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Cultura. Germinale di Emile Zola Famiglie di minatori e borghesia nel romanzo di E. Zola

Copertina del libro

Famiglie di minatori e borghesia nel romanzo di E. Zola

 Chiavi di lettura del romanzo

 

  • Recensione breve
  • Trama e i personaggi del romanzo
  • Incipit del romanzo
  • Chiusura del romanzo
  • Significato del termine Germinale
  • Villaggio dei minatori: la famiglia Maheu, l’arredamento della casa
  • La borghesia in Germinale
  • L’arredamento in casa Hennebeau
  • Le condizioni di vita dei minatori
  • La folla in Germinale

 

Recensione breve

 

Germinale (titolo originale Germinal) è un romanzo dello scrittore francese Emile Zola (1840- 1902). La vicenda è ambientata in Francia all’epoca della seconda rivoluzione industriale. Il libro è il tredicesimo del Ciclo I Rougon- Macquart (1871- 1893) ed è uno dei più celebri. Fu pubblicato come “romanzo d’appendice” nella rivista Gil Blas tra il novembre 1884 e il febbraio 1885, e poi come romanzo, nel marzo dello stesso anno (1885). La trama si svolge in una zona mineraria al nord della Francia, descrive la dura vita dei minatori, l’organizzazione politica e sindacale della classe operaia. Per la trama del suo lavoro, l’autore si ispirò alle proteste operaie verificatesi nel giugno – ottobre del 1869 nel dipartimento della Loira e in quello dell’Aveyron (Francia meridionale). In entrambi i casi, lo sciopero dei minatori fu schiacciato dall’esercito, che sparò sui lavoratori, provocando nel complesso ventisette morti. La miniera che fa da sfondo a Germinale, chiamata “Voreux”, impiega centinaia di operai che vivono in miseri sobborghi, tra i principali il villaggio di Montsou, situati vicino agli impianti di estrazione.Nel 1884, per scrivere il romanzo, Zola si recò a Denain, nella Francia del Nord, per vederecon i propri occhi la miniera della compagnia mineraria di Anzin, la più importante dell’epoca. Visitò le abitazioni dei minatori, le taverne e gli altri luoghidi ritrovo, ma soprattutto scese nei pozzi minerari, costatando di persona le pesantissime condizioni di quanti lavoravano all’estrazione del carbone. Per il personaggio di Lantier potrebbe essersi ispirato al sindacalistaEmile Basly.

 

Trama e i personaggi del romanzo

Figlio di Gervaise Macquart (protagonista del romanzo “Assomoir”) e del suo amante Lantier, il giovane Étienne Lantier (fratellastro di “Nanà” dell’omonimo romanzo), è stato allontanato dal lavoro nelle ferrovie per aver schiaffeggiato il suo capo. Disoccupato e in piena crisi industriale, decide di partire per il Nord alla ricerca di un nuovo impiego. È assunto alle miniere di Montsou, dove scopre le spaventose condizioni di lavoro dei minatori. Étienne conosce una famiglia di minatori, i Maheu, e s’innamora della giovane Catherine; quest’ultima è promessa a un rude operaio, Chaval, e sebbene la ragazza sembri interessata a Étienne, mantiene nei suoi confronti uno strano comportamento. Chaval è geloso di Étienne e temendo che la ragazza preferisca a lui il nuovo arrivato, fa in modo di costringere la giovane al matrimonio riparatore, abusando di lei. Étienne riesce a integrarsi rapidamente nel popolo dei minatori, ed è sconvolto dalle condizioni di vita e dall’ingiustizia che regna in quel luogo. Comincia assai rapidamente a diffondere idee rivoluzionarie. Quando la compagnia mineraria, a causa della crisi economica, decreta una riduzione dei salari, Etienne spinge i minatori a scioperare; riesce a vincere la diffidenza e la rassegnazione e condivide con loro il suo sogno di una società più giusta. Quando scatta lo sciopero, la compagnia mineraria assume una posizione molto rigida e rifiuta ogni trattativa. Affamati da settimane di lotta, i minatori intensificano loscontro: rompono i macchinari e le installazioni minerarie, e aggrediscono alcuni esponenti della borghesia. L’esercito sopraggiunge per ristabilire l’ordine, ma lo sciopero continua. Molti minatori sfidano i soldati, che iniziano a sparare sui manifestanti: Maheu, l’operaio presso il quale Lantier abitava, è ucciso.Lo sciopero è un fallimento, e i minatori si rassegnano a riprendere il lavoro. Souvarin, un operaio anarchico, sabota la miniera. Nell’incidente muoiono molti minatori, tra i quali anche Zaccaria, fratello di Catherine, che sta portando i soccorsi con altri compagni, al comando dell’ingegner Negrel. È spazzato via da uno scoppio improvviso del micidiale “Grisou”. Étienne, Catherine e Chaval rimangono bloccati nelle gallerie. Chaval provoca Étienne, e quest’ultimo lo uccide e può finalmente diventare il compagno di Catherine maquesta muore poco dopo aver trovato l’amore. Étienne esce vivo dall’inferno della miniera, e decide di tornare a Parigi. Anche se la rivolta è fallita, Étienne continua a credere nella causa della lotta degli operai contro le disuguaglianze, ed è persuaso che un giorno i lavoratori riusciranno a eliminare l’ingiustizia.

Incipit del romanzo

“Nella rasa pianura, sotto la notte senza stelle, scura e spessa come l’inchiostro, un uomo solo seguiva lo stradone che andava da Marchienne a Montsou, dieci chilometri di selciato diritto che tagliava un campo di barbabietole. Davanti a sé, non vedeva neanche la terra nera, e soltanto i soffi del vento di marzo, dalle raffiche ampie come in pieno mare, gelide per aver spazzato intere leghe di paludi e terre nude, gli davano la sensazione dell’immenso orizzonte piatto. Nessuna ombra di albero si stagliava sul cielo, il selciato si stendeva con la precisione di una gettata, in mezzo all’oscurità accecante delle tenebre.L’uomo era partito da Marchienne verso le due. Camminava a passi ampi, tremando sotto il cotone sottile della sua giacca e del suo pantalone di velluto. Un pacchettino, annodato in un fazzoletto a quadri, gli dava molto fastidio e lo stringeva contro i suoi fianchi, ora con un gomito, ora con l’altro, per far scivolare in fondo alle tasche entrambe le mani che le lamine del vento facevano sanguinare. Un’unica idea occupava la sua testa vuota di operaio senza lavoro e senza alloggio, la speranza che il freddo sarebbe stato meno intenso dopo il sorgere del giorno. Da un’ora camminava così, quando sulla sinistra, a due chilometri da Montsou, scorse dei fuochi rossi, tre bracieri brucianti all’aria aperta, e come sospesi. Inizialmente esitò, preso dalla paura; poi, non poté resistere al bisogno doloroso di scaldarsi un po’ le mani”.

