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Libri. Il Garofano rosso, Elio Vittorini.

vittorini-1Il Garofano rosso (1948), Elio Vittorini

Riassunto

Alessio Mainardi è uno studente liceale inquieto e tormentato. Da una parte ci sono le questioni del cuore, agitate dall’innamoramento per Giovanna, una compagna di scuola più grande che gli ha concesso un bacio, suggellato da un garofano rosso appuntato alla giacca, ma che poi non si è più concessa; dall’altra c’è l’adesione convinta alle “squadre nere” del fascismo emergente, siamo nel periodo cupo del delitto Matteotti, che danno sfogo al sentimento di rivalsa antiborghese di tanti giovani di città e di provincia. Alessio viene dall’entroterra, dove il padre possiede una fornace in cui lavorano diversi operai. Tarquinio Masséo è un giovane scapestrato e grande amico di Alessio, con il quale il protagonista condivide una camera a pensione e la passione per le ragazze. Insieme con altri compagni del fascio, i due organizzano il grande sciopero generale che per un giorno blocca le scuole della città e che vale a loro, però, una sospensione e la bocciatura.

Alla fine dell’anno scolastico, Alessio fa ritorno al paese di famiglia, dove la sorella Menta lo invita a uno studio intenso per presentarsi agli esami di ottobre e recuperare l’anno perso, e ricucire inoltre i rapporti con i genitori delusi. Alessio si lascia convincere, nella speranza di accedere alla stessa classe di Giovanna. Al suo ritorno a Siracusa, però, molte cose sono cambiate. L’amico Tarquinio, infatti, ha abbandonato la pensione della signora Formica per andare a stare in albergo. Con questa scelta manifesta il desiderio di “essere adulto”, segnando una distanza rispetto ad Alessio. Questo si trova a condividere la camera con i cosiddetti “turchi, una banda di ragazzi più piccoli che, nonostante una riottosità di facciata, si affeziona presto a lui. Intanto, una lettera di un compagno di scuola, Cosimo Gulizia, detto “Rana”, insospettisce Alessio, persuaso che Tarquinio, fattosi vago e sfuggente, abbia conquistato la sua amata Giovanna. Così, quasi per un riflesso incondizionato, il primo giorno di scuola, invece che andare a ricevere l’esito del primo esame di riparazione, Alessio decide di recarsi alla casa di tolleranza della signora Ludovica, meta di avventure per i ragazzi della città. Qui fa l’amore con Zobeida, ragazza bellissima e grande amore di Tarquinio. Con lei Alessio scopre il piacere della passione consumata e ne rimane rapito; anche la ragazza resta turbata dal trasporto con cui Alessio le si è dedicato. Comincia così tra i due una relazione segreta e tormentata, perché confinata tra le pareti della stanza di Zobeida e minacciata dalle pretese che alcuni uomini misteriosi rivendicano sulla ragazza, che per questo si assenta spesso dalla pensione.

Nella testa di Alessio, che cade in uno stato febbricitante, le figure di Giovanna e Zobeida si sovrappongono, componendo l’immagine di un amore unico e impossibile, perché al tempo stesso puro e cioè riflesso di una giovinezza ancora non corrotta dal tempo, e carnale, accessibile solo a chi conosca le responsabilità e i dolori dell’età adulta. Simbolo di questa indecisione rimane il garofano rosso, che Zobeida gli ha rubato e poi nascosto. Un evento traumatico rompe questo stato si sospensione. Una mattina, rimasto solo, Alessio è costretto a scappare dalla stanza di Zobeida perché è in corso una perquisizione della polizia nella casa della signora Ludovica. Scopre così che la ragazza è stata arrestata per spaccio di droga. Tornato nelle strade della città, Alessio incontra tutti i compagni di scuola, raccolti nel corteo funebre per una ragazza suicidatasi per amore. Il fatto sprona i giovani a una discussione sul “Codice d’amore” che dovrebbe essere rispettato da uomini e donne. Alessio adesso si sente distante dai compagni, ancora infervorati da un purismo che è frutto della loro inesperienza. Su questo piano ritrova l’amicizia con Tarquinio, che ha effettivamente vissuto la stessa esperienza con Giovanna e, come Alessio, ne è stato cambiato.

Un romanzo del suo tempo

Elio Vittorini (Siracusa, 23 luglio 1908 – Milano, 12 febbraio 1966) scrisse il romanzo dal 1933 al ’35, a soli venticinque anni. Venne pubblicato a puntate dalla rivista “Solaria” negli anni ’33- ’36. Il sequestro del numero della rivista nel quale appariva la sesta puntata, le discussioni con la censura, prima e dopo il sequestro, costrinsero Vittorini a tagliare o riaggiustare molte pagine. La vicenda dimostrò tutta la tragicommedia sovrapposta dal Fascismo al romanzo ancora in corso. Quando, nel 1948, Il Garofano rosso uscì in volume, pubblicato per la “Medusa degli Italiani” da Arnoldo Mondadori, Elio Vittorini si sentì in dovere di scrivere una prefazione al romanzo, a tredici anni dalla prima pubblicazione. Il libro gli appariva sintonizzato su una fase della sua vita ormai trascorsa, aveva aderito da giovane al fascismo, quasi rinnegata e sentiva così il bisogno di “giustificarne” la nuova edizione. “A convincere Vittorini a non opporsi alla pubblicazione del romanzo fu, però, proprio la sua natura di “documento” di un’epoca e di una trasformazione personale e “generazionale”, da una fase di ricerca del tempo perduto dell’infanzia a una adulta, segnata dal desiderio di scoperta degli uomini e del mondo. Le inquietudini d’amore di Alessio sono la manifestazione di una più generale tensione tra il mondo delle illusioni e dei furori giovanili, in cui si crede ancora al sogno di un amore consumato nello scambio di sguardi e piccoli doni – come con Giovanna – e uno adulto, caratterizzato da passioni travolgenti e sconosciute (“l’intenso” provato con Zobeida), ma anche dalla consapevolezza che ogni cosa è soggetta alla consunzione del tempo, dei tradimenti, della disillusione”. Ricorrendo a una struttura narrativa tradizionale e a un didascalismo fin troppo esplicito, fatto d’immagini simboliche scontate e patetiche, Vittorini realizza il romanzo di un “impegno premeditato”, come sarà anche per “Uomini e no”, perché mirato alla presa d’atto degli errori del passato, riscattati attraverso la spinta etica dei suoi libri successivi, come Conversazione in Sicilia o Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus e della sua attività di intellettuale.

