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Quartiere San Marone: Via Tasso, Petrarca, Ariosto, Boiardo, Guerrazzi, don Bosco

Baden PowellCampi, orti, pomari, greppi, siepi boscose, alberi che stormivano ad ogni brezza e tubar di tortore e di colombe. Era una grande striscia di terra quella che si allungava da via Carducci, costeggiava a sud la ferrovia locale Civitanova Marche – Fabriano, a nord la via Dante Alighieri e si congiungeva ad ovest con la via del Casone. La via Cavallotti viene aperta solo negli anni 74- 75. Le case popolari più vecchie sono quelle di via Carducci, le più recenti quelle di via Cavallotti. Non sembra vero, ma è così. Là dove ora sfrecciano le macchine appena moderate nella loro velocità da piccoli dossi artificiali e le abitazioni riempiono tutto l’enorme scacchiere, un tempo era il dominio incontrastato di filari di viti maritate al Loppio, un albero basso che permetteva ai tralci di legarsi gli uni agli altri quasi a formare una galleria impenetrabile di verzura e con l’arrivo di aprile di profumi forti quali sanno dare le viti in fiore.

 

Tre le famiglie contadine che hanno arato, seminato, curato con infinito amore la terra: Antinori, detta “Maceratesi”, Foresi “Casone” ed Ercoli, detti “Monteforà”. Erano tutti mezzadri del conte “Bonaccorsi” che aveva la villa davanti all’area “Capacchietti”, oggi centro commerciale. Col tempo diventano piccoli proprietari e lavorano in proprio il terreno. Le abitazioni di una volta non ci sono più. Rivivono solo nel ricordo di chi ha una certa età: “lo casò”, “la campagnola”, demolita quest’ultima proprio negli ultimi mesi. “Lo casò” era chiamato così proprio per l’enorme dimensioni dell’edificio. Si trovava nell’area dove insiste ora la Scuola Media “Mestica”, “La campagnola” era lungo la via “Verga”. Erano grandi case coloniche che potevano ospitare anche dalle trenta alle quaranta persone. La famiglia patriarcale di una volta era un’istituzione comune alle Marche ed alla vicina Toscana dove nelle campagne vigeva il contratto di mezzadria ed occorrevano molte braccia da  lavoro! Tutti avevano un loro compito, soprattutto i vecchi, depositari della saggezza antica. I fratelli si sposavano, avevano figli e tutti rimanevano sotto lo stesso tetto. A guidare questa piccola comunità occorreva un capo, il “vergaro”, coadiuvato dalla “vergara” che rimaneva in casa, a preparare da mangiare per tutti.

 

In tutto l’enorme spazio verde c’erano solo poche abitazioni: quelle dei Cognigni, all’altezza dell’incrocio di San Marone, le case popolari di via Carducci, in via Guerrazzi, la villa del dottore Spagnoli; la “carrareccia” non ancora asfaltata era fiancheggiata da siepi di biancospini. I campi erano coltivati a grano, foraggi, viti ed alberi da frutta: nespole, ciliegie, albicocche, pesche, fichi, pere e mele, tra quest’ultime, le più buone, le “renette”, le mele “ruzze”, “delizia” e quelle di San Giovanni. Nell’aia starnazzavano papere ed oche e chiocciavano le galline. Nel vicino “stallittu”, si allevava il maiale. La “pista”, la macellazione delle sue carni avveniva nei mesi più rigidi dell’inverno, sotto Natale.

 

Non era una vita idilliaca, quasi da cartolina del “Mulino Bianco”. Intervenivano di tanto in tanto calamità naturali, quale l’alluvione del 5 settembre del ’59 che interessò anche questa zona. L’acqua, oltrepassata la ferrovia dilagò per la campagna fino a sommergere ogni cosa con gravi danni per l’agricoltura. Ma ci si rimboccava le maniche e si ricominciava sempre con la stessa lena e fiducia nell’avvenire. Quando in campagna non c’erano tanti lavori da fare, si aggiogavano le bestie al carro agricolo e si andava a giornata per trasportare i blocchi di cemento usati nella costruzione del porto rifugio. In altri giorni, soprattutto nel periodo invernale ci si spingeva fino a Foligno per trasportare i grossi tronchi di alberi usati nelle falegnamerie della zona o come legna da riscaldamento per i camini o per i cantieri. Si partiva di notte e si ritornava qualche giorno dopo.