L’arco cronologico delle vicende raccontate va dal marzo del 1866 all’aprile dell’anno successivo (1867). Tutto il romanzo è diviso in sette parti, dai cinque ai sei capitoli ognuna, 644 pagine totali. Descrive con un linguaggio crudo e oggettivo tutto il mondo dei minatori. Etienne Lantier arriva del tutto casualmente nel villaggio operaio di Montsou. Fa il suo ingresso nella miniera. Sono descrittele condizioni di vita degli operai nelle proprie case e in miniera. Il loro lavoro è scandito da ritmi bestiali.C’è promiscuità tra donne, giovani, bambini e anziani. I momenti di festa nel villaggio coincidono conubriacature collettive. Etienne, che rappresenta gli ideali dell’Internazionale e del Comunismo, si confrontacon Souvarin che ha sposato l’anarchia di Bakunin.Rasseneur è un socialista riformista. In mezzo a tutto c’è la violenza del capitale. La borghesia è sorda e complice dei soprusi. Gli ingegneri e i direttori, che sovrintendono alle diverse miniere della zona, per conto della Compagnia Mineraria che ha sede a Parigi, sono: I Gregoire, i Deneulin, gli Hennebeau, l’ingegner Negrel. Sonofigure scialbe, volgari e violente. In mezzo a loro emergono la moglie del direttore Hennebeau e il commerciante Maigrat. Lo sciopero fallisce.L’esercito spara sugli operai.Gli operai, sconfitti, sono costretti a ritornare in miniera, dopo aver contato i propri morti.Souvarin sabota la miniera del Voreux. Muoiono Caterina, Zaccaria, Chaval. Etienne saluta Maheude, la moglie del Maheu, che perso il marito, Alzira, Catherine e Zaccaria, ritorna in miniera, lei che aveva giurato a se stessa che avrebbe impedito a chiunque di ritornare nel mostro terribile che ingoia vite umane.

Germinalefinisce dunque tragicamente. Lo sciopero fallisce. Molti operai sono uccisi. Etienne (Stefano) deve fuggire. Il tempo della rivoluzione proletaria, del socialismo e della completa uguaglianza appare remoto ed irraggiungibile. Malgrado ciò, Zola non è rassegnato né disperato. Gli oppressi non sono riusciti a liberarsi ma il fallimento riguarda solo un episodio specifico, e non l’intera vicenda umana. Sotto questo profilo, grande è la differenza con Giovanni Verga, dove tutti gli uomini sono destinati a fallire i loro obiettivi e tutti sono dei vinti. Per Zola, se alcuni uomini sono oggi vinti, i loro figli e i loro nipoti potranno un domani vivere meglio e il merito di tale miglioramento non può non essere anche dello scrittore impegnato a denunciare la violenza e lo sfruttamento di cui essi sono stati per troppo tempo le vittime.

 

Chiusura del romanzo

“Erano le quattro del mattino. L’avvicinarsi del giorno intiepidiva la fresca notte d’aprile. Nel limpido cielo le stelle vacillavano vicine a spegnersi, mentre l’orizzonte s’imporporava a levante del primo annuncio dell’alba. E sulla buia campagna assopita correva un brivido, quell’impercettibile fremito che precede il risveglio. A grandi passi Stefano percorreva la strada di Vandame. Usciva dall’ospedale di Montsou, dov’era rimasto degente tre settimane. Pallido ancora ed emaciato, si era sentito abbastanza in forza da partire, e si muoveva La Compagnia che, sempre in apprensione per i suoi pozzi, seguitava a licenziare alla spicciolata operai, gli aveva fatto sapere che non poteva tenerlo. In compenso, gli offriva cento franchi di buona uscita; e paternamente lo consigliava a lasciare il lavoro delle miniere, ormai troppo gravoso per lui. Stefano aveva rifiutato l’offerta; già ora in possesso di una lettera di Pluchart (l’amico sindacalista, che aveva chiamato a Montsou per un incontro co i minatori) che lo chiamava a Parigi e gli accludeva i denari per il viaggio… Vaghi, gli si affacciarono al ricordo i volti di Rasseneur e di Souvarin. Tutto andava a rotoli, quando ognuno voleva comandare; così la famosa Internazionale, che pareva dovesse rinnovare il mondo, abortiva per debolezza dopo aver visto il formidabile esercito di cui disponeva scindersi, sgretolarsi, minato all’interno da rivalità. Darwin aveva dunque ragione? Il mondo non sarebbe che una lotta, dove i forti divorano i deboli per la continuità e il miglioramento della specie? Sebbene nella sua presunzione lo scacciasse questo dubbio, lo turbava. Ma un’ispirazione lo soccorse. Se una classe doveva perire, non era naturale fosse la borghesia, infrollita nei piaceri; a sopraffarla, il popolo, così giovane, così traboccante di vita? Era stata la sua prima interpretazione della teoria darwiniana; l’idea di riprenderla alla prima occasione, parlando alla folla, lo entusiasmò. Da un sangue nuovo sorgerebbe una società diversa. E quella prospettiva di un’irruzione di barbari che rigenerasse le vecchie nazioni prossime al crollo, offriva in lui la certezza che la rivoluzione era alle porte. Immerso in questi pensieri, seguitava a camminare, scartando i sassi col bastone. Laggiù sotto terra, a settecento metri di profondità, certo a quest’ora risuonavano – e gli pareva d’udirli – i colpi sordi, cadenzati, incessanti delle piccozze. Erano i compagni che poco prima aveva visto avviarsi, gli uomini neri che nella loro rabbia silenziosa, scavavano. Certo, dalla lotta erano usciti vinti; vi avevano rimesso vite e danaro; ma Parigi non li dimenticherebbe i colpi di fucile del Voreux; da quella ferita sempre aperta colerebbe il sangue stesso dell’Impero; e, se la crisi industriale volgeva alla fine, se una ad una le fabbriche riaprivano, che importa? Lo stato di guerra era dichiarato, la pace non era più possibile. I lavoratori del carbone si erano contati; avevano saggiato la loro forza; svegliato dal torpore, con la loro richiesta di giustizia, tutta la Francia operaia. La loro disfatta non tranquillizzava nessuno; i borghesi di Montsou, presi, già nell’esultanza della vittoria, da un sordo malessere, si volgevano a guardare se il grande silenzio che si era fatto non covasse, inevitabile, la loro fine… Alto nel cielo, ora il sole di germinale raggiava in tutta la sua gloria. Al caldo dei suoi raggi, la terra sprigionava in mille forme la vita dal suo grembo materno. Le sementi gonfiavano, bucavano di germogli la zolla, variavano i solchi del loro tenero verde. Le gemme degli alberi si schiudevano in lucide foglie; i campi trasalivano sotto la spinta dell’erba, agognanti alla luce. Ma sotto quel tripudio della natura, sempre più distinto, il giovane continuava a udire l’oscuro travaglio dei minatori. E di questa messe soprattutto la terra era incinta; una messe che spunterebbe un giorno alla luce, grandeggerebbe nei solchi per gli imminenti raccolti. Là in fondo un esercito lentamente cresceva; un nero esercito vendicatore che, schiantando la terra, ben presto esploderebbe alla luce”.

Significato del termine Germinale

“Germinal” è il termine che in francese designa ciò che riguarda la germinazione. Quando, dopo il 1789, i rivoluzionari abbatterono la Monarchia per instaurare la prima Repubblica francese, decisero di sostituire il vecchio calendario istituzionale con uno nuovo che seguisse il ritmo naturale della successione del tempo. Il settimo mese, che cadeva tra marzo e aprile, fu chiamato “germinale” proprio perché era il mese in cui la natura germogliava. L’inizio della vicenda comincia proprio in questo periodo dell’anno; si parla, infatti, del “vento di marzo”. Questo termine è dunque legato da un lato all’idea della rivoluzione sociale, dall’altro a quella della rinascita, della vita, del ciclo continuo della natura, della speranza. Tuttavia, richiamandosi a una rivoluzione che destò molte attese ma che finì con un grande fallimento per le classi popolari, l’idea di speranza che è implicito in questo titolo si accompagna anche a un sentimento di perdita, d’illusione.

