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Versus Festival della poesia 5 marzo. La fabbrica abbandonata, di Fabio Franzin

Fabio Franzin

Fabio Franzin

di Nino Iacovella

Dal tempo del saggio “Schei” di Gian Antonio Stella sino all’ultimo articolo di Michele Serra sui capannoni industriali abbandonati nel Nord Est, due autori hanno descritto drammaticamente la realtà produttiva, e soprattutto operaia, dell’ex miracolo economico veneto: Vitaliano Trevisan con la sua toccante autobiografia in Works, e Fabio Franzin con la sua poesia scritta proprio da una intera esperienza di vita all’interno della fabbrica. E dall’opera principale “Fabrica” a questo ultimo libro “‘A fabrica ribandonàdha” (Arcipelago itaca Edizioni, 2021, Osimo), Franzin chiude il ciclo letterario che narra di una scommessa economico sociale fallimentare già in partenza: una piccola e media industria trainata dalle svalutazioni competitive e sullo sfruttamento dei lavoratori, una trasformazione valoriale di un territorio che porta, nell’arco di una sola generazione, da Dio a mammona, dalla solidarietà all’egoismo. Uno sviluppo dalle gambe corte che sottrarrà terra fertile alla semplicità contadina di un tempo e porterà alla dirompente forza corruttiva della nuova religione degli “schei”.

Fabio Franzin canta la remissione della classe operaia che non ha via di fuga dalla fabbrica: fabbrica che è il giogo che pesa sui destini delle famiglie proletarie, automatismo che non si riesce a disinnescare nemmeno per sabotaggio. L’autore, in presa diretta all’interno dei capannoni industriali, usa la lingua del suo territorio: il veneto. Suoni e pronuncia e madonne tra lamiere e torni, turni di notte e straordinari tirati al fine settimana sino ad ammattire, sino allo sboom, alla disoccupazione, per non essere considerati più buoni come ingranaggio dal quale estrarre profitto e speculazione. Leggere la poesia di Franzin è indispensabile per rimanere sempre empaticamente connessi alla sofferenza di chi vive nei luoghi di produzione. Quando alla durezza dei ritmi della fabbrica si affiancano gli incubi dell’incertezza sul futuro lavorativo. I mali atroci di una società sempre più sfaldata dove, forse, è possibile intravedere gli ultimi gesti di solidarietà proprio in coloro che condividono la dolorosa esperienza di fabbrica.

Notizia

Coeva al periodo che va dalla stesura di Fabrica (Atelier 2009) e Co’e man monche (Le voci della luna 2011), ‘A fabrica ribandonàdha nasce come una costola, un’appendice del poema operaio negli anni della grande crisi del terzo millennio. È stata scritta durante il periodo di forzata inattività seguita al fallimento dell’azienda che produceva pannelli semilavorati per mobili in cui avevo prestato la mia opera (reparto presse), per oltre un ventennio, e quindi sballottato nel tempo vuoto della mobilità, della ricerca di un nuovo inserimento nella realtà professionale. Vuoto durato quasi tre lunghi anni.

I testi posti in Appendice, nella sezione Te l‘erta del calvario, sui temi succitati, variano da una stesura (poi rivista) di quell’epoca, sino a testi scritti negli ultimi anni, come echi di una realtà che mi vede ancora dentro, ancora ancorato ai gesti delle mani e della si- rena, e anche come una sorta di colloquio sul tema con i poeti più amati.

La crisi è tutt’altro che superata, purtroppo, visto che, un decennio dopo, siamo ancora a registrare la moria di posti di lavoro (causati anche dal sempre più consistente impiego della robotica), e la chiusura di molte attività, sia nel mezzogiorno, come nel nord est del nostro paese, per la delocalizzazione dei siti produttivi in paesi dove la manifattura è a più basso costo.

L’avvento della pandemia da Covid, poi, con i suoi lockdown, totali e parziali, le restrizioni, i ristori statali insufficienti, non faranno che aggravare una condizione già in affanno.

Ci troveremo, perciò, a dover registrare nuove chiusure, nuove “Fabbriche abbandonate”.

In un’epoca in cui siamo un po’ tutti diventati operai, maestranze di un “padrone” invisibile che si impone con le leggi del mercato e della finanza.