 

 

 

In fondo alla via Ariosto, aperta solo da poco, sulla destra, prima dell’incrocio con la via Trilussa, era attivo un frantoio di proprietà della famiglia Ercoli. L’abitazione c’è ancora anche se chiusa. Ero addetta a raccogliere le “granelle”, ricordava la compianta Antonina Foresi; torchiate e pressate davano un olio ritirato dalla fabbrica “Cecchetti”. Ero una ragazza- continuava Antonina nel suo racconto e aiutavo come potevo la mia famiglia. Tiravo su, fino al secondo piano dell’edificio, con la fune legata ad una verricello, anche 20 Kg. di granelle alla volta, poste nei secchi.

 

Sul fronte della via Dante, c’erano solo piccole casette poste davanti al bar, là dove ora c’è il negozio Alimentari “Morichetti” che una volta comprendeva anche la tabaccheria. In via Petrarca, quasi all’angolo, c’era la vecchia casa degli Antinori. La via Boiardo era solo un piccolo sentiero di campagna, usato dalle famiglie dei due cugini Ercoli che vi avevano la casa. “Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, e ogni stagione aveva la sua usanza e il suo linguaggio secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno” . Maggio era il mese di inizio dei grandi lavori agricoli. Si falciava il fieno, prima tutto a forza di braccia, con l’immancabile falcia – fienaia, poi con le prime falciatrici meccaniche. Nel corso della stagione si facevano più tagli dal momento che quasi tutti i contadini potevano irrigare il terreno. Il primo taglio era verso la fine di maggio, il “maggengo”, ad agosto “l’ostano”. L’aria era impregnata dall’odore forte dell’erba lasciata ad essiccare ai raggi del sole. Lo si voltava e rivoltava più volte perché fosse asciutto. Doveva durare per tutto l’inverno. Era l’alimento base per le mucche nelle stalle, accompagnato a farinacei. Arrivavano poi i giorni “de lo mète”, “lo vatte” e “lo radunà”.

 

Biondeggiavano le spighe di grano nella campagna inondata dal sole. I campi, punteggiati qua e là da papaveri ed avena, disegnavano uno scenario inconfondibile. Si entrava nei campi con la falce per fare la “strada” alla falciatrice meccanica trainata dalle mucche. Il grano falciato veniva legato in grossi covoni che a gruppi di venticinque venivano ammassati a formare “li cavallitti”. Dopo averlo portato nell’aia a formare “lo varcò”, la grossa bica di grano, si aspettava qualche giorno per trebbiarlo. Arrivava la macchina da “vatte”, con la scala per il pagliaio della paglia e per quello della pula. Tutto era trainato dal grosso trattore O.M. che andava a nafta. Ercoli Pacifico possedeva tutti i macchinari, sia per trebbiare il grano, l’erba medica ed il granturco. Di quegli anni lontani, chi ha una certa età ricorda il frastuono assordante delle cinghie, pulegge, setacci, il rumore sordo e prolungato del battitore che ingoiava uno dopo l’altro i covoni, la polvere, l’arsura, le bevute: vino ed acqua leggermente spruzzati da una fetta di limone e le continue mangiate che servivano da ristoro nei diversi momenti della fatica.

 

Terminata la trebbiatura, arrivavano i giorni “de lo scartoccià”. Prima dell’avvento della macchina per la sgranatura, tutte le operazioni venivano fatte a mano. Di quel lavoro si ricordano ancora i canti che servivano per alleviare la fatica ed il sonno, perché lo si faceva di sera. L’immancabile organetto ed il saltarello chiudevano la serata. Memorie lontane, ricordi di cose scomparse.