Villaggio di minatori: la famiglia Maheu, l’arredamento della casa.

“In mezzo a campi di grano e barbabietola, la borgata operaia dei Duecentoquaranta dormiva nella notte nera. Vagamente si distinguevano i suoi quattro vasti isolati di piccole abitazioni addossate. Erano edifici geometrici, paralleli, evocanti la caserma e l’ospedale; separati da tre spaziosi viali, spartiti in tanti orticelli eguali. E sullo spiazzo deserto non si udiva che il lagno delle raffiche nei graticci divelti degli steccati. In casa Maheu, al numero 16 del secondo isolato, nulla si muoveva. Nell’unica stanza al primo piano regnava un buio pesto che pareva schiacciare del suo peso il sonno dei vivi che vi s’indovinavano ammucchiati; a bocca aperta, atterrati dalla stanchezza. Nonostante il freddo intenso di fuori, l’aria appesantita conservava un calore animale; quel soffoco che si respira nelle stanze, per bene tenute che siano, e che sa di bestiame umano. Suonarono le quattro al cucù della sala a pianterreno. Nulla ancora si mosse; sibili di respiri esili cui tenevano bordone due ronfi sonori. La prima ad alzarsi fu Caterina. Sebbene stanca morta, la ragazza aveva udito al piano di sotto scoccare le ore e per abitudine le aveva contate, pur senza ancora trovare la forza di scuotersi del tutto il sonno di dosso. Buttate le gambe fuori delle coperte, cercò tastoni la candela; e, strofinato un fiammifero, l’accese. Ma a tirarsi su non ce la faceva; la testa pesante, cedendo al bisogno invincibile di ricadere sul cuscino, le ciondolava da una spalla all’altra. Ora la candela rischiarava la camera; una stanza quadra, con due finestre, occupata da tre letti. C’era un armadio, una tavola, due vecchie seggiole di noce, che staccavano sull’ocra chiaro delle pareti. Nient’altro: dei vestiti appesi a un chiodo, una brocca posata per terra, presso una ciotola grezza che serviva da catino. Nel letto di sinistra Zaccaria, il primogenito di ventun anno, era coricato col fratello Gianlino, che ne compiva undici; in quello di destra due marmocchi, Leonora ed Enrico, la prima di sei, il secondo di quattro anni, dormivano abbracciati; mentre Caterina divideva il terzo con la sorella Alzira, così poco sviluppata per i suoi nove anni che la ragazza non ne avrebbe neppure avvertita la vicinanza, non fosse stata la gobba della piccola malata che le sfondava le costole. Per la porta a vetri aperta, si vedeva il pianerottolo; specie di corridoio, dove il padre e la madre occupavano il quarto letto, contro il quale avevano dovuto sistemare la cuna dell’ultima nata, Estella, di appena tre mesi. Caterina faceva sforzi disperati per vincere la sonnolenza. Si stirava, si ficcava le dita nella selva di capelli rossicci che le cadevano arruffati sulla fronte e sulla nuca. Mingherlina per i suoi quindici anni, di sé, fuori dalla stretta guaina della camicia, non lasciava vedere che i piedi infreddoliti e le braccia delicate, di un biancore latteo che contrastava con la tinta smorta del viso, già sciupato dal quotidiano lavarsi con sapone scadente. Un ultimo sbadiglio le spalancò la bocca, un po’ grande, su dei bellissimi denti che smagliavano sul rosa anemico delle gengive; mentre gli occhi grigi assumevano un’espressione di pianto, una manifestazione affranta, che pareva gonfiare di fatica tutta la sua nudità. Dal pianerottolo giunse un grugnito; la voce impastoiata di Maheu che borbottava: – Perdìo, è ora! Hai acceso tu, Caterina? – Sì, padre. E’ suonato ora, da basso. – Spicciati dunque, fannullona! Se ieri sera avessi smesso prima, di ballare, ci avresti svegliato da un po’. Bella vita che si fa! E seguitò a brontolare; ma, riguadagnato dal sonno, la lingua gli s’ingarbugliò, i rimproveri cessarono: riprese a russare. La giovinetta in camicia si aggirava sull’ammattonato della stanza a piedi scalzi. Nel passare davanti al letto di Enrico e di Leonora ricondusse sui due le coperte che n’erano scivolate; annientati dal sonno dell’infanzia, quelli seguitarono a dormire. Alzira aveva aperto gli occhi; e, zitta zitta, si era rigirata per occupare il posto lasciato caldo dalla sorella. – Su dunque, Zaccaria! E tu, Gianlino, andiamo! – ripeteva Caterina, ritta davanti ai fratelli che non si muovevano, il naso ficcato nel cuscino. Dovette afferrare il maggiore per le spalle e scuoterlo; poi, mentre egli masticava ingiurie, si decise a scoprirli, strappando loro le coperte di dosso. Vedendoli dibattersi a gambe nude, li trovò buffi e rise. – Non far la stupida, smettila! – borbottò Zaccaria di malumore, quando si fu rizzato a sedere. – Non mi vanno gli scherzi. Era magro, dinoccolato, con un viso lungo, seminato di radi peli, i capelli biondicci e il colorito anemico, comune a tutta la famiglia. Non per pudore, ma per non prendere freddo, abbassò la camicia che gli era risalita sul ventre. – E’ suonato da basso, – ripeteva Caterina. –Andiamo. Saltate giù. Se no, il babbo… Gianlino, che s’era raggomitolato su se stesso, richiuse gli occhi, dicendo: – Vatti a fare… Io dormo. Di nuovo lei rise, di un riso di buona figliola. Gianlino era così piccolo, mingherlino, con le articolazioni ingrossate dei linfatici, che lei non durò fatica a toglierlo di peso dal letto. Lui si divincolava, mentre il viso scialbo e grinzoso di scimmia, bucato dagli occhi verdi, impallidiva di rabbia impotente. Senza parlare la morse a un seno. – Mascalzone! – mormorò lei trattenendo un grido; e lo depose in terra. Alzira, zitta zitta, il mento ficcato sotto le coperte, seguiva con i suoi occhi svegli d’inferma ogni movimento della sorella e dei fratelli, occupati ora a vestirsi. Una disputa si accese a proposito del catino; i due maschi respinsero a spintoni la sorella, trovando che impiegava troppo tempo a lavarsi. Le camicie svolazzando scoprivano ciò che erano destinate a nascondere, mentre, gonfi ancora di sonno, tutti e tre facevano pipì con la placida disinvoltura di una covata di cuccioli cresciuti insieme. Caterina fu la prima a essere pronta. Infilò le brache da minatore, il camiciotto di tela, annodò intorno alla crocchia la cuffia turchina. Negli abiti puliti del lunedì, l’avresti detta un maschio, non avesse denunziato il suo vero sesso, un lieve molleggiare delle anche. – Quando rincasa il vecchio, – osservò maligno Zaccaria, – avrà piacere a vedere il letto sossopra. Ma non dubitare, gli dirò io chi deve ringraziare. Il vecchio era il nonno: Bonnemort, che, lavorando di notte, si coricava di giorno; sicché la cuccia non faceva mai a tempo a freddarsi; dopo l’uno, vi entrava l’altro, a russare. Senza dargli risposta, Caterina tirava su le coperte, le rincalzava. Ormai dei rumori giungevano attraverso i muri dell’appartamento attiguo. In quelle case che la Compagnia aveva fatto per economia costruire in mattoni, le pareti erano così sottili che un respiro le attraversava. Si viveva gomito a gomito; e la vita intima d’ognuno non aveva segreti neppure per i bambini. Ora, si era prima udito un passo pesante per la scala che ne vibrava; quindi l’abbandonarsi di un corpo in qualcosa di soffice, seguìto da un rifiato di sollievo. – Benone! – commentò Caterina. – Ecco Levaque che scende, e Bouteloup che prende il suo posto nel letto della moglie. Gianlino sghignazzò e persino negli occhi di Alzira passò un lampo di malizia. Ogni mattino li metteva di buon umore il trio dei vicini. Un operaio di turno di giorno ne alloggiava un altro di turno di notte. Era una combinazione che garantiva alla Levaque un marito di notte e uno di giorno. – Filomena tossisce, – riprese Caterina che tendeva l’orecchio. Dei Levaque, Filomena era la figlia maggiore; una spilungona di diciannove anni, l’amante di Zaccaria, il quale le aveva già fatto due figlioli; così cagionevole di petto che, non avendo mai potuto lavorare in fondo alla miniera, l’avevano messa alla cernita del