Così scriveva Vittorini nella prefazione nell’edizione del 1948: “Il principale valore documentario del libro è nel contributo che può dare a una storia dell’Italia sotto il Fascismo e ad una caratterizzazione dell’attrattiva che un movimento fascista in generale, attraverso malintesi spontanei o provocati, può esercitare sui giovani” (Il Garofano rosso, pag. 209, Oscar Mondadori, Milano 1994). C’è nel protagonista e negli altri giovani che gravitano attorno a lui la consapevolezza che per affermare se stessi, entrare nella vita degli adulti, essere riconosciuti uomini, occorra uccidere qualcuno o, comunque versare del sangue: “C’è verso il mondo costituito una diffidenza che li accomuna e un atteggiamento di rivolta non preciso ma costante per cui sono portati credersi rivoluzionari e sono pronti a simpatizzare con qualunque movimento politico appaia loro rivoluzionario. Hanno sentito parlare di socialismo, e vedono intanto che il fascismo ha ucciso Matteotti. Vale a dire ha ucciso, come ciascuno di essi ha l’impressione d’aver bisogno di fare, qualcuno. Agli occhi loro, che vedono gli altri partiti non uccidere, il fascismo è forza, e come forza è vita, e come vita è rivoluzionario. Hanno sentito parlare anche di rivoluzioni comuniste per il socialismo. Ne sanno quanto basta per pensare che ogni movimento rivoluzionario del mondo debba avvenire in senso socialista. Il mondo che loro vorrebbero è come s’immaginano che lo voglia il socialismo. Così le ragioni inconfessate per le quali aderiscono al fascismo e fanno chiasso dentro il fascismo derivano, nella maggioranza, dall’idea che il fascismo non possa non avere un contenuto socialista. Ne nasce in loro, coi dubbi che pur conservano sulla possibilità di un tale contenuto nel fascismo, una condizione di ambivalenza. Essi sono disposti al socialismo e al fascismo nello stesso tempo. E l’ambivalenza del loro animo favorisce, naturalmente, l’affermazione italiana del fascismo. E’ sempre tanto più facile lasciarsi prendere da una corrente che resistervi” (pag. 210).  I giovani sono pronti a seguire, per natura loro, un’idea rivoluzionaria che si può realizzare solo con l’uso della forza. Le riflessioni di Elio Vittorini sulla natura dei giovani potrebbero essere assunte per capire anche tante scelte fatte dai giovani che militavano indifferentemente in opposti schieramenti extraparlamentari negli anni settanta del novecento.

