Sabato, 05 / 04 / 2025, alle ore 18,00, presso la sala Enrico Cecchetti, biblioteca civica “Silvio Zavatti” di Civitanova Marche (MC), è riuscito bene l’appuntamento con la Scuola di cultura e scrittura poetica “S. Aleramo”, patrocinata dal comune di Civitanova Marche, per ricordare Francesco Scarabicchi (Ancona, 10 /02 / 1951 – Ancona, 22 / 04 / 2021), secondo Massimo Recalcati, il più grande poeta italiano degli anni ottanta del secolo scorso. Umberto Piersanti, direttore della scuola poetica, sopra ricordata, ha tracciato un breve profilo del grande poeta marchigiano, profondo conoscitore della pittura italiana, soprattutto quella di Lorenzo Lotto, che sapeva vivere e interpretare come pochi, ma anche quella di Valeriano Trubbiani, Ezio Bartocci, Giorgio Bertelli e di molti altri.
Nel corso del proprio intervento, Massimo Raffaeli ha ricordato che, Francesco Scarabicchi, amico e allievo di Franco Scataglini, diventa nei primi anni ottanta del Novecento il più grande interprete della poesia marchigiana, che si raccoglie attorno ad un piccolo sodalizio di poeti: Remo Pagnanelli, Ferruccio Benzoni, Gianni D’Elia, Claudio Piersanti. Sono consci di vivere e di operare in periferia, non al centro, rappresentato allora da Milano, Torino, Roma. Ben presto però la periferia si salda al centro e la poesia marchigiana si impone all’attenzione di tutti. Il centro è dappertutto, la periferia da nessuna parte.
Le Marche di fine anni Settanta e Ottanta non sono solo la regione alla quale tutti guardano per le imprese della calzatura nel fermano – maceratese o per la produzione del mobile nel pesarese, ma anche la regione della poesia e della nascita di case editrici. Francesco Scarabicchi, dopo anni trascorsi nella traduzione di Federico Garcia Lorca e di Antonio Machado, nel 1982 pubblica la prima raccolta di poesie: “La porta murata”. La sua poesia si impone subito come quella della scrittura perfetta. Scende nelle profondità della vita, alla ricerca dell’essenzialità, con versi ritmati, con parole mai ammantate di retorica. Parla di amore, di vita, di morte e di amicizia. Restituisce al presente persone e luoghi del passato. La sua poesia rimanda a quella di Umberto Saba, Giorgio Caproni, Eugenio Montale, ma anche a quella di Giacomo Leopardi e di Giovanni Pascoli.
“Non è stato un ritorno il riapprodare / all’isola nascosta della casa. / Credo fosse il dicembre / di un natale felice, / la pioggia che batteva il lungomare, / le stanze vuote come gusci d’uovo. // In piedi, nel vano della porta / (il segno dei quadri alle pareti), / come se fossi stata muta al fianco, / ti ho chiesto: “I vivi di qui, adesso, dove sono?” (Francesco Scarabicchi, Mais ou sount … in La porta murata, 1982).
“Di te resta l’immagine / bionda che dal cancello / ridi stringendo in mano / un fiore d’oleandro, / un’istantanea d’album / che tengo cara / ora che tutto è andato / così come scompaiono / i treni nel silenzio” (L’immagine); “Sono passati gli anni, / sono morti e nessuno / lo sa perché a febbraio / è caduta la maschera / e cammino / con passi da impiegato / fino a quel luogo in cui, / per tutte quelle ore, / di me non so che sia” (Il luogo in cui); “Freddi fianchi del giorno / i muri a cui si approssima / l’inverno con la pioggia / che cade sopra gli uomini / e li cancella piano” (La pioggia). Le tre poesie sono tratte dalla raccolta: Il viale d’inverno, 1989).