carbone. – Beh! Filomena! – chiosò Zaccaria. – Lei se ne impipa, lei se la dorme! E’ da sporcacciona dormire sino alle sei! Si stava infilando le brache, quando, attraversato da un’idea, aprì la finestra. Fuori, nel buio, il borgo operaio si svegliava; le imposte chiuse si punteggiavano di lumi. Ed ecco scoppiare un nuovo battibecco: Zaccaria si sporgeva a curiosare se, dalla casa dei Pierron, lì in faccia, uscisse Danseart, il sorvegliante del Voreux, che si diceva se la facesse con la Pierron; mentre la sorella gli gridava che già dal sabato il marito aveva preso servizio di giorno, per cui, evidentemente, Danseart non poteva aver dormito quella notte con l’amante. Entrambi si riscaldavano a sostenere ciascuno l’esattezza delle sue informazioni; e intanto l’aria dell’esterno entrava a ventate nella camera, finché Estella, raggiunta nella culla da quel gelo, scoppiò in lacrime e strilli. Quel pianto destò di colpo Maheu. Che aveva addosso da riaddormentarsi a quel modo, come un buono a nulla? E sacramentava con tanta energia che più nessuno nella stanza fiatava. Gianlino e Zaccaria finirono di lavarsi con infastidita lentezza. Nonostante il baccano, i due marmocchi, Eleonora ed Enrico, uno nelle braccia dell’altro, non si erano mossi e si continuava a udire il loro piccolo respiro. – Caterina, porta di qua la candela! – gridò Maheu. Finendo di abbottonarsi, la ragazza obbedì, lasciando che i fratelli cercassero i loro abiti alla poca luce che veniva dalla porta. Mentre suo padre saltava giù dal letto, lei scese tastoni, in calzerotti di lana come stava; e in sala accese un’altra candela per preparare il caffè. Sotto la credenza erano schierati tutti gli zoccoli della famiglia. – Vuoi piantarla malanno! – gridò Maheu a Estella che non la smetteva di strillare. Basso di statura come il vecchio Bonnemort(il padre di Maheu), gli somigliava per quanto un grasso può ricordare uno magro; lo stesso testone, l’identica faccia piatta e livida sotto i capelli biondicci tagliati corti. L’armeggiare delle sue lunghe braccia nerborute sopra la culla, spaventava la bambina che berciava sempre di più. – Lasciala gridare; intanto non c’è verso di chetarla, lo sai! – disse la moglie allungandosi nel letto ormai tutto per sé. Anche lei adesso si era svegliata; e si lagnava di non poter dormire in pace una notte intera. Che non avrebbero potuto andare al lavoro senza romperle ogni volta il sonno? Ficcata sotto le coperte, non lasciava vedere che il lungo viso dai tratti marcati, di una bellezza massiccia, già sciupata a trentanove anni dalla sua vita disagiata e da sette gravidanze. Indolente, con gli occhi al soffitto, prese a discorrere, mentre il suo uomo si vestiva. Ora né lei né lui avvertivano più gli strilli della bambina che si strangolava a gridare. – Sai che mi trovo già a secco? E non siamo che a lunedì! Ancora sei giorni per arrivare alla quindicina. Così non si può andare avanti. Fra tutti portate in casa nove franchi. Come vuoi che ce la faccia? Siamo in dieci bocche. – Nove franchi! – protestò Maheu. – Io e Zaccaria, tre: sono già sei. Caterina e il vecchio due: fanno quattro. Quattro e sei: dieci. E un franco Gianlino, fa undici! – E sia: undici. Ma le domeniche non le conti? E nei giorni che non si lavora? In media, non sono mai più di nove franchi al giorno. Il marito non rispose: cercava in terra la cinghia. Rialzandosi: -Va’ là, non lamentiamoci! Io sono ancora in gamba. Quanti a quarant’anni passano alla manutenzione! – Va bene, caro; ma con questo il pane resta quello che è. Come me lo aggiusto oggi? Non hai niente tu? – Due soldi, ho. – Tienli per il tuo gotto di birra. Mio Dio, come rimedio? Sei giorni sono lunghi a passare! Con Maigrat siamo in debito di sessanta franchi. Ieri l’altro mi ha messo alla porta. Andrò lo stesso a vedere; ma se si ostina… E la donna seguitò con voce querula il suo lagno; immobile, chiudeva ogni tanto gli occhi alla luce smorta della candela. Diceva della dispensa vuota, dei marmocchi che le chiedevano da mangiare; del caffè esaurito, dell’acqua che provocava delle coliche, delle interminabili giornate passate a ingannar la fame con foglie di cavolo lesse. A poco a poco aveva dovuto alzar la voce per soverchiare gli strilli di Estella. Solo quando questi divennero assordanti, Maheu diede segno d’udirli; fuori di sé, afferrò l’urlante fagottino e lo buttò sul letto della madre. – Tieni, – e l’ira lo faceva tartagliare, – prendila tu, se no la strozzo. Maledetta bambina! Tetta non le manca nulla, a lei; e protesta più forte degli altri! Già Estella si era attaccata al capezzolo; ricoverata sotto la coperta, calmata dal calduccio del letto, già non lasciava più udire che il piccolo succhio ingordo delle labbra. Maheu, in capo a un silenzio: – Quei signori della Piolaine non ti avevano detto che ti facessi vedere? Lei torse la bocca: c’era poco da sperarne. – Sì, li ho incontrati per strada. Vanno in giro a portare dei vestiti ai bambini poveri. Insomma, stamattina andrò da loro. Mi porterò Leonora ed Enrico. Mi dessero anche solo uno scudo… Una pausa. Maheu era pronto. Restò un momento lì irresoluto; poi con voce sorda: – Che cosa posso farci io? E’ com’è; aggiustati per la minestra… A parlarne non si rimedia, meglio andare al lavoro. – Hai ragione. Spegni la candela: non mi occorre, per vedere di che colore sono i miei pensieri… Già Zaccaria e Gianlino scendevano; il padre li imitò e la scala scricchiolò sotto i passi pesanti, attutiti dai calzerotti di lana. Alle loro spalle, lo stanzino e la camera ricaddero nel buio. Ora i piccoli dormivano e anche Alzira aveva calato le palpebre sugli occhi. Solo la madre restò a fissare il buio a occhi aperti, mentre Estella appesa alla mammella cascante lasciava sfuggire un borbottio di gattino sazio. Da basso, Caterina si era anzitutto preoccupata d’accendere il fuoco nella stufa di ghisa con un fornello a graticola al centro e due ai lati, nei quali bruciava giorno e notte del carbon fossile. La Compagnia passava mensilmente a ogni famiglia otto quintali di scaglietta, carbone duro che era raccattato nei cunicoli. Siccome si accendeva con difficoltà, la ragazza ogni sera lo copriva; e così il mattino dopo non aveva che da scuotere la cenere e da aggiungere qualche pezzetto di carbone tenero. Quindi, messo il bricco al fuoco, venne a dare un’occhiata a ciò che restava nella credenza. La stanza assai ampia (occupava l’intero pianterreno) era tenuta con estrema pulizia. Intonacata di verde chiaro, aveva il pavimento lavato a sguazzo e cosparso di sabbia bianca. Con la credenza di abete verniciato, la ammobiliava una tavola e delle seggiole dello stesso legno. Alle pareti, stampe a colori chiassosi – i ritratti dell’imperatore e dell’imperatrice regalati dalla Compagnia; guerrieri e santi dorati – contrastavano con la nudità dell’ambiente. Completava l’arredamento, una scatola, sulla credenza, di cartone rosso e l’orologio a cucù, dal quadrante dipinto a vivaci colori che riempiva del suo tic-tac il vuoto del soffitto. Presso la porta che dava sulla scala, un altra se ne apriva per la quale si scendeva in cantina. A dispetto della pulizia che vi regnava, ammorbava l’aria costantemente appesantita dal sentore del carbon fossile – il tanfo di soffritto di cipolla che vi persisteva dal giorno prima. Davanti alla credenza aperta, ora Caterina rifletteva. Nell’armadio non restava che un pezzo di pane del formaggio molle da tavola e solo più un’ombra di burro; bisognava ricavarne quattro pagnottelle da portarsi sul lavoro. La ragazza si decise: affettò il pane; una fetta la coprì di formaggio, l’altra la spalmò parsimoniosamente di burro: il primo panino era fatto. Un momento dopo tutte e quattro le pagnottelle s’allineavano sul tavolo; dalla più grossa destinata al babbo, alla più piccola destinata a Gianlino”.