Personaggi del romanzo

Alessio Mainardi. E’ uno studente liceale. Viene dall’entroterra di una provincia siciliana che non viene mani menzionata nel romanzo, ma è facile individuarvi, per i continui riferimenti paesaggistici, alla città di Siracusa. Appartiene a una famiglia borghese. Il padre possiede una grande fornace e ha molti operai alle sue dipendenze. Alessio, proprio perché la propria famiglia se lo può permettere, alloggia, assieme ad altri studenti fortunati al pari di lui, in una decorosa pensione cittadina mentre al mattino va a scuola. Tra una campanella e l’altra staziona spesso ai tavolini del caffè Pascoli & Giglio: “Aspettavamo la campana del secondo orario, tra undici e mezzogiorno, pigramente raccolti, sbadigliando, intorno ai tavolini del caffè Pascoli & Giglio, ch’era il caffè nostro, del Ginnasio-Liceo, sull’angolo di quella strada, anch’essa nostra, con la via principale della città, dai borghesi detta Corso e da noi Parasanghea (in Greco vuol dire lunga sei chilometri). I più fortunati mandavano giù l’una dietro l’altra granite di mandorla, la più buona cosa da mandar giù ch’io ricordi della mia infanzia; e c’era la tenda rosso marrone che bruciava di sole come un sospeso velo di sabbia sopra i tavolini. C’erano discorsi di grandi parole, di grandi speranze, e c’erano i pettegolezzi scolari sulle medie, i temi in classe, i professori e i compagni sgobboni. I piccoli delle classi ginnasiali si rincorrevano da marciapiede a marciapiede, urlando, fin su allo sbocco di Piazza del Duomo che chiamavamo Ponto Eusino, e là subito le loro urla selvagge risuonavano più larghe e cantanti quasi come su una aperta campagna. Là era, difatti, una campagna di sole: piazza Duomo; amplissima nel suo asfalto ancora fresco, con le sue palazzine rosse settecentesche a semicerchio, col suo puzzo di preti che veniva dall’Arcivescovado insieme a un odore di limoni, e la gradinata del Duomo dal sommo della quale si scorgeva oltre tetti e tetti una striscia abbagliante di mare canuto” ( Elio Vittorini, Il Garofano rosso, pag. 21, Oscar Mondadori, Milano 1994). Il protagonista ha fretta di crescere come tutti gli adolescenti: “Avevo sedici anni, quasi diciassette, mi piaceva ormai fare il grande e stare coi grandi veri, tutti dai diciotto anni in su, della seconda e terza liceale, a discutere, a fumare sotto la tenda color ruggine del caffè; ma ogni volta che l’urlo di uno dei piccoli andava lontano oltre la strada sulla prateria della piazza mi sentivo nitrire dentro e ritornare cavallino com’ero stato quando anche io dai gradini della cattedrale spiccavo il volo radente sopra l’asfalto” (pag. 22).  Alessio Mainardi cambia completamente comportamento quando in un giorno imprecisato viene osservato da una ragazza più grande di lui: “Una signorina della seconda mi aveva guardato”. Giovanna, questo è il nome della ragazza che rappresenta per il protagonista i sogni dell’amore tanto atteso, “Era figlia di colonnello. Mi pareva bellissima, sebbene portasse un cappellino che le nascondeva metà della faccia. Andava da casa a scuola, da scuola a casa con una ragazzona dei grossi fianchi, della sua classe, che le dava sempre la destra e pareva la sua serva” (pag. 22). Il protagonista e i suoi compagni di classe chiamavano “levatrice” la ragazzona che accompagnava Giovanna. Alessio Mainardi perde letteralmente la testa per Giovanna quando questa, attraverso la sua amica che l’accompagnava a scuola, gli fa pervenire un “Garofano rosso chiuso dentro una busta. Mi trovavo in classe mentre la professoressa di lingue moderne scandiva parole cantate di La Fontaine” (pag. 22). Alla richiesta della professoressa di ripeterle a memoria l’ultimo verso della poesia, Alessio risponde: “Ma neanche per sogno”. Aveva ben altro a cui pensare. Risultato della bravata: due giorni di sospensione dalla scuola, comminati dal preside e avallati dalla professoressa di Lingue. Il protagonista chiude la giornata col pensiero di Giovanna che nella propria fantasia di studente liceale chiama Diana. L’indomani non vede l’ora di ritornare a scuola ma non per entrare, solo per incontrare Giovanna. Si ferma in un bar che fa angolo con una farmacia, quella “d’un certo Gulizia che aveva il figlio in seconda liceo, nella stessa classe di Giovanna. Ben noto a tutta la scolaresca liceale quel Gulizia, Cosimo di nome, ma chiamato meglio il figlio del purgantiere. Era il ragazzo più debole del liceo sebbene quasi diciottenne, vestiva abiti dimessi dal padre e adattati a lui da mani casalinghe; balbettava, facilmente attaccava liti da cui usciva ogni volta scappando col fazzoletto sotto il naso… Aveva un’aria biondiccia nonostante i capelli di carbone, che faceva perdere la pazienza anche ai piccoli del Ginnasio, solo che cercasse, quando si parlava alto ai tavolini del caffè, di dire la usa. Rana lo chiamavamo” (pag. 26). Il protagonista avrà con lui frequenti scontri che finiranno in colossali pestaggi, nei quali ad aver la peggio sarà sempre Cosimo Gulizia il quale, pettegolo e provocatore com’è, sa del garofano rosso dato da Giovanna a Mainardi. Lo scenario delle zuffe e degli scontri sarà una località appartata, poco fuori la città, chiamata in codice “Mato Grosso”. Intanto, la ragazzona che accompagna Giovanna a scuola, avvicina Alessio Mainardi e a nome dell’amica gli dice di non farsi tante illusioni. Giovanna è più grande di lui che deve ancora terminare la scuola e l’Università; chissà se il padre prima o poi la darà in sposa a qualcuno che lui conosce. Alessio non si dà pace e trova in Tarquinio Masséo la persona con cui confidarsi: “Tarquinio Masséo era un ragazzo di diciott’anni, che per una complessa vicenda di bocciature non aveva preso a tempo la licenza ginnasiale e ora si preparava da esterno per quella del Liceo. In pensione c’era per questo; ma con quali professori studiasse non si sapeva; e quando noi tornavamo, di luglio, ai nostri paesi, soltanto lui, come non avesse parenti, restava a godersi l’estate della città coi bagni, le orchestrine a mare, e i varietà all’aperto. Raccontava poi delle ballerine che erano venute a pensione ai nostri posti e delle prove di ballo ch’esse facevano, ancora in pigiama o in camicia, nella grande sala comune tutta la mattinata. In quella nostra pensione della signora Formica ce l’avevo portato io. L’avevo conosciuto una sera del ’22 nella bottega di un fabbro- tipografo dove si stampava un giornaletto di scolari su carta grossa come da pacchi, a quanto ricordo. Si entrava nel ridotto tipografico passando per la caverna delle incudini, tra le scintille, e spesso non si entrava nemmeno, ci si fermava sulla soglia a guardare maestro e garzoni affaccendati intorno a un cavallo, poiché spesso, quel fabbro, ferrava anche cavalli. Si divenne amici, io e Tarquinio, continuando tutte le sere tra le sette e le otto a frequentare quella bottega, anche quando il giornale smise di uscire. La cava, la chiamavamo. Allora t’aspetto alla cava mi diceva Tarquinio ogni volta salutandomi con un cenno per aria della sua mano” (pag. 30). “La cava” non era soltanto la bottega ma il luogo, dove Alessio e Tarquinio s’incontravano per parlare di tutto, dei loro amori, della loro voglia di spaccare il mondo. Tutte le cose, che Tarquinio sapeva, diventavano anche quelle di Alessio Mainardi. Leggevano la biografia di Wilhelm Liebknecht e di Rosa Luxemburg, in due rivoluzionari, fondatori in Germania della Lega di Spartaco, nell’immediato primo dopoguerra, torturati e uccisi dalla destra. Erano i loro miti, mescolando un po’ tutto, il fascismo di cui erano imbevuti, ma anche altre ideologie che predicavano giustizia e libertà, attraverso la lotta di classe. I discorsi continuavano poi nei caffè, insieme ad altri amici studenti anche loro, vogliosi di menare le mani e spaccare la testa di tutti i borghesi che odiavano e disprezzavano. La storia della condizione giovanile si ripete ciclicamente. Perché non vedere in questo clima culturale e pseudo rivoluzionario dei giovani di quegli anni la medesima condizione vissuta in anni successivi da altri giovani? “Eravamo quattro amici al bar / che volevano cambiare il mondo / destinati a qualcosa in più / che a una donna ed un impiego in banca / si parlava con profondità di anarchia e di libertà / tra un bicchier di coca ed un caffè / tiravi fuori i tuoi perché e proponevi i tuoi farò…” (Gino Paoli, Quattro amici al bar).

Alessio non parla mai di Giovanna con Tarquinio, perché teme che quest’ultimo, più grande di lui, possa rubargliela. Tarquinio invece frequenta continuamente Zobeida. Per apparire agli occhi di Tarquinio e di altri studenti più grande di quello che è, il protagonista si dota di una pistola Mauser. Pensa di doverla utilizzare quando scatterà la nuova rivoluzione del fascismo contro tutti i borghesi. La scuola diventa per Mainardi e altri suoi amici, tra i quali il Pelagrua, il banco di prova per uno sciopero generale. Tutto ha inizio nei giorni in cui si commemora la morte del deputato socialista Giacomo Matteotti. Mainardi perde di vista il suo amico Tarquinio, per questo affida ad un diario gli avvenimenti che si succedono a ritmo vertiginoso. Tutti gli studenti menano botte da orbi all’indirizzo dei manifestanti che ricordano Matteotti: “Una voce urla, Viva Matteotti e prima che diventi un grido di tutti, scattiamo coi bastoni impugnati. Ne ho date di batoste1 Era tutta la classe media che legge i giornali, dai commendatori ai barbieri. Preso in mezzo, portato via sempre picchiando, a un tratto mi sento gridare contro: “vergogna coi vecchi”. E vedo che il vecchio è un pezzo di cinquantenne dai mustacchi neri che avrebbe potuto rompermi l’osso del collo se voleva. Allora ho avuto il senso che tutto fosse sciupato, inutile… E voglia di essere piuttosto con la folla, ma con una terribile folla nera di carbone a lottare contro le mitragliatrici” (pag. 54). Il protagonista fa quadrato con altri studenti liceali tutti in sciopero: Pelagrua, Mazzarino, Manuele Guiscardo, figure di secondo piano nel romanzo ma importanti perché impegnati a fare la loro rivoluzione contro i professori, il sistema, i borghesi, loro figli di una borghesia anemica e parassitaria. Tarquinio frequenta il gruppo ma defilato, dorme, mangia alla pensione, si sveglia non prima delle dieci, va a zonzo per la città con il protagonista, insomma un fannullone con aria da intellettuale. Risultato dell’anno scolastico perso? Annota Alessio Mainardi nel proprio diario: “Martedì. Oggi a scuola hanno messo fuori i quadri degli scrutini. Io bocciato in sei materie, arrivederci all’anno venturo. Giovanna promossa. Rana, idem. Levatrice idem. Francovich rimandato ad ottobre per storia e geografia, piangeva, l’idiota. Quanto ai miei amici del Terzo, c’è Pelagrua conciato in modo tale che non può presentarsi agli esami di Stato” (pag. 68). Per Alessio Mainardi, dopo aver salutato la signora Rosmunda Formica, la titolare della pensione e “essersi congedato freddamente da Tarquinio”, è tempo di andare a casa, per la “campagna delle fornaci” dove abita la propria famiglia.