Il cognome Scarabicchi, sostiene Massimo Raffaeli, è di chiara derivazione greca. Suo papà era siciliano e immigrato in Ancona. A volte, tutto ritorna nella storia. Ancona è stata fondata da coloni greci, provenienti da Siracusa in Sicilia. L’avevano chiamata Ankon, termine traslitterato, che in greco significa “gomito”; questo a causa della forma della baia, che si piega in corrispondenza del Conero, formando una sorta di gomito. Conero è anch’esso un termine greco, kòmaros, che significa “Corbezzolo”, un albero molto diffuso nel Conero, dove l’albero produce frutti rossi. Francesco Scarabicchi perde il papà, quando aveva solo dieci anni. Dopo aver conseguito il diploma magistrale, si iscrive all’Università di Urbino, ma, ben presto, lascia gli studi per lavorare in banca, impiego che mantiene per trent’anni. In tutti gli anni legge e scrive poesie, si interessa di letteratura e di arte. Mantiene sempre una fraterna amicizia con tutti. La grande critica si accorge tardi della sua vena poetica e del suo immenso valore. Questo succede perché negli anni Cinquanta – Sessanta del secolo scorso la poesia era solo terreno di scontro non di scambio. Scarabicchi, senza sposare nessuna moda letteraria si immerge nel mondo più profondo dell’essere per trovare l’ignoto.
“Tutto il freddo / degli anni / gela i giorni / di noi che passeremo / una volta e mai più / da queste parti. // Così tu / non tenermi / ancora alla tua porta / inascoltato, / da solo / ho attraversato / la via dei naviganti / non in sogno” (Francesco Scarabicchi, La via dei naviganti, in “Il prato bianco”, 1997).
“Voglio cantarti una canzone antica, / battere sui tre quarti il nome e l’anno. // dirti che t’amo più della mia vita, / rammentare di te il dono e il danno, // stella che m’ardi il cielo della notte, / quanto di te ho parlato all’altra gente, // quante volte ho bussato alle tue porte, / quante strade ho percorso inutilmente. // Ora che sono qui dove mi vedi, / tu non scacciarmi come fossi niente, // bacami sulla nocca, se ci credi, / portami dove il male non si sente” (Francesco Scarabicchi, Il nome e l’anno, in “L’esperienza della neve”, 2003).
“Ti guarderò da questa vita attesa, / da una fermata d’autobus, da un destino / che mi tiene lontano e sai che sono / più vicino che mai alla tua resa, / occhi che non si sporgono e non danno / luce che a chi la chiede, / sguardi che vanno dove tutto è niente, / a una finestra d’angolo, ad un cielo / di musiche e di voci intorno” (Francesco Scarabicchi, Ti guarderò da questa vita attesa, in “La figlia che non piange”, 2021).
Pubblicazioni di Francesco Scarabicchi: La porta murata, Residenza, Ancona, 1982, Il prato bianco, Edizioni l’Obliquo, Brescia 1987, (Il libro viene ripubblicato nella collana bianca di Einaudi), Il viale d’inverno, L’Obliquo, Brescia 1989. (Le due ultime opere sono poi confluite nell’autoantologia Il cancello, edizioni peQuod, 2001), L’esperienza della neve, Donzelli, 2003, L’ora felice, Donzelli, 2010, la raccolta postuma La figlia che non piange, Einaudi, 2021. Le traduzioni da Garcia Lorca, apparse dapprima con il titolo Il seminatore di stelle, per le edizioni Sestante, di Ripatransone, vengono pubblicate assieme a quelle da Antonio Machado nel volume Non domandarmi nulla, edito da Marcos y Marcos nel 2015. Il libro Con ogni mio saper e diligentia, Liberilibri, Aldo Canovari, Macerata, 2013, traduce in stanze poetiche l’antichissima ammirazione di Francesco Scarabicchi per Lorenzo Lotto, un artista drammaticamente marginale, come si sentiva lui stesso. In una lettera scritta all’amico Fabio Pusterla, Francesco Scarabicchi scriveva: “Vedi, Fabio, noi vorremmo tanto che qualcuno ci desse la patente; ma non c’è nessun ufficio che possa farlo”. “La patente di poeti, intendeva dire: quella che molti pensano di avere e che pochi davvero possiedono” (Fabio Pusterla, Ricordo di un poeta, / Scarabicchi, la miniera della interiorità, Doppiozero, fonte Internet).
Gli interventi dei presenti, tra i quali anche la signora Liana De Gregorio moglie di Francesco Scarabicchi, hanno reso ancora più bello il pomeriggio culturale. In calce ho riportato due link che aiutano a dare ancora un’immagine più completa di Francesco Scarabicchi.
Scarabicchi, la miniera della interiorità | Fabio Pusterla
https://www.doppiozero.com/il-ritegno-di-scarabicchi
Raimondo Giustozzi, Aldo Caporaletti
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