La Borghesia in Germinale.

Non tutti i rappresentanti della Borghesia sono marci. I Gregoire portano dei viveri nelle case dei minatori in sciopero, anche se questo avviene dopo la cessazione dello stesso. La decisione della Compagnia mineraria imponeva ai minatori una riduzione di cinque centesimi per ogni “berlina”, carrello di carbone estratto, adducendo il pretesto che la somma risparmiata andava a coprire il lavoro di manutenzione delle miniere. Al primo giorno di sciopero, in casa Hennebeau si stanno aspettando gli invitati loro amici per una colazione. In realtà, lo scopo dell’invito è di affrettare, secondo il disegno della signora Hennebeau, il matrimonio del proprio nipote Paul Negrel con Cecile, la figlia dei Gregoire. Il direttore della miniera, Hennebeau era indeciso su come fronteggiare lo sciopero. La signora invece pensava ad altro e senza scomporsi, disse: “Ah, si sono messi in sciopero, – fece la donna, quando lui l’ebbe richiesta del suo avviso. – Ebbene, che ci fa? Non lasceremo mica di far colazione per questo, è vero? – Lui ebbe un bel dire che la giornata non si annunziava adatta per un invito a pranzo, e che la visita a Saint-Thomas (la miniera vicina che i Gregoire avevano trasformata, dotandola di nuovi e moderni macchinari) non si sarebbe potuta fare; lei trovava risposta a tutto: perché mandare a monte un desinare già avviato? Quanto alla gita, si vedrebbe al momento: se davvero presentava qualche rischio, ci si rinunzierebbe.- Del resto, – aggiunse quando la cameriera che la pettinava, se ne fu andata, – sai perché mi sta a cuore avere qui quella brava gente. Questo matrimonio dovrebbe importarti di più che non le bizze dei tuoi operai. Insomma, mi piace così: non mi contrariare.Lui la guardò e un leggero tremito tradì, su quel viso duro e chiuso di uomo d’ordine, il morso di un segreto dolore. L’accappatoio lasciava scoperte le spalle e il seno della donna: delle spalle e un seno di Pomona indorata dall’autunno; di una bellezza sontuosa e, per quanto matura, desiderabile ancora. Un attimo lui dovette provare prepotente il desiderio di prenderla, di morderla come un frutto, nel tepore e nell’irritante profumo di muschio di quella stanza dove tutto respirava lusso e sensualità. Ma si contenne: da dieci anni dormivano separati.- Sta bene, – disse andandosene. – Lasciamo tutto com’è.Hennebeau era nato nelle Ardenne. I suoi inizi erano stati difficili. Trovatosi, ragazzo ancora, orfano e senza mezzi, aveva seguìto con ogni sorta di sacrifici il corso d’ingegnere minerario a Parigi.Laureatosi a ventiquattr’anni e partito per la Grand Combe, aveva fatto la prima pratica nella miniera di Santa Barbara. Tre anni dopo, i pozzi di Marles, nel Pas- de-Calais, lo avevano visto ingegnere divisionale; ed era stato qui ch’egli s’era ammogliato, sposando – colpo di fortuna di regola nella sua carriera – la figlia d’un ricco filandiere di Arra Quindici anni la coppia aveva abitato la piccola città di provincia. La monotonia di quella vita, non allietata neppure dalla nascita di un figlio, congiurò a distaccare sempre più i due coniugi. La donna, allevata nell’adorazione del denaro, cominciò a disdegnare quel marito che guadagnava con tanto stento così poco da non consentire alla sua vanità alcuna di quelle soddisfazioni che da educanda aveva vagheggiato.Lui, di un’onestà intransigente, non speculava, rigido come un soldato nell’adempimento del suo dovere. Ad aggravare il disaccordo tra i due si era aggiunto sin dal principio uno di quei curiosi malintesi della carne che gelano i temperamenti più ardenti; lui adorava la moglie; lei era di una sensualità ingorda di bionda; e già dormivano divisi, a disagio ambedue, irrimediabilmente urtati sin dal primo approccio. E, a sua insaputa, già la moglie aveva un amante, quando, nel desiderio di venire incontro alle sue aspirazioni, Hennebeau lasciò i pozzi di Marles per accettare a Parigi un posto negli uffici. Ed era invece Parigi che doveva rendere definitiva la loro disunione; quella Parigi dove lei, sin dal tempo della prima bambola, aveva sognato di vivere; e dove, diventata di colpo elegante, spogliatasi nel giro di una settimana d’ogni provincialismo, la donna si lanciò nel vortice di tutte le dispendiose follie del tempo. I suoi dieci anni di soggiorno parigino furono riempiti da una grande passione: scandaloso legame con un uomo; il cui abbandono poco mancò la uccidesse. Questa volta lui non poté ignorare; avvennero fra i due coniugi scenate tremende; ma, disarmato davanti alla placida incoscienza con cui quella donna prendeva il suo bene dove lo trovava, egli si rassegnò.Fu dopo la rottura tra i due, quando la vide ammalarsi di dolore, che Hennebeau aveva accettato il posto di direttore nelle miniere di Montsou, nell’estrema speranza che, portata a vivere in quel deserto, la donna finisse per correggersi.Il trasferimento a Montsou significò per la coppia un ritorno alla noia e all’irritazione dei primi tempi del matrimonio. Lei, sulle prime, parve trarre sollievo da quella grande pace, attingere calma dalla monotonia di quella piatta pianura sconfinata. Prese anzi le arie della donna finita il cui cuore è morto per sempre e che ormai si sente così distaccata dal mondo che non si cruccia neanche più di ingrassare. Ma sotto quella cenere covava un’ultima fiamma che non tardò a manifestarsi: un bisogno di vivere ancora che la donna ingannò dandosi durante sei mesi febbrilmente da fare per sistemare e arredare a suo modo la casa. Dichiarando che, nello stato in cui si trovava, era impossibile viverci, la riempì di tappezzerie, di ninnoli, di oggetti d’arte, con un gusto e un lusso che della casa degli Hennebeau si parlò anche a Lilla. Ma appena quell’occupazione cessò di assorbirla, tutto a Montsou le divenne odioso, il paese intorno la esasperò: quelle mortificanti distese di campi, quelle strade nere che non finivano mai, quella terra senza alberi, brulicante d’una popolazione che la schifava e spaventava al tempo stesso. I lamenti dell’esiliata cominciarono. Accusò il marito di averla sacrificata a uno stipendio di quarantamila franchi, una miseria che bastava appena a mandare avanti la casa. Non avrebbe potuto anche lui come i suoi colleghi, darsi dattorno? Ottenere delle azioni, arrotondare insomma in qualche modo i suoi proventi? E su questo tasto insisteva con la crudeltà della moglie che ha portato in dote un patrimonio. Lui intanto, senza mai darlo a vedere, nascondendolo anzi dietro l’impassibilità dell’uomo d’affari, si torturava nel desiderio di quella creatura: passione tardiva di una violenza che si acuiva con l’aggravarsi dell’età. Quella donna, lui non l’aveva mai goduta da amante; e la smania di averla anche lui una volta nel modo che l’avevano avuta gli altri, lo ossessionava. Ogni mattino si proponeva di conquistarla; ma davanti