La famiglia di Alessio Mainardi

Il viaggio di Alessio Mainardi verso casa avviene prima in carrozza poi con il trenino delle “cosiddette Ferrovie Associate”. Ad attenderlo alla stazioncina è la sorella Menta che è venuta a prelevarlo con il calessino tirato dal cavallo. Guglielmo, Ciro e Giuliano sono gli altri fratelli di Alessio Mainardi. Di loro, il protagonista ricorda i giochi dell’infanzia, quando pensavano sempre a farsi male e a tirarsi sassate. Menta, la sorella, è l’unica in famiglia con la quale Alessio ha confidenza. Questa lo mette al corrente che con  la bocciatura “Hai dato un grosso dispiacere a quei due. Alla Morale, eh? Dissi io. Anche alla mamma, disse la sorella” (pag. 74). Alessio chiama in modo sprezzante il padre con “La Morale”. Alessio non è andato mai d’accordo con i genitori fin dall’infanzia: “Erano già molti gli anni che non mi importava niente di far dispiacere a mamma. Tutta la mia infanzia essa stessa non mi aveva raccomandato altro. Non dare un dispiacere a mamma tua. E ogni piccola cosa era stato un ossessionante modo di guardarsi bene dall’arrecare dispiacere a mammina. Non s’era fatto altro che sacrificarle i nostri giochi, i nostri bisbigli, e talvolta anche i nostri passi, quando fuori pioveva e bisognava stare dentro; perché essa era misteriosamente sempre occupata con le sue invisibili Emicranie, o leggeva, o suonava al piano. E quell’altro, il signor La Morale, era stato il Gran Sacerdote di questo culto. Si era così stufi di doversi sentire cattivi anche se solo fischiavamo; e che bisogno avevamo di esserlo, cattivi! Che bello ci pareva di poterlo essere, quando si scappava fuori nella campagna! E non si giocava altri- menti che Ai Cattivi. Sempre a farci male e a tirarci sassate, con Menta Regina Cattiva, io Pellerossa Cattivo, Guglielmo Capitano Cattivo, e Ciro e Giuliano Cattivi Semplici contro l’esercito dei Buoni Mocciosi di figli d’operai e di piantatori. E si tornava su qualche volta così pazzi che neanche La Morale riusciva a farsi rispettare, e ci dovevano rinchiudere in una stanza vuota del secondo piano, dove non avendo nulla da fracassare, strappavamo i mattoni del pavimento per scaraventarli fuori dalla finestra” ( pag. 74- 75). Lungo la strada che li porta verso la casa paterna, i due parlano tra loro. Menta dice al fratello che il papà è molto malato. Ad Alessio, la notizia non fa né caldo né freddo. Aveva ben altro da pensare che alla malattia del babbo. Confida alla sorella di essersi innamorato, cambiando il nome di Giovanna in Zobeida. All’ingresso dell’abitazione sono ad attenderlo: Guglielmo, Ciro e Giuliano che li circondano festosi, facendo un gran baccano, felici come sono di rivedere il fratello. Alessio, per punizione inflittagli dalla Morale – il babbo, è chiuso in camera senza cena. I fratelli lo invitano a tenere duro, mentre Menta gli fa compagnia nei giorni della segregazione che termina con la visita della mamma che gli porta la cena: “L’abbracciai in silenzio. Be’, ragazzo, speriamo che questa sia l’ultima, disse mettendosi a sedere sul letto di Guglielmo. Poi soggiunse con grande calma: Vedo che non stai male. Sei addirittura più grasso di questo inverno. Già, dissi io chinando il capo, mezzo imbronciato. Cominciai a mangiare contento, eppure a poco a poco mi venne voglia che se ne andasse. Mi intimidiva. La sentivo estranea a tutto quello che avevo dentro. E del resto, da bimbi, quando mi trovavo solo con lei e il babbo in una stanza dove essi parlavano tra loro, tante volte mi ero chiesto se proprio erano mamma e babbo, e se non erano invece due barabai che mi avrebbero mangiato un giorno o l’altro, ridendo e parlando tra loro” (pag. 89). Dopo aver mangiato, su invito della mamma, Alessio si reca nella camera del padre: “Andai nella stanza semibuia che odorava di bagnature con aceto e di febbre alta, e baciai babbo, dai terribili occhi chiari quasi bianchi, sulla fronte sudata affondata nel cuscino. Ah, il nostro Disdoro! Egli esclamò debolmente. Ma ne riparleremo, soggiunse, ne riparleremo. E senza più dire altro, né lui, né mamma, lasciarono che restassi fermo un pezzo in mezzo alla stanza, a meditare come era proprio finita la possibilità di vivere vicino a loro” (pag. 81). Il ragazzo ricorda d’aver amato nella propria infanzia le zie, il nonno e tanti altri parenti ma loro due non li aveva mai amati. Aveva amato la casa del nonno dove aveva trascorso giorni felici: “Ah, la casa del nonno! Là sì, ero stato felice! C’erano alti balconi bianchi su una via dove passavano galoppi di carrozze e, dietro, un sistema di tetti a ringhiera dai quali si scopriva a poco a poco una misteriosa lontananza marina. C’era una zia quasi ragazza che faceva un meraviglioso odore di biscotti appena sfornati; mentre il petto di mia madre non odorava che di glicine. C’era mio nonno con la barba bianca e bionda, alto come un normanno e con gli occhi azzurri, e che parlava con una soavità da tempi antichi delle sue guerre in pianura d’oriente, mentre mio padre era piccolo, aveva le mani nere di pelo e dalla guerra tornò subito zoppicando da un piede. Mio nonno era passato attraverso un gran fuoco per anni e anni della sua vita ed era tornato intatto, era immortale; mio padre s’era bruciato alla prima fiamma, in neanche un mese. E c’era un’altra zia ch’era stata, col marito capitano di mare, in America, in Australia, nel mondo intero, e aveva avuto terremoti e incendi, mentre mia madre non aveva che vestiti e sottane. E c’era una stanza enorme con le stuoie di paglia alle finestre, piena di parenti, la sera, e di cocomero rosso in grandi fette per i tavoli, mentre da noi c’erano solo imposte socchiuse e babbo e mamma eternamente in un’altra stanza. Era come una gran fiera la casa del nonno e così quella degli zii suoi figli, un gran comunismo da età dell’oro con gente che capitava da tutte le parti e amici che vi si installavano per giorni e settimane e vi facevano il comodo loro riempiendola di allegro eccitante disordine. E i primi anni della mia infanzia io li avevo passati un po’ nell’una un po’ nell’altra di quelle case. Poi il nonno era morto, zio Costantino era scomparso nella spagnola, la felice tribù si era dispersa e noi, io e Menta dico, avevamo dovuto rassegnarci al decoro degli appartamenti dove mamma e babbo si amavano. Avevamo sentito favoleggiare, dalle zie, del grande amore ch’era stato il loro una volta, ch’era ancora; perciò sapevamo qual nome dare all’improvviso guardarsi negli occhi e scappare in un’altra stanza di mamma e babbo. E sapevamo che per questo erano così vuoti, così aridi, così moralistici quando dopo si occupavano di noi: si divoravano tutto in segreto delle loro anime l’un l’altro, e nulla mai avevano da versare in sorriso con gli altri per la comune gioia del mondo. Eppure la mamma doveva esser nata diversa; come il normanno suo padre, come le orientali sue sorelle essa avrebbe potuto alimentare di molto soave olio di sé la comune fiamma del mondo. Ma il babbo l’aveva alzata su un altare oscuro e le immolava il mondo e ogni giorno la spegneva con le sue mani pelose all’amore degli altri e ogni giorno avrebbe potuto darle uno dei suoi figli stessi in pasto senza che lei battesse palpebra” (pag. 81- 82). Del padre, Alessio invidiava solo il mestiere. Fabbricava mattoni. Intanto, Menta convince il fratello a studiare da privatista per sostenere a settembre l’ammissione alla terza classe del Liceo. Alessio accetta e si mette a studiare di buona lena. Stando a contatto con gli operai della fornace ha modo di avvicinarli e di studiare le loro condizioni di vita. Non trova giusto che non possano studiare, mentre deve farlo lui che non ne ha nessuna voglia. Il padre, in passato lo aveva minacciato di fargli fare il mestiere del fornaciaio. Il ragazzo, rimandato a settembre in una materia, aveva preso la minaccia come se fosse un disonore lavorare come gli operai di suo padre. Alessio ne chiede spiegazioni a Menta: “Curioso che sia necessario non studiare, per fare gli operai, no? Lo ripetei alla mamma e la mamma disse: Che significa? E io dissi: Oh niente! Ma alcuni mesi dopo di nuovo parlai con Menta: Sembra che ci sia bisogno di operai e di altre cose a questo mondo, vero? Di operai e di medici, di ingegneri, di capistazione, non è così? Naturalmente- disse mia sorella. Ma perché, dissi io, c’è bisogno che gli altri sappiano tante cose e gli operai no? Oh! Disse mia sorella, se sapessero tutto anche loro, nessuno vorrebbe più fare l’operaio. Come? Non è bello fare l’operaio, allora? Dissi io. Mia sorella lanciò lontano un sasso. È questione che non sempre si sta bene a fare l’operaio – disse. Non bene come è necessario a uno istruito” (pag. 86- 87). Alessio vedeva un fossato tra la sua condizione e quella degli operai di suo padre. Questo fossato, pensava il ragazzo doveva pur essere colmato. L’operaio non doveva essere considerato meno uomo e meno importante di chi invece studiava. Il Socialismo era la dottrina che doveva in qualche modo interessarsi a loro e cambiare le loro condizioni di vita. Alessio ne aveva chiesto spiegazioni al padre: “Appresi che mio padre era stato in gioventù socialista e che cosa era socialismo. Ma come! Dissi. “Sei stato socialista e non lo sei più? Ragazzo mio – disse mio padre senza guardarmi perché certo sapeva che il suo sguardo avrebbe subito stabilito tra me e lui il distacco del rimprovero. Il socialismo è un’idea e uno può avere avuto delle idee. Anzi è un’idea generosa e uno della mia condizione può aver voluto essere una volta generoso. Ma poi nella vita s’impone la necessità di salvarsi ognuno per conto suo. Oh! Esclamai – allora tu ti salvi, per via di loro che si perdono? Sapevo a stento che cosa intendevo dire, confusamente, ma mi era venuto spontaneo dalla mia logica di ragazzo, la mia logica che mi sentivo battere dentro come una creatura con ali, e per la quale tremavo nel timore che fosse proibita. Mio padre continuò a non guardarmi. Era in uno dei suoi momenti di indulgenza e la mia logica si accovacciò entro di me, lievemente rassicurata. Dio mio! Non si perdono poi del tutto –  disse mio padre. C’era anche la mamma nella stanza e lo guardava come lui avrebbe potuto guardare me. C’era anche Menta. È sempre una brutta cosa! Io dissi. Qui mio padre si voltò e subito il rimprovero dei suoi occhi bianchi mi saltò addosso, mi ricacciò nel dominio dove non c’erano altre vie d’uscita che la discoleria, la cattiveria, la disobbedienza. E fui per tutto il resto di quelle vacanze discolo, cattivo, disobbediente come non mai. L’anno appresso avevo conosciuto Tarquinio, e mi ero messo nei fascisti per antipatia verso quel socialismo dal quale discendeva mio padre col suo odioso modo di ragionare. Dissi a mia sorella: È spaventoso costringere la gente all’ignoranza per essere sicuri che non manchi chi faccia l’operaio” (pag. 87- 88). Alessio stringe amicizia con il guardiano della fornace al quale chiede sempre notizie sulle condizioni di vita degli operai. I contatti con i genitori sono del tutto sporadici: “Di mezzogiorno a tavola era sempre penoso. Dico di mezzogiorno, ma c’era già la grande ombra dell’una da quel lato della casa sopra il piazzale, e gli operai avevano ripreso, sul piano caricatore e nelle fornaci, il lavoro. C’erano due finestre nella sala da pranzo, una da cui si scorgeva la strada oltre il piazzale, una che dava su ancora più ombra tra il verde di un grande albero nella mia memoria rimasto senza nome. Si sedeva in tondo alla tavola con la mamma che faceva centro sullo sfondo della credenza, il babbo a sinistra di lei, poi Menta, poi Guglielmo, poi Ciro, poi io, poi Giuliano che chiudeva il circolo a destra della mamma” (pag. 91).

Nel corso dei mesi estivi, cominciano ad arrivare a Alessio molte lettere del suo amico Tarquinio che, da un lato lo rimprovera perché non si è fatto più sentire, dall’altro lo informa della vita alla pensione e di Giovanna che ha incontrato più volte. Verso la fine dell’estate, quando il tempo volge al peggio con le prime piogge autunnali, arriva a Alessio una lettera scritta dall’infido Cosimo Gulizia: “Mainardi – non ho dimenticato che la tua vittoria del Matto Grosso mi obbliga a servirti in tutto quello che riguarda la signorina Giovanna. È giusto. Se avessi vinto io mi avresti dato il garofano rosso, non è vero? Dunque ti avverto che il tuo amico Tarquinio insidia Giovanna, anzi, precisamente, sono in grado d’informarti che ieri sera nel portone della casa di lei si sono dati un bacio. Attendo in proposito gli ordini che credi di darmi. Cosimo Gulizia”. (pag. 106).

Alessio riprende il treno per ritornare a Siracusa, desideroso di incontrare il Rana per picchiarlo un’altra volta. Alla stazione non trova nessuno ad aspettarlo. Arrivato in vettura alla pensione, trova un clima del tutto nuovo: “La signora Rosmunda mi venne incontro di due gradini dalla soglia, con larghe espressioni di accoglienza. Caro ragazzo, caro ragazzo e cercava di aiutarmi a portare una delle valigie ma non riusciva e batté le mani, subito senza fiato, per fare accorrere la Granatiera. È tutto pieno, sa, tutto pieno gridò contenta come una bambina. Ed era zeppo di studenti esterni venuti per gli esami, altri letti erano stati montati, ce n’erano persino nel corridoio, e anche sui tavoli e in terra nell’antico campo c’erano materassi. Vede, Mainardi – mi disse la signora Rosmunda – per ora c’è confusione, ma fa piacere, sono così allegri questi ragazzi, no? Presento: il signor Perez, il signor Valente, Baiardo, Corsentino, Mattioli, Trovato, e questo giovane è di Tripoli, Ahmed Cogia, siete tutti compagni di camera, non è straordinario? Straordinario, straordinario le fecero eco con aria furba quei miei sette nuovi camerati. Il tripolino, nient’affatto moro che ha passato d’Africa il mar come avrei voluto, stava sul letto di Tarquinio, con un fez di astrakan in capo, e rideva. Siamo tutti turchi, caro mio venne a dirmi un piccolino dalla mandibola nervosa, e pareva agognasse di stritolare il mondo nei suoi denti, ti sembra poco straordinario’ Con noi ce l’hai da fare” (pag. 108). I nuovi compagni vogliono mettere alla prova Alessio Mainardi. Sono provocatori nati. Minacciano di castrarlo. Il ragazzo non ci sta proprio ad essere preso in giro da un gruppo di mocciosi, anche se sono molti. Sferra un pugno in un occhio a Perez che lo minacciava da vicino. Il malcapitato corre al lavandino per fermare il sangue che gli esce copioso. La colluttazione continua poi con gli altri che hanno tutti la peggio. L’arrivo della signora Rosmunda e della Granatiera ristabilisce l’ordine. Alessio Mainardi ha fatto vedere di che pasta è fatto. Lui che aspira a diventare grande e ha come modello Tarquinio Masséo non può tollerare che dei ragazzini minaccino la sua reputazione. I piccoli turchi si rabboniscono e vedono in lui il leader di cui avere paura. Quando poi vengono a sapere del Garofano Rosso, fondano una sorta di setta con lo stesso nome. Anche loro vogliono menar le mani e spaccare il mondo. Il fascismo deve spazzar via tutti i borgesi dalla faccia della terra. Mainardi ha altro per la testa. Incontra di nuovo Tarquinio che ha scelto di stare presso “La Corona di Ferro”, un albergo della città. Lo trova davvero trasformato anche se erano passati soltanto pochi mesi dalla fine del vecchio anno scolastico: “Tu credi che sarò un povero diavolo, nella vita? Vedi; fra poco più di un mese sarò licenziato dal Liceo, e non ho intenzione di continuare con l’Università. Voglio cominciar subito. Anche a guadagnare se è possibile. Noi dicevamo: officina; ma come potrei essere un operaio? Non so, non mi vedo. Operaio è come dire studente, o soldato, è pieno di un senso di ragazzo. Era capo di un’officina che si pensava, no? Già –  dissi io. Ma alla “cava” non era così. Ma alla cava era un gioco –  disse Tarquinio. Non te ne sei reso conto, ancora? Io sì. Capisci, si può avere avuto la cava a sedici anni, e nella vita mettersi a fare il ragioniere di banca, se non hai veramente qualcosa dentro, che te lo impedisce. E io sono schiavo, schiavo, schiavo di un qualchecosa che mi impedisce. Eppure vorrei tanto; essere proprio libero di poter fare anche il ragioniere, perché no? Vedrai appena ti senti cresciuto anche tu, e non è detto che debba toccarti a diciannove anni, potresti restare ragazzo fino a trenta, e fino a più. Ma vedrai; a un certo punto ci si accorge come sarebbe bello dire: farò questo. Non c’è genere di vita che non appaia bello, e viene smania di esserci già dentro anche se è una vita da ragioniere. Sai, una volta lì, non c’è differenza, non ci sono dei borghesi; si è grandi e basta. Ero stupito. Tu parli come uno che vuol sposarsi, dissi” (pag. 111).

Anche Alessio sente che deve cambiare vita. Non può restare sempre lì alla pensione. Incontra più volte l’amico Tarquinio al quale chiede se davvero avesse baciato Giovanna, come diceva Rana nella sua lettera. Dicendo questo ha quasi vergogna di se stesso. Anzi gli sembra di essere diventato un altro Rana, stupido e sciocco nella sua gelosia. Tarquinio lo rassicura che tra lui e Giovanna non c’è stato proprio nulla. Non è un bacio che cambia la vita della persona ma ben altro. Cominciano intanto le prove scritte agli esami: “Il primo giorno fu italiano e alle undici e mezzo consegnai il mio compito, sicuro di aver scritto il compito più bello che fosse mai stato scritto da un liceale. Furono giorni di rabbioso accanimento. Trascorrevo i pomeriggi chiuso in uno stanzino concessomi dalla signora Rosmunda, a rileggermi da cima a fondo i libri di testo con la paura di non essermi abbastanza preparato. Ogni tanto mi dicevo – Certo verrà lui a cercarmi. Ma Tarquinio aveva anche lui i suoi esami, e siccome la commissione di licenza dal Liceo s’era installata all’Università non avevo nemmeno occasione di incontrarlo davanti a scuola. Lo supponevo accanito al pari di me, e il mio accanimento cresceva; come se solo uno di noi due potesse esser promosso. E bisognava che venissi promosso io, e lui bocciato, perché lui doveva restare studente, e tornare ragazzo, e io diventare compagno di classe di Giovanna; ecco com’era. I giorni delle prove scritte trascorsero. Padre Caffaro del greco e latino, con la sua voce dolente, mi aveva detto che facevo miracoli. La Sempresei anche mi aveva fermato e chiesto con chi avessi studiato: era straordinario come avessi appreso tanto se non si trattava d’un trucco. E c’era stata la Bermùda un giorno ai giardini, tanto cara, avrebbe parlato, mi promise, per non farmi pesare troppo gli esami di chimica che temevo. Sicché esultavo e non volevo più che Tarquinio mi cercasse. E avevo incontrato Rana. Sai – m’ero affrettato a gridargli, tirando via “la storia del bacio me la paghi all’apertura delle scuole” (pag. 116).

Tutti “I turchi” sono stati ammessi agli orali ma Alessio perde la testa dietro a Zobeida. Si reca alla pensione dove lei alloggia assieme ad altre donne e ha con lei la prima esperienza d’amore: “Era come una bambina a dir questo, e anche a ricadere con la testa nel guanciale. E io non la sentii più grande di me. Essa era viva, ora, mi stringeva il viso dentro le braccia, e fu credere, averla. Erano molecole di fede che si avvicinavano, si annodavano come una cosa che nascesse. Pensavo: è questo l’intenso? E sarebbe cresciuto ancora? Sarebbe stato di più? Sarebbe stato tutto l’intenso? Volevo che fosse tutto. E intanto diventavo un altro essere e mi pareva di apprendere che anche lei diventava un altro essere. Era nel suo diventarlo, l’intenso? Finii di pensare, credetti che era l’intenso e mi prese una gran gioia, e nella immensità della gioia mi attaccai ai suoi capelli, glieli strappai forte contro il guanciale” (pag. 122). Tanto aveva fatto Alessio per diventare adulto che ci era riuscito davvero. L’iniziazione sessuale era per lui come per altri ragazzi più grandi o della sua stessa età, l’inizio di una vita nuova. Zobeida, rovistandogli nel portafoglio, gli trova il garofano appassito, dono di Giovanna. “Poi fu scherzosa e mi rovistò nelle tasche. Voleva vedere com’era la mia fidanzata, disse, e cercando una fotografia mi trovò il garofano che sembrava il cadavere d’una bestiola nelle sue mani così vive. “Sarà vecchio di un anno” disse. “E le vuoi bene ancora?” (pag. 125). Il garofano rimane nelle mani di Zobeida. Il ragazzo frequenta ripetutamente la donna fino ad installarsi per diversi giorni nella sua stanza dove è a pensione. Tutti i ragazzi della pensione Formica sanno della relazione di Alessio con Zobeida tanto da prenderlo ripetutamente in giro, dipingendolo come il grande sultano. Il ragazzo, un po’ non capisce, un po’ fa finta di non capire e tutto si risolve in un gioco goliardico Tarquinio si fa vedere di rado. Anche lui ripeterà l’anno, intanto frequenta Giovanna, almeno così dice ma senza darne nessuna prova. Zobeida fa sempre sognare Alessio: “La trovai ch’era appena uscita dal bagno e si pettinava. Stava seduta dinanzi al tavolo della sua toletta e aveva i capelli che davano senso di fresco come aria bionda, tagliati corti intorno al collo. Non mi rimproverò d’esser tornato, scosse solo la testa sorridendo nel suo modo commosso, e intanto, posato il pettine, restava ferma con le mani tra le sue cose del tavolo. Aveva piccole mani vive senza anelli alle dita. E a me parve che sarei stato chissà come felice di poter vivere sempre, avendola mia, vicino a lei”. Alessio vuole riavere il suo garofano rosso, anche per non perdere l’illusione di amare ancora Giovanna, ma di un amore puro e disinteressato quale poteva vivere un adolescente: “Avevo deciso di riavere il mio garofano per difenderlo da me, come per difendere la mia vita di ragazzo che volevo bene a Giovanna ed ero stato amico di Tarquinio. Ma riavere il garofano significava andare dalla donna bionda e questo, questo era più che difendere la mia vecchia vita di ragazzo, questo rispondeva di colpo a una mia ardente ansietà, e cancellava ogni altra cosa”.

Intanto, i “turchi” della pensione Formica inviano una lettera a Zobeida in persona, reclamando che lasciasse andare Alessio Mainardi. La lettera diceva: “Egregia signora – ci resulta che dal 10 corrente mese lo scolaro Alessio Mainardi della 1a liceale B è scomparso dalla sua pensione lasciando nell’inquietudine la padrona della medesima, signora Rosmunda Formica, nonché i compagni di camera signori Ahmed Cogia, Perez, Valente, Bajardo, Corsentino, Mattioli e Trovato, i quali lo piangono per morto. “Ci resulta altresì che il nominato Alessio Mainardi, per quanto non abbia dato segno alcuno delle proprie intenzioni, si è recato la sera del giorno suddetto, dopo un lungo vagabondaggio pei bastioni della città, nella Casa di cui Ella fa parte, ed ivi ancora si trova, inutile negarlo, nascosto, non sappiamo se a di Lei insaputa, nella camera da Lei stessa occupata” (pag. 167). La lettera viene letta anche da Alessio Mainardi che si adira non poco quando legge il nome di Cosimo Gulizia: “Ma un più alto dovere ci resta verso qualcuno e verso noi stessi, ed è di recuperare l’originario fiore simbolico, al nome del quale la nostra organizzazione s’intitola. Detto fiore, spiccato da dita innocenti, si trova adesso, signora, a portata della sua mano, e precisamente indosso alla persona del Mainardi. Ella può compiere un’opera di giustizia sottraendolo al nominato e facendolo pervenire tra le diciassette e le diciotto di domani 15, in busta chiusa, al signor Cosimo Gulizia della 3a B, che si troverà a riceverlo sulla soglia della Farmacia Esculapio, sita al n’ 215 del Corso Grande. “Tenga presente, signora, che siamo anche determinati, ove il nostro desiderio non venisse esaudito, ad informare la Regia Questura della permanenza di Mainardi presso di Lei” firmato Il Garofano rosso (pag. 167- 168). Alessio Mainardi alla lettura del nome Cosimo Gulizia, indirizza un “brutto porco” all’indirizzo del ragazzo. Dopo la lettura della missiva, Alessio ripensa alla propria vita. “Era stato bello avere amico Tarquinio, volere bene a Giovanna, e se lei era la mia favola di vita che non volevo perdere più, neanche volevo lasciarmi dietro davvero distrutta la verità della “cava”, dei banchi a scuola e della montagna rosa. Della lettera difatti mi aveva soprattutto irritato l’accenno ai miei esami perduti. Non già che in quel momento avrei proprio saputo correre a darli; eppure che la possibilità di darli e vincere fosse finita mi riempiva di delusione come se ormai quel mondo mi si negasse, e prevenisse ogni mio impulso a saltar di nuovo fuori in mezzo ad esso”.