 

Parco pubblico di via Guerrazzi

Il parco pubblico, compreso fra via Guerrazzi, via Boiardo e la congiunzione delle vie Cavallotti e Verga, dal 2016 si chiama “Parco sir Robert Baden Powel”, fondatore dello scoutismo universale. Nel corso della quinta edizione FESTANFFAS, tenutasi nel giugno del 2016, è stata collocata in loco una stele dedicata all’illustre educatore e scrittore inglese sir Robert Baden Powel (Londra 22. 02. 1857 – Nyeri Kenya 1941). Il manufatto, opera dello scultore Leonardo Terenzi, realizzata dalle officine Romagnoli, è stata voluta dagli Scout di Civitanova Marche, in collaborazione con “Estate Parati”.

La cerimonia di inaugurazione del parco, dedicato a Baden Powel, si è tenuta il 19 giugno del 2016, presenti, il vice sindaco Giulio Silenzi, il dott. Sergio Ardito, vice presidente dell’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie, Fanciulli, Subnormali) e i gruppi scout di Civitanova 1, Civitanova 2, Civitanova Alta e Masci. Don Piero Pigliacampo, allora assistente degli scout e parroco di San Gabriele, parrocchia di Civitanova Marche, ha benedetto l’opera. Il parco è stato preso in cura dall’ANFFAS cittadina che provvede alla manutenzione orinaria e straordinaria di tutte le attrezzature presenti, attraverso il personale di una cooperativa.

“Ha da passà ‘a nuttata”. La celebre frase è di Edoardo de Filippo, contenuta nella commedia “Napoli Milionaria”. E’ il medico che pronuncia quelle parole che, negli anni, sono diventate un vero e proprio simbolo di speranza e ottimismo. Nel terzo atto, dopo estenuanti ricerche, viene finalmente trovato il farmaco che promette di salvare la vita di Rituccia, figlioletta di Gennaro e Amalia. Il  dottore, dopo averlo somministrato alla paziente, esclama: “Mo ha da passà ‘a nuttata”. Ora deve superare la crisi. Nella commedia, però, quelle parole vengono ripetute, nel finale, quando Gennaro decide di usarle per rincuorare la moglie, angosciata non solo per la salute della figlia ma forse ancor di più dalle ferite che la guerra ha lasciato su tutti loro.

Nel testo integrale si legge: “Le offre una tazzina di caffè. Amalia accetta volentieri e guarda il marito con occhi interrogativi nei quali si legge una domanda angosciosa: ‘Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando?’. Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza: ‘S’ha da aspettà, Ama’. Ha da passà ‘a nuttata’“. L’Italia era appena uscita dalla seconda guerra mondiale, i cui tragici ricordi erano ancora ben vivi nella memoria dei sopravvissuti ai bombardamenti aerei e alle rappresaglie nazi fasciste. Il passato ritorna anche se sotto altre forme. Oggi, la nottata è quella segnata dalla lunga pandemia da Covid 19 che ci sta flagellando da più di un anno.

Nonostante tutto, anche in questo difficile periodo, nei giorni di bel tempo il parco di via Guerrazzi si riempie di bambini e ragazzi, papà e mamme che accompagnano i propri figli. L’ho verificato di persona giovedì 18 febbraio 2021 nel primo pomeriggio. Tutti indossavano la mascherina, dispositivo imposto per fronteggiare la pandemia in atto. Manca invece la cura del parco ad opera della cooperativa. La stampa locale denuncia ripetutamente che l’area è diventata luogo di spaccio. Questo è  triste, ma anche nei giorni della tempesta occorre sempre guardare oltre, quando le nubi si diraderanno e si tornerà a vivere senza paura. Si spera che questo possa avvenire quanto prima. Ne va di mezzo anche la salute mentale non solo quella fisica.