alla scostante freddezza con cui quella lo guardava, alla precisa sensazione che tutto in lei si rifiutava, finiva per evitare di sfiorarle sia pure una mano. Era, la sua, una sofferenza senza possibilità di guarigione che egli gelosamente celava sotto un contegno gelido; lo strazio di un cuore bisognoso di affetto che si struggeva in segreto di non aver trovato, nella compagna che si era scelto, la felicità che si era ripromesso.Quando più nulla la distrasse, l’Hennebeau cadde in una crisi di tedio; si atteggiò a vittima di un esilio che ormai si augurava apertamente la conducesse alla tomba. Fu allora che arrivò a Montsou Paolo Négrel. Sua madre che, rimasta vedova di un militare di carriera, viveva ad Avignone con una piccola rendita, era stata costretta alla più rigida economia per mettere il figlio in grado di concorrere a una cattedra nel Politecnico. Ma la riuscita del giovane agli esami era stata così modesta, che lo zio lo aveva persuaso a rinunziare al posto, offrendosi di assumerlo come ingegnere al Voreux. Accolto e ospitato in casa di Hennebeau come un figlio, Paolo si trovò sin dal primo momento nella possibilità di mandare alla madre millecinquecento franchi, la metà dello stipendio. Per indurlo ad accettare un così generoso trattamento, lo zio gli aveva fatto presente l’imbarazzo in cui alla sua età chiunque si sarebbe trovato, se avesse dovuto metter su casa per suo conto, in una delle villette che la Compagnia riservava agli ingegneri dei pozzi. Dal canto suo, l’Hennebeau aveva dal primo giorno trattato il giovane con l’amorevolezza della buona zia che dà del tu al nipote e che veglia a che in tutto e per tutto si trovi bene. Nei primi mesi specialmente, gli aveva testimoniato un interessamento materno, sino a soccorrerlo di consigli pur nelle minime cose. Ma anche in questo compito, non cessava di essere donna; e facilmente si lasciava andare con lui a confidenze di carattere intimo. Quel giovanotto così pratico, di un’intelligenza spregiudicata, che manifestava sull’amore tanto pessimismo, la interessava; mentre la attirava l’arguzia del suo viso mefistofelico.Manco a dirlo, finì che una sera Paolo si trovò fra le braccia della zia; lei ebbe l’aria di darsi per buon cuore: amare non poteva più; per lui intendeva unicamente essere un’amica. Infatti, non fu gelosia; si burlava di lui che trovava le operaie del pozzo al riparo di ogni tentazione e quasi gli teneva il broncio perché non aveva mai qualche avventura piccante da raccontarle. Poi, l’idea di dargli moglie la appassionò; le sembrava bello sacrificarsi, metterlo lei stessa nelle braccia di una ragazza ricca. Nonostante questo progetto, i loro rapporti seguitarono; Paolo era il suo passatempo, il suo balocco; su lui riversava le sue ultime tenerezze di donna annoiata e prossima al tramonto. Il sospetto della tresca non sfiorò Hennebeau che due anni dopo: una notte che avvertì presso l’uscio un fruscio di piedi scalzi. Ma l’idea che tra quel ragazzo e quella donna che poteva essergli madre ci fosse qualcosa, che i due ardissero consumare l’adulterio proprio in casa sua sotto i suoi occhi, gli apparì così enorme che la scacciò senz’altro. Il fatto poi che l’indomani la moglie gli confidava esultante la sua scelta di una sposa per il nipote, del mostruoso sospetto lo fece addirittura arrossire; e per Paolo non nutrì più che riconoscenza, se grazie a lui la casa era diventata meno tetra.Scendendo dalla camera della moglie, trovò giusto il giovanotto che rientrava dal suo giro d’ispezione.- Ebbene? Niente di grave, a giudicare dal tuo viso!- Ho fatto il giro dei borghi. Gli operai si mantengono tutti calmi. Credo solo che t’invieranno una loro rappresentanza.Hennebeau avrebbe voluto chiedere maggiori ragguagli; ma dall’alto giunse la voce della moglie: – Sei tu, Paolo? Vieni dunque a darmi notizie. Buffi, questi vostri operai che vorrebbero anche fare i cattivi, mentre stanno meglio di noi!Privato così del suo informatore, Hennebeau tornò al suo tavolo di lavoro, dove nel frattempo si erano accumulati altri telegrammi.Alle undici arrivarono i Grégoire; i quali restarono stupiti di vedersi aprire immediatamente e della premura con cui Ippolito, gettata un’occhiata in cima e in fondo alla strada, li sollecitò a entrare. In salotto, le tende erano calate; furono fatti passare direttamente nello studio, dove Hennebeau si scusò di riceverli; ma il salotto era in vista dalla strada: indugiarvisi sarebbe stata una provocazione che era meglio evitare. E siccome quelli non capivano:- Come? Non sapete nulla, allora? – Ma neanche quando apprese dello sciopero, Grégoire uscì dalla sua flemma. Bah! Non succederebbe nulla! Erano tutti dei così bravi ragazzi! Agitando il mento, la moglie approvava, radicata anche lei nella fiducia in cui la confermava la secolare rassegnazione dei minatori; mentre Cecilia, allegrissima quel giorno, e incantevole di salute nel suo vestito color albicocca, sorrideva alla parola “sciopero”, che alla sua spensieratezza evocava solo passeggiate di beneficenza in giro per i borghi operai.In quella compariva la padrona di casa, chiusa in un abito di seta nera e scortata da Négrel. Già era sulla soglia. Che ne dite di questa seccatura? Non poteva scegliere un altro giorno, quella gente? Paolo, sapete, è d’avviso che per oggi convenga rinunciare a Saint-Thomas!- Oh poco male! – si affrettò a dire Grégoire. – Resteremo qui e sarà tanto di guadagnato!Siccome Paolo si era contentato di salutare con un’occhiata imperiosa,l’Hennebeau lo spinse verso Cecilia. Che diamine! Così si accoglie la fidanzata? E quando udì i due colombi tubare, li avvolse in uno sguardo materno. E mentre il marito finiva di scorrere i dispacci e rispondeva ai più urgenti, ci tenne ad avvertire gli ospiti che dell’arredamento dello studio, lei non era responsabile. Il pesante mobilio che lo ingombrava, avrebbe da gran tempo preso la porta, come sarebbe sparita dalle pareti quella tappezzeria di carta un tempo rossa e ormai stinta; né si sarebbero viste in giro quelle cartelle tutte gualcite dall’uso.In queste chiacchiere trascorse quasi un’ora; e si stava per passare in sala da pranzo, quando capitò Deneulin. Inchinatosi appena alla padrona di casa e salutati i Grégoire, Deneulin si rivolse preoccupato a Hennebeau:-Sicché ci siamo! Me l’ha detto ora il mio ingegnere. Da me, stamattina, gli uomini sono discesi tutti. Ma lo sciopero può estendersi, non sono per niente tranquillo. Sentiamo, com’è la situazione da voi?Aveva attaccato subito l’argomento che gli stava a cuore; il tono concitato e la nervosità dei gesti che tradivano una viva ansietà, gli davano in quel momento l’aspetto di un ufficiale di cavalleria in congedo. E il direttore cominciava a metterlo al corrente, quando Ippolito (il maggiordomo di casa Hennebeau) annunciò che la colazione era servita” .