La polizia irrompe nella stanza della pensione e arresta Zobeida, “trovandole addosso tutta la droga che doveva vendere”. La donna era legata ad un gruppo di uomini misteriosi che l’avvicinavano più volte nel corso delle giornate. Alessio scappa per le vie della città e si ferma all’altezza di un assembramento di ragazzi del Liceo ai quali si uniscono gli amici “turchi” e dopo alcuni mesi ritrova Pelagrua. Si sta celebrando un funerale: “Seppi che si trattava di Daria Cortis, una della terza, e mi meravigliai di non averla riconosciuta nell’esile volto di bimba che mi era apparso dal fondo della bara. Da viva era stata piuttosto paffuta, una ragazza come tante, rosa e gonfia di petto. “E di che è morta?” “Caduta. Sul campo dell’amore. Non sapevi nulla? Lui è quel tipo bruno, alto che stava sempre con me a Montalbano l’anno scorso. Studia medicina. Ma non credo che si faccia vedere in giro per un pezzo.” “Non l’ha mica uccisa lui…” “Capisco. Ma la storia è stata commovente. Lui l’aveva abbandonata. E lei gli ha scritto che voleva vederlo, che se non andava a trovarla si sarebbe uccisa” (pag. 175). L’episodio è l’occasione per intavolare tra i ragazzi una vivace discussione sull’istituzione di un codice d’amore che colpisca la prostituzione e il tradimento. Si fa garante tutto il gruppo che fa capo al famigerato “Garofano rosso” diventato un po’ il simbolo della ribellione giovanile verso le storture della società in cui vivono.

Il funerale è l’occasione per incontrare la ragazzona che accompagnava Giovanna a scuola. Poco dopo Alessio incontra anche Tarquinio. Il “Piccolo zoppo”, il ragazzo che si fa in quattro per correggere le storture della società, proponendo un Codice d’amore, prima viene ascoltato, poi viene abbandonato alla sua proposta che viene giudicata buona ma irrealizzabile perché ognuno deve trovare dentro di sé l’orientamento verso il bene, senza che ci sia una legge che lo indichi: “Tarquinio tutto il tempo aveva cercato di guardarmi, e ora riuscì a guardarmi, e io ebbi l’impressione che mi domandasse perdono con tutta la faccia. “Perché non sei andato a prenderla, tu che l’aspettavi?” gli dissi io. “Chi?” disse Tarquinio. E io gli dissi: “Oh, non so… Ha ragione il piccolo zoppo. Ci vuole qualcosa che ci obblighi ad esser migliori…”. “Scemo!” disse Tarquinio, sorridendo. Io mi chiesi com’era possibile che implorasse e insieme sorridesse e fosse ironico. “Ma sì” dissi io. “Le ho corso dietro. Mi sono così affannato a dirle il bene. E ora è come se non mi importi nulla e la questione sia altrove…” Gli occhi di Tarquinio si abbassarono costernati. E le sue mani scomparvero dentro le tasche dei calzoni. “Bene” egli disse. “È vita, questo.” “Vita?” dissi io. “Che significa? La vita è anche nulla. Ed è anche vita degli altri, dopotutto.” Qui Tarquinio tirò fuori una mano di tasca. Vidi che stringeva un fazzoletto nel pugno. “E con ciò?” “Ci si inganna, ci si stordisce a vicenda, e si dice che è vita… Che odiosa retorica!” “Ma che vorresti?” disse Tarquinio, col suo fazzoletto nel pugno. Io mi sentii confuso, come s’egli fosse un estraneo. “Non so” risposi. “Certo che lei è perduta… E io sono pieno di speranza.” “Di speranza?” disse Tarquinio. “Che speranza?” Attraverso la deserta distesa dell’acqua fischiò, lontanissima, la sirena di un battello. E Tarquinio parlò ironico, strinse i suoi occhi di miope. “Vedi questo?” disse. Mi mostrò il fazzoletto. Io lo vidi macchiato di sangue non recente. “Che significa?” gli chiesi. E Tarquinio, come cambiando idea: “Oh nulla! Volevo solo buttarlo via!”. Legò dentro al fazzoletto una pietra e lasciò cadere la minuscola cosa rossa nell’acqua. Allora io credetti di capire e mi portai una mano alla bocca. Ma Tarquinio mi condusse via sottobraccio. “Andiamo!” diceva. “Non deve dispiacerti se sono così con Giovanna. Dopotutto tu l’avevi solo baciata. Non hai avuto quell’altra, tu? Forse non è vero che non ti importi nulla di quell’altra” (pag. 185- 186).

Il garofano rosso è il primo romanzo di Elio Vittorini. Vi è ancora qualcosa di giovanile. Molte altre esperienze lo porteranno a pubblicare altri romanzi di altro spessore, tra tutti “Conversazione in Sicilia” e “Uomini e no”. Saranno i romanzi della maturità e dell’impegno politico. Il garofano rosso va letto più volte per trovarvi più piani di lettura. Il testo, con una sua storia, è una riflessione sulla condizione giovanile all’indomani del delitto Matteotti. Il desiderio dei giovani di bruciare le tappe per entrare quanto prima nel mondo degli adulti è comune a tutte le generazioni. Sono particolarmente belle le pagine che l’autore dedica alla descrizione del paesaggio siciliano, quello proprio di Siracusa come anche quello della provincia, luoghi dove Alessio Mainardi ritorna dopo la chiusura dell’anno scolastico. Qui ritrova i propri genitori con i quali non ha nessun dialogo, ma il viaggio nei luoghi della propria infanzia è la ricerca di un tempo perduto e mai più dato da vivere. L’inizio del periodo autunnale carico di piogge è quasi l’anticipazione delle scelte future per il giovane protagonista.

Raimondo Giustozzi

 

 

 

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