 

La Via don Bosco

 

Novanta metri di strada per circa ottanta famiglie residenti. Una densità abitativa tra le più alte nel comune. E’ la via don Bosco, nel cuore del quartiere di San Marone, chiusa in fondo da un muro alto che impedisce qualsiasi sbocco. Solo spicchi di cielo e tante macchine parcheggiate tra i due lati. “Siamo come dei topi in trappola”, protestava per tutti Nicola Orlandi, scomparso qualche anno fa. Ne aveva fatte di battaglie, soprattutto quella di far rispettare il divieto di parcheggio su di un solo lato della strada. “Parcheggio riservato solo ai residenti”, così era scritto  all’ingresso della via, ma non è sufficiente. Il divieto non è rispettato e per il quieto vivere si passa sopra. Non si può pensare di mettere in strada uno “sceriffo” che controlli chi ha diritto a lasciarvi la macchina perché residente e chi ve la lascia ugualmente senza averne nessun diritto.

Quando c’era il divieto di parcheggio su uno dei due  lati, le guardie municipali facevano gli straordinari. Erano sempre lì a staccar multe. Un bel giorno se ne sono andate e tutto è precipitato. L’unico momento della giornata in cui la strada è un po’ sgombra dalle macchine è dalle 8,30 alle 9,00, per il resto del giorno è tutto un muro, l’uno a destra, l’altro a sinistra, costituito dalle lamiere delle macchine ed in fondo quello vero che cintava l’area della ex fabbrica “Cecchetti”. “Mi sono convinto a farmi una scala d’emergenza che dà sul retro della casa, nell’area della ex “Cecchetti”, precisava Nicola, temendo di rimanere intrappolato in caso di bisogno, nel caos delle macchine parcheggiate sulla strada.

 

Il crollo del muro di Berlino ha stuzzicato collezionisti  a caccia di souvenir, sarà così anche per quello di via don Bosco quando verrà abbattuto. E’ stato più longevo rispetto a quello tedesco. E’ in corso d’opera tutta una diversa configurazione dell’intera area. La strada continuerà e si raccorderà con un’altra che uscirà, attraverso un sottopassaggio, al centro e proprio dietro il muro, all’angolo, sorgerà il Museo archeologico cittadino. Chi vivrà, vedrà; per il momento le ansie e le preoccupazioni restano quelle di sempre: “Dovesse succedere un incendio o qualche anziano dovesse sentirsi male, è difficile se non impossibile far entrare nella via, mezzi di soccorso, autobotti di pompieri e quant’altro possa servire per salvare vite umane”, aggiungeva preoccupato Nicola. Troppe sono le macchine in sosta su ambedue i lati e non sempre si riesce a risalire ai legittimi proprietari delle autovetture. Chi ha da fare qualche breve o lunga commissione nei negozi lungo la via “Cecchetti” non trova di meglio che parcheggiare in via don Bosco, una strada a portata di mano.

 

La via sembrava rinascere a vita nuova, quasi prefigurando come sarà in futuro, quando veniva “svuotata” da tutte le macchine e gli abitanti allestivano, addossato al muro, l’altarino con la statua della Madonna, in occasione della “Peregrinatio Mariae” che la Parrocchia di San Marone celebrava ogni anno nel mese di maggio, prima del Covid 19. La pandemia purtroppo ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo. In occasione della “Peregrinatio Mariae” era davvero un piacere camminare anche solo per pochi metri e sentirsi padroni della strada, parlare con gli abitanti della via, condividere con loro dolci e bevande, alzare gli occhi e ammirare i grandi condomini, tra tutti quello dove un tempo sorgeva il “Molino americano”.

 

Il molino, di proprietà della “Società Molini e Pastifici di Ascoli Piceno”, una società costituita da capitali marchigiani e milanesi, costruito nel 1907, “era dotato all’interno di macchinari elettrici per la macinazione, tanto moderni e diversi da quelli a “palmenti”, in uso nell’epoca, da essere denominato comunemente “molino americano”. Si sviluppava su quattro piani ed aveva un volume di circa 2400mc. I carichi di grano e farina venivano trasportati a mezzo di carri, trainati da buoi o cavalli, che facevano la spola tra il complesso e la stazione. Soltanto anni dopo la sua costruzione venne collegato alla ferrovia mediante un binario di raccordo”(Cfr. M. Diomedi, San Marone, quartiere industriale e residenziale a ridosso del centro urbano, in “Civitanova immagini e storie”, vol. 9, pp. 57-58, giugno 2001, Civitanova Marche).

 

Raimondo Giustozzi

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