L’arredamento in casa Hennebeau

La signora Hennebeau non pensa per niente ai minatori che sono ad un passo dalla sua sontuosa dimora. Vorrebbe che sul tavolo fossero servite le ostriche, ma la cuoca si era rifiutata di andare al mercato per la paura di essere presa a sassate dagli scioperanti. Aspetta impaziente che il pasticcere porti almeno i vol- au- vent. Il pasticcere arriverà, scortato dall’esercito. Fuori c’è uno sciopero in corso che durerà per ben tre mesi, e lei pensa alle tartine. Intanto può mostrare agli ospiti l’arredamento: ”Nella sala ovattata di sontuose tappezzerie, con antiche cassapanche di quercia lungo le pareti, i convitati si mettevano a loro agio. Credenze a vetri luccicavano di argenteria; un lampadario di rame pendeva dal soffitto e nelle sue bocce si specchiavano palme e ciuffi di aspidistra che sorgevano da vasi di maiolica. Fuori, la giornata di dicembre, che una pungente brezza gelava; mentre il tepore di serra che regnava nell’interno permetteva di avvertire nell’aria l’aroma dell’ananas che aspettava, tagliato a fette, in una coppa di cristallo.Per impressionare i Grégoire, il mefistofelico Négrel:- Se si tirassero le tendine? – propose a un certo punto. E siccome, credendo a un ordine, la domestica che aiutava Ippolito abbassò qualche tendina, nella penombra della sala tutti per scherzo cominciarono a dar segni di paura; posando la forchetta, un bicchiere, si badava a non far rumore; e si salutava ogni nuovo piatto come fosse sfuggito a un saccheggio. Gaiezza più ostentata che sentita, dietro la quale si celava una paura bell’e buona, se tutti, loro malgrado, lanciavano ogni tanto occhiate inquiete alla strada, quasi che davvero un’orda di affamati fosse lì fuori in agguato.Dopo l’imbrogliata d’uova con tartufi, furono servite delle trote di fiume. La conversazione era caduta sulla crisi che da un anno e mezzo si andava aggravando.- Era inevitabile! – disse Deneulin. – Una prosperità come quella di questi ultimi anni non poteva portare ad altro. Pensate agli immensi capitali che si sono immobilizzati in costruzioni di ferrovie, di porti, di canali; a tutto il denaro andato in speculazioni avventate. Soltanto qui da noi, guardate quanti zuccherifici si sono impiantati! Tanti che sarebbero già troppi se la barbabietola desse tre raccolti l’anno! Quale meraviglia, allora, che il denaro liquido scarseggia? Finché non fruttano i milioni che si sono spesi! Di qui, questo ingorgo, questo ristagno degli affari” (Parte Quarta cap. I). I minatori saranno ricevuti dal direttore Hennebeau e potranno vedere il lusso della sua casa confrontato alle loro misere dimore. La signora Hennebeau intanto continua la sua relazione amorosa con il nipote Paul Negrel, all’insaputa del marito, anche se questi, siccome non è stupido, si accorge di tutto, ma per il quieto vivere, continua a comportarsi come marito separato in casa. Cecile non sposerà mai Paul Negrel, perché sarà strangolata da Bonnemort, colto da un raptus omicida, mentre è solo in casa. Cecile era andata per portare alla famiglia Maheu alcuni generi di conforto, sapendo che era nel bisogno.

Le Condizioni di vita dei minatori

Etienne, dopo un periodo trascorso in una pensione del paese, va a vivere in casa dei Maheu. A questi va bene perché il giovane paga e nelle ristrettezze, una paga in più è puro ossigeno per la Maheu. “Adesso ogni sera in casa Maheu ci si attardava una mezz’ora a chiacchierare prima di salire a coricarsi; ed era ogni sera la stessa discussione che Stefano intavolava. Più i suoi gusti si affinavano, più il giovane si sentiva urtato dalla promiscuità in cui gli operai vivevano. Che si era delle pecore per vivere com’esse segregati in uno stabbio in mezzo alla campagna e pigiati uno contro l’altro al punto da non potersi mutare la camicia senza mostrare il sedere al vicino? Bel vantaggio che ne veniva alla salute e alla morale da una promiscuità che favoriva, rendeva anzi inevitabile, la corruzione! – Eh già, – ammetteva Maheu, – certo che se si avesse più denaro si abiterebbe più al largo! Comunque, è ben vero che vivere pigiati come sardelle non giova a nessuno. Si sa come va a finire: uomini bevuti e ragazze gravide. Prendendo lo spunto di qui, ciascuno diceva la sua; e nel tanfo di petrolio che appestava la stanza, già ammorbata da quello di soffritto, la conversazione si protraeva. No, ben certo, non era allegro vivere. Si faticava come bruti in un lavoro al quale un tempo condannavano i galeotti; vi si lasciava spesso la ghirba prima della nostra ora; e tutto questo per non rimediare neanche un po’ di lesso a cena. Certo, come i polli, il becchime, lo stretto necessario per far tacere la fame si aveva; si mangiava, ma appena quel tanto che permetteva di stare in vita e di seguitare a patire; o carichi di debiti perseguitati dai creditori quasi che il pane si rubasse. Quando arrivava la domenica, si era così stracchi che si passava il tempo a dormire. I soli piaceri che restavano, quello di sborniarsi e d’ingravidare la moglie. Per di più la birra ti fa mettere pancia e i figli ti mancano di rispetto. Ah no; in quelle condizioni vivere non era punto allegro. La Maheu interloquendo: Il più brutto, vedete, è quando ci si persuade che le cose non possono cambiare. Finché uno è giovane, si fa delle illusioni, spera che un po’ di bene verrà. Ma la vita grama dura, vi si resta dentro imprigionati e si capisce che non se ne uscirà più. Io non voglio male a nessuno, ma vengono dei momenti che da questa ingiustizia mi sento rivoltare… ” (Parte terza, cap. III). E’ un giorno di sagra a Montsou, un sabato di luglio. I minatori sono andati tutto il pomeriggio da una bettola all’altra, hanno bevuto, giocato a bocce, visitato tutti i baracconi. La giornata si chiude con un ballo: “Si restò sino alle dieci. Donne seguitavano ad arrivare con codazzi di prole, in cerca del loro uomo da rimorchiare a casa; le madri, perduta ogni soggezione, cavavano dal corpetto ciocce bionde e lunghe come tette di mucca e impiastricciavano di latte bebè tutte guance; mentre i più grandicelli senz’ombra di ritegno, carponi sotto i tavoli, davano il via alla birra ingurgitata. Di birra era un’orgia che vuotava le botti; di birra si arrotondavano le pance; zampillava birra dai più insoliti rubinetti. Pigiati e gonfi a quel modo, gli spettatori si ficcavano in corpo a vicenda gomiti e ginocchi, allegri, beati di affratellarsi così. Le risate spalancavano le bocche come salvadanai. In quel calore di forno, nel nebbione di fumo, ognuno si metteva a suo agio, si sbracava, si scamiciava. Unico inconveniente, la difficoltà di spostarsi di dove si era; spinta da necessità, ogni tanto una ragazza vi riusciva, s’apriva il passo sino alla pompa laggiù, si rimboccava, rientrava nel ballo. Sotto i festoni di fiori di carta, i ballerini, accecati dal sudore di cui grondavano, non si scorgevano più l’un l’altro; ciò che incoraggiava gli intraprendenti a cogliere il momento giusto per approfittarne. E quando una ninfa piegava sopraffatta sotto l’assalto del fauno, l’orchestra attutiva il tonfo di quella capitolazione sotto il suo strepito indiavolato, scarpettandole intorno alle coppie danzanti la sottraevano alla vista; e allora si sarebbe detto che tutto il ballo franasse su quei due. Qualcuno venne ad avvertire Pierron che sua figlia dormiva di traverso sul marciapiede, davanti all’ingresso. Avendo beneficiato della sua parte nel furto, la ragazzina si era ubriacata. Per riportarla a casa, il padre dovette togliersela in collo – seguìto a distanza da Gianlino e da Berto (Parte terza, cap. 2).

La folla in Germinale

Zola fu accusato dai suoi detrattori di aver trattato i suoi minatori come massa di ubriaconi e debosciati, le loro case piene d’ogni sporcizia. Zola risponde dicendo che lui nel romanzo descrive le case degli operai con tale pulizia che le faceva quasi brillare. Quanto alla promiscuità, convivenza e confidenza eccessiva tra persone di sesso diverso, e all’immoralità che si legano alle stesse condizioni, chiarisce che su dieci ragazzi, sei sposano le loro amanti una volta che sono diventate madri. Quando si prendeva un ospite a pensione, capitava a volte che la cosa si risolvesse in un ménage a tre. Questo non succede con Etienne; per tutto il tempo che rimane in casa dei Maheu, nell’unica stanza dove dorme Caterina assieme alla sorella, mentre lui dorme nello stesso letto di Gianlino, il giovane non sfiora la ragazza nemmeno con un dito. Zola prega i suoi detrattori di consultare le statistiche e di informarsi sul posto. “Si vedrà se ho mentito. Semmai ho attenuato le tinte. Si sarà fatto un gran passo verso l’eliminazione della miseria, il giorno nel quale ci si deciderà a conoscerla nelle sue sofferenze e nelle sue vergogne. Mi si accusa di fantasia sconcia, di premeditata menzogna su certa povera gente, che mi ha riempito gli occhi di lacrime. Ad ogni accusa potrei rispondere con un documento”. Le tinte più fosche che suscitarono le discussioni più accese furono le pagine in cui Zola descrive il saccheggio dei minatori. In questa fase, il ruolo più violento è svolto dalle donne che sono più furiose dei maschi. In quanto madri, vedono i loro figli ammalarsi, soffrire la fame, appassire precocemente a causa del duro lavoro, e altrettanto precocemente dedicarsi al sesso, all’alcol o al vizio. Davanti alle ricche case dei borghesi di Montsou, per dimostrare tutto il proprio odio e disprezzo, una donna “Volte le spalle, di scatto si rimboccò sino in capo le sottane; e, sporgendo le natiche, mise in mostra un enorme tafanario che, all’ultimo sole – non di vergogna- si imporporò. Un deretano punto osceno, feroce, piuttosto che non fece ridere nessuno, lì  nella strada”. Il linciaggio del bottegaio Maigrat, ad opera delle donne è raccapricciante: ”Dal pensiero dell’imminente saccheggio spronato a spicciarsi, Maigrat benché tozzo, s’era arrampicato in un momento in cima al muro, senza darsi pensiero del graticcio, che si spezzava sotto i piedi in cerca d’appoggio. E ora stava strisciando carponi, appiattendosi più che poteva per non farsi scorgere. Ma il ventre lo impacciava e la forte pendenza del tetto lo costringeva ad aggrapparsi ai tegoli con le unghie. Tuttavia anche così sarebbe arrivato alla meta, non fosse stato il tremito che lo invase alla prospettiva di finire lapidato. Lì sotto, infatti, la folla, che ora il tetto gli nascondeva, seguitava a gridare: Dagli al gattone! Facciamogli la festa! – Ed ecco tutto a un tratto le sue mani mollarono la presa. Rotolando come un barilotto, traboccò dalla grondaia, cadde di traverso sul muro di divisione, e, rimbalzando sulla strada, si spaccò il cranio contro un paracarro. In un urlo d’esultanza, le donne, come ubriacate dalla vista del sangue, si avventarono. Esiste dunque un Dio! Ah, l’hai finita, brutto porco! – e sfogando in scherni e invettive il lungo rancore, attorniarono il cadavere ancora caldo. – Ve’ com’è bellino ora, con la zucca incignata! – E il mio debito, allora? – gridava la Maheu. – Ma eccoti pagato! Non rifiuterai più, adesso, di farmi credito! E come eccitata dalle sue stesse parole, chinandosi a turargli con una manata di terra la bocca: -Toh, anche gli interessi ti pago! Mangia, su, mangia, tu che ci mangiavi! – E’ il pane che ci hai rifiutato, la terra che mordi! – Non ne mangerai altro d’ora in poi! – Non ti ha portato fortuna negarlo a chi non ne aveva! E, in un crescendo, insulti e sberleffi piovevano; mentre, steso sul dorso, il morto fissava immobile il cielo donde calava la notte. Ma non solo del pane negato, le donne ce l’avevano con Maigrat; un altro conto restava da regolare con lui. Per saldare anche questo, ora gli giravano intorno annusandolo come lupe. Che fargli, di quale oltraggio marchiarlo per mettersi in pari? A dar voce al segreto rancore di tutte fu l’Abbruciata. – Accapponiamolo! – gridò. Sì, sì, accapponarlo. Troppe ne aveva fatte, quel maiale!“(Parte Quinta, cap. VI).

Raimondo Giustozzi

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