdono le forze migliori a vantaggio degli altri. Il bilancio «federale» della Ue vale l’1% del reddito lordo, quello federale americano supera il 20% e anche così in America i territori rimasti indietro hanno reagito rabbiosamente eleggendo Donald Trump contro New York e San Francisco.
Paesi vecchi, immigrazione giovane (e istruita)
Anche in Europa le diseguaglianze territoriali rischiano di radicare il populismo nelle provincie perdenti, perché le migrazioni somigliano sempre più a un effetto di magnetismo dalle periferie verso il cuore tedesco del sistema. Per Berlino è la soluzione ideale: ogni anno dal lontano 1973 la Germania conta più morti che nuovi nati (l’Italia dal 1993), ma ora gli afflussi di europei stanno risolvendo il problema, perché un terzo dei migranti europei dal Sud e soprattutto da Est si dirigono proprio verso la Repubblica federale. Per effetto del saldo naturale negativo fra nati e morti, la popolazione tedesca sarebbe diminuita di 1,45 milioni di abitanti fra 2009 e il 2016, come mostra un’elaborazione della Fondazione Leone Moressa in collaborazione con il Corriere; invece negli stessi anni i residenti europei in Germania hanno più che controbilanciato, aumentando di 1,7 milioni: culturalmente omogenei ai nativi e in gran parte istruiti.
L’altro lato della medaglia è lo svuotamento demografico evidente nel grafico della Fondazione Moressa: Paesi come Ungheria, Romania, Bulgaria o i Baltici (per questi ultimi è un fenomeno più antico) vivono emorragie e crolli di popolazione. Anche l’Italia per anni ha beneficiato di questi flussi, benché ora gli italiani che emigrano verso l’Europa siano almeno 100 mila all’anno più degli europei che vengono in Italia (e la popolazione residente, per la prima e unica volta dalla febbre spagnola di un secolo fa, è in calo).
La periferia dell’Europa
L’impatto è un enorme trasferimento di risorse dalle aree più povere e senza lavoro d’Europa verso l’economia leader: vale circa 200 miliardi di euro l’investimento di risorse pubbliche e private nell’istruzione scolastica e universitaria di quei 1,7 milioni di europei in più che risultano residenti in Germania dal 2009 al 2016 (le stime del Corriere, caute, si basano sui costi indicati dall’Ocse su una ipotizzata quota del 30% di laureati).
Così l’Europa unita diventa un sistema per Robin Hood alla rovescia, ma sarebbe patetico criticare i tedeschi solo perché sanno attrarre e integrare gli altri. Anche ridurre la libertà di movimento in Europa andrebbe contro la volontà degli stessi europei (quasi il 90% si dice a favore, con gli italiani ultimi al 68%). Ma, da Candela, il sindaco ha qualcosa da dire a Bruxelles: datemi i progetti, e i soldi, per far fronte alle conseguenze.
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