Per tutto questo il discorso sul lavoro mi sembra ancora attua- e, e quanto mai stringente.

“La fabbrica abbandonata” è davvero una metafora della nostra epoca. Non solo da intendersi come “opificio dismesso”, ma anche, e soprattutto, come luogo dove è stata dismessa l’etica delle mani, dove è sempre più arduo mantenersi umani. In questi spazi, destinati ormai solo al mero profitto (che è solo e sempre per i vertici delle aziende), dove ciò che è dismessa è persino l’ontologia stessa del lavoro, vedo spolpati sentimenti come l’amicizia, l’altruismo e la solidarietà; al contempo emergono sempre più la competizione, la delazione, l’individualismo, spogliando il luogo che dovrebbe rendere all’uomo la propria dignità, lasciandolo così solo con se stesso a operare, sempre più precariamente, in uno spazio svuotato di simboli, abbandonato a una triste e crudele guerra fra poveri.

Che poi, nella mia esperienza umana, essa sia stata anche il luogo dell’infanzia (nonostante il territorio fosse ancora ricco di prati, alberi, fiumi…), che sia stata un po’ il nostro “parco giochi”, mi sembra non altro che uno fra i tanti disegni del destino.

 

Tre navate ‘a ‘vea ‘sta nostra

catedràe, tre spazhi grandi co’

fa squasi un canp da baeón;

te quel in mèdho i piàstri, tuti in

spìroea, sacre coeòne del tenpio

 

sconsacrà, crose de tubi picàr

dai sufìti, l’altàr ièra un bancón

de fèro tut rùdhene. Là se ‘ven

fat un catechismo nostro, pìcoi

santi, co‘e stigmate tii dhenòci.

 

 

Tre navate aveva questa nostra

cattedrale, tre spazi enormi quasi

come un campo di calcio; in

quello centrale i pilastri, tutti in f

ila, sacre colonne del tempio

 

sconsacrato, crocifissi di tubi a pendere

dai soffitti, l’altare era un bancone

di ferro arrugginito. Là ci siamo

fatti un catechismo tutto nostro, piccoli

santi, con le stimmate sui ginocchi.

 

***

 

Un dì de piova, intànt che ‘l ne

scanpéa via – sé coréssi drioghe

senza un parché o ‘na gara, cussì,

pa’ far ganba e mùscoeo – ‘Berto l

’é cascà sora un pierón, un fèro

 

de l’armadhùra el ghe ‘à sbusà un

polpàcio, passà da fòra par fòra

tea carne. Intànt che lo menéssi

a spàea casa sua tut pàidho, pensàr

a Gesù, ai ciòdhi, ai nostri pecàdhi.

 

 

Un giorno che pioveva, mentre stava

scappando – ci correvamo dietro

senza una ragione o una gara, così,

per far gamba e muscolo – Alberto

cadde sopra un blocco di pietra, uno spuntone di ferro

 

dell’armatura gli si conficcò

in un polpaccio, trapassando

le carni. Mentre lo accompagnavamo

a spalla a casa sua tutto pallido,

pensare a Gesù, ai chiodi, ai nostri peccati.

 

***

 

Zhèrte zornàdhe de sol vignéa

drento fasse de ciaro sbièghe

in fra i denti dei fénestroni roti;

lame de mièl ‘ndo’ che pólvara

e moscati zoghéa a missiàrse su,

 

senza pase. Sgarpìe negre picàr

dai sufìti, ‘fa tende sbrindeàdhe

de un luto che no’l ne tochéa. Fra

chee strisse ieréssi oro e suìto dopo

onbrìe. Cussì ’é stat anca fòra da là.

 

 

Certe giornate di sole penetravano

fasce di luce oblique

fra i denti aguzzi dei lucernari infranti;

lame di miele dove polvere

e moscerini giocavano a far galassia,

 

senza requie. Ragnatele nere pendere

dai soffitti, come tende sbrindellate

di un lutto che non ci toccava. Fra

quelle strisce eravamo oro e subito dopo

ombra. Così è stata anche la vita

 

***

 

Dopo sen stadhi fracàdhi drento

aa furia del far, voénti o noénti.

Formìghe del nord-est, del gran

miràcoeo; ore e straore, schèi e

sudhór, el sabo de sera ‘na corsