di Raimondo Giustozzi
“La speranza viene a noi con piccole e povere cose, non con i bagliori di improvvisi prodigi. Viene con quella semplicità che hanno tutte le cose più essenziali, l’aria, la luce, l’acqua, il respiro. Viene come germoglio, non come albero alto. Viene nell’umiltà, vestita di stracci, come piccolo granello di senapa, cinque pani e due pesci per cinquemila uomini (cfr. Mt 14, 13- 21). Viene sotto forma di un incontro, di una telefonata, un amico, un sms quando pensavi di non farcela più, una parola ascoltata alla radio, letta in un libro, una luce interiore. Alle volte non fornisce neppure pane, ma solo un pizzico di lievito” (Ermes Ronchi, Al mercato della speranza, pag. 11, Paoline, Editoriale Libri, Milano, 3ª edizione, 2018).
Il libro, 127 paginette, formato tascabile, è diviso in quattro capitoli: “Questa piccola speranza”, “Io spero a causa del Vangelo”, “Al mercato della speranza”, “Passioni tristi, passioni felici”. I primi tre capitoli sono declinati in otto paragrafi di diversa lunghezza, l’ultimo in tre piccole conclusioni: “Virtù degli inizi”, “La grande speranza”, “Di inizio in inizio”. Tutto il grazioso volumetto è attraversato da rimandi all’Antico e Nuovo Testamento e a citazioni di autori famosi: Charles Péguy, Paul Ricoeur, Martin Luther King, Karl Barth, don Primo Mazzolari, Simone Weil, Umberto Galimberti, padre Davide Maria Turoldo, Gabriel Marcel, Elias Canetti, Wiliam Shakespeare, Dietrich Bonhoeffer, Emily Dickinson, padre Giovanni Vannucci, padre Giuseppe Benassi, Emanuel Mounier, Giuliana di Norwich, don Lorenzo Milani, Dante Alighieri, Jacques Maritain, Fëdor Dostoevskij, cardinale Carlo Maria Martini, don Zeno Saltini, don Luigi Verdi.
Questa piccola speranza. Io spero a causa del Vangelo
“La speranza viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito da festa” (Paul Ricoeur). “Il Signore non salva dalla sofferenza, ma nella sofferenza; protegge non dal dolore, ma nel dolore; ci difende non dalla morte, ma nella morte” (Dietrich Bonhoeffer). “La speranza è un essere piumato / che si posa sull’anima, / canta melodie senza parole / e non finisce mai” (Emily Dickinson). “Il nostro compito supremo nel mondo è custodire delle vite con la nostra” (Elias Canetti). La speranza è un’attesa che diviene presenza. Mille uomini giusti tracciano vie di pace, che milioni di uomini buoni continuano a stringere il nodo degli affetti, dentro le loro famiglie e oltre, quando tutto spinge alla disgregazione (Ibidem, pag. 17). Il sogno è l’altro nome della speranza. “I have a dream”. Io ho un sogno, diceva Martin Luther King. La speranza è un dolcissimo sogno sempre tradito, ma di lui non ci è concesso stancarci (Ibidem, pag. 18).
La speranza si nutre di futuro, così avveniva nelle prime comunità cristiane. Almeno loro avevano questo vantaggio rispetto a noi, che veniamo duemila anni dopo e sentiamo il peso del passato fatto di tradimenti e di viltà. “Il futuro è diversità che viene. Il nostro è un Dio che viene”. “Dio è totalmente Altro, che viene affinché la storia diventi totalmente altro da quello che è” (Karl Barth). Questa è l’utopia cristiana che deve misurarsi con ciò che trova nelle strade del mondo. Questo ci “stupisce ma non dobbiamo mai piegarci all’omologazione. Non bisogna accettare l’idea che come è successo ieri, sta succedendo oggi e succederà domani”. Un’inversione di tendenza è possibile. C’è sempre un inizio per cominciare. “Il fiume comincia con la prima goccia d’acqua, l’amore con il primo sguardo, la notte con la prima stella, la primavera con il primo fiore” (don Primo Mazzolari).
Abramo muore prima di vedere la terra promessa, eppure ne conserva la speranza. “Il futuro entra in noi molto prima che accada” (Simone Weil). “In ordine all’avvenire, la speranza va più lontano dell’attesa. L’attesa ti lascia a contatto con l’ambiente e ti dice che cosa ti puoi aspettare da esso; la speranza ti fa compiere un passo oltre: “Per creare, occorre una dose pazzesca di desiderio, nutrito di speranza “(Umberto Galimberti). “Si può confezionare un abito da sposa, usando degli stracci con una dose folle di desiderio, amando quella veste bianca più ancora della sua realizzazione, come hanno fatto i profeti, sognando e desiderando quel bianco abito da festa, specchiandosi in esso, chiamati dal futuro” (Ibidem, pag. 22). “Cantiamo al futuro non perché siamo genericamente ottimisti, ma perché abbiamo speranza”. Il Venerdì Santo è sempre allietato dalla Domenica di Pasqua. Questa è la fede di chi crede, questa è la fede della Chiesa, come popolo di Dio, vicino ad ogni uomo e ad ogni donna del mondo. “La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Ibidem, pag. 26).
La mia generazione ha avuto le proprie sentinelle, alle quali chiedeva di volta in volta a che punto eravamo della notte. Si chiamavano padre Davide Maria Turoldo, don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, padre Ernesto Balducci, padre Giovanni Vannucci, Giorgio La Pira. Anche oggi ci sono altre sentinelle in continuità con il passato: Ermes Ronchi, don Luigi Verdi. La comunità mondiale ha avuto per dodici anni in Papa Francesco l’interprete più eccezionale della speranza, tanto da dedicarle l’attuale Giubileo. Ci ha lasciati il Lunedì dell’Angelo, il giorno successivo alla Domenica di Risurrezione. Rimangono però i suoi scritti, i suoi pressanti inviti a non fare nessuno sconto sui sogni, coinvolgendo soprattutto i giovani, ma anche tutti gli uomini e le donne di ogni età e di ogni angolo del mondo (N.d.R.).
“La speranza cristiana è espressa da una piccola sillaba: “ri”, un prefisso, un inizio di parola che è tipico del cristianesimo. Due sole lettere che significano: di nuovo, ancora, da capo, un’altra volta, senza stancarsi. Una sola sillaba, che crea le parole più tipiche del vocabolario cristiano: ri- conciliazione, ri- surrezione, re- denzione, ri- generazione, ri- nnovamento, ri- mettere i debiti, ri- nascere dalla Spirito. Tutte parole che indicano il cammino che riprende, nonostante tutto, come la speranza. “Finché c’è fatica, c’è speranza” (don Lorenzo Milani), “Dove c’è lotta c’è motivo di speranza. Dove c’è lotta, lì c’è una corona” (Sant’Ambrogio). Un uomo che non sa affrontare fatiche, che non sa impegnarsi e lottare, è senza speranza e sta entrando nella depressione. Salmo 126: “Alla fatica van tutti piangendo / per il sudore che irrora la semina: / ma torneranno con passo di danza / portando a spalle i loro covoni” (padre Davide Maria Turoldo).
Al mercato della speranza
Tutti siamo invitati, gioiosamente e seriamente al mercato della speranza, rovistando tra i suoi diversi scaffali, dove trovare gli scampoli per confezionare il nostro abito da festa. Il primo scaffale della speranza è rigurgitante della vita stessa. “Io sono uno che mette l’orecchio per terra”, dice Maritain, “per ascoltare l’erba che cresce”. L’erba annuncia il suo messaggio di ascesa, di energia, di bellezza, di trasformazione chiamata dal fiore di domani. Nel secondo scaffale della speranza troviamo la preghiera che è la purezza intatta dei contrari, riso e lacrime, gli antagonisti immortali che si disputano il cuore dell’uomo: amore e morte, festa e dolore. Isaij Formič, il protagonista del libro Memorie di una casa di morti di Fëdor Dostoevskij, deportato in Siberia, alterna le preghiere con lamenti e pianti, singhiozzando, ma anche con forti scoppi di risa, con voce commossa quasi spezzata da un impeto di felicità (Ibidem, pp. 90-91). Il terzo scaffale nasconde gli archivi della Grazia. Tutti noi possediamo archivi ricchi di grazia e di ricordi, ma spesso non li sappiamo sfruttare, sono riserve inutilizzate. Certo, scriveva il cardinale Martini: “Non sempre si può avere l’incandescenza del cuore, ma sempre possiamo avere la memoria dell’incandescenza”, quando abbiamo fatto esperienza dell’amore, di momenti veramente unici per bellezza e gratitudine.
Il quarto scaffale della speranza contiene il tempo della prova. Il paradosso dell’annuncio cristiano è che la morte di Gesù in croce nel venerdì santo non finisce nulla: “In quel sovraccarico di pathos trovo colui che risorge e fa risorgere, e imparo con lui a sperare” (pag. 96). Dio non ci salva dalla sofferenza, non ci toglie il dolore, ma lo riempie con la sua presenza, per trasformarlo. Nel momento della prova, la speranza cambia nome. Diventa perseveranza, coraggio, resistenza, il contrario di depressione che è solo un ripiegamento su di sé, in mancanza di orizzonti futuri. “Il depresso ripiega il cielo come un lenzuolo steso al sole, guarda solo a sé e non si illumina più. Ha perso il cielo e il futuro” (pag. 98). Il quinto scaffale della speranza contiene la fiducia e il perdono. In tempi di disillusioni e di diffidenza e di questo facciamo ampia esperienza nel corso della nostra vita, dobbiamo avere il coraggio di seminare piccole oasi di fiducia, custodirle e coltivarle, perché crescano. Il disincanto verso chi ci ha illuso rimane sempre e comunque. Il male non si cancella con un colpo di spugna, ma ciò non toglie che non si possa scommettere ancora sull’uomo o donna che siano come atto di fede. “Bisogna dare credito all’altro, in base non al suo passato, ma al suo futuro, per un atto di speranza” pag. 103).
Far cantare la speranza è ciò che troviamo nel sesto scaffale al mercato della speranza: “Far suonare in te ciò che tu speri, diventa l’eco di ogni speranza: io spero pace per me e per i fratelli, felicità per me e per i mei cari; spero un futuro buono, una vita buona, bella e beata: Ciò che tu speri ti sarà dato. Ciò che ami ti sarà dato. Tu sei ciò che ami… Non si è felici da soli, non si è felici per caso. E anche se ci sono ragioni per maledire, gli uomini non saranno mai felici se non imparano a benedire, a dire bene del mondo, dell’altro, del cielo, dei loro amori, di Dio e del più piccolo filo d’erba. Colui che sa benedire, sa guardare con simpatia. E chi guarda la vita con simpatia le ha già confezionato un abito da festa” (Ibidem, pp. 105 – 107). Il settimo scaffale al mercato della speranza contiene l’amore. Nel “De senectute, Norberto Bobbio, un grande laico, scrive di non aver avuto le soddisfazioni più durature della vita dai frutti del suo lavoro, ma dalla vita di relazione, dai maestri che lo avevano educato, dalle persone che aveva amato e l’avevano amato” (pag.109). “Al centro del cristianesimo sta quello che è posto al centro della vita: l’amore. Credi, vale a dire fidati dell’amore. Abbi fiducia dell’amore in tutte le sue forme, come forma della terra, come forma del vivere, come forma di Dio. Non fidarti di altre forze, non dell’intelligenza, non del denaro, non del numero. Ripartire sempre dall’amore è la felicità di questa vita” (pag. 109).
Passioni tristi, passioni felici
“Il nostro tempo è chiuso da una tenaglia, i cui denti sono da un lato il fondamentalismo e dall’altro l’indifferenza religiosa, stretto nella morsa tra l’integralismo e il nichilismo. I fondamentalisti di tutte le religioni, gli islamici come i cristiani, sono degli infelici che stanno male nel mondo, sono persone tristi che vedono attorno a loro un mondo corrotto o degradato, dove trionfa la morte o regna il grande satana. Sognano di purificare questo mondo immorale con il fuoco, la violenza, la morte. Sono la bestemmia della nostra epoca, perché mettere la verità prima della persona è l’essenza della bestemmia. Dall’altro lato ci sono i nichilisti, quelli per i quali niente vale, o tutto si equivale, la realtà è soltanto questo che si vede, conto solo io e con la mia morte finisce tutto. Hanno creato l’epoca delle passioni tristi e del pensiero debole. Per aprire questa morsa, il compito urgente dei credenti è quello di reincantare la vita, farne assaporare la bellezza, la profondità, la luce. In questo disincanto generale, per sperare bisogna essere felici” (Ibidem, pp. 115- 116).
“Pensavamo che il Vangelo avrebbe cambiato il mondo, che l’avrebbe capovolto, e invece siamo qui con guerre dimenticate, con odio esibito, con Abele sempre ucciso, e la bambina speranza è ancora vestita di stracci. Eppure non ci arrendiamo. Il Vangelo non ha ancora trasfigurato la storia, eppure riprendiamo testardi a tessere un filo di luce, un filo da aggiungere alla trama così breve e così fragile dei giorni dell’uomo” (pag. 123). “Il lavoro di tutti non è arrivare o raccogliere, ma partire ogni giorno, seminare a ogni stagione. Mi dà forza questo sciale di bellezza e di speranza, e la sommessa bontà delle cose” (pag. 124).
Bibliografia
Ermes Ronchi, dell’Ordine dei Servi di Santa Maria, dirige il Centro culturale Corsia dei Servi a Milano. Docente al Marianum, è autore di diversi testi. Con Paoline ha pubblicato: Dieci cammelli inginocchiati. Variazioni sulla preghiera (2009⁴), Le case di Maria. Polifonia dell’esistenza e degli affetti (2008⁵). Ha inoltre curato i volumi: I baci non dati (2008³), Tu sei bellezza (2008). Ha inoltre curato i volumi: Perdere il cuore. I racconti dell’amore vero (2009), con Sonia Spinelli; I racconti di Pasqua (2008²), Divina seduzione. Storie di conversione: Paolo, Pacomio, Agostino, Ignazio (2004) e Lo straniero: nemico o profeta? (2006).
Raimondo Giustozzi
Complimenti per questa recensione.
È così chiara e al tempo stesso così profonda di senso…che mi sento già coinvolta e desiderosa di andare all’opera per poter « sfogliarne »ogni pagina.
Intanto ti ringrazio per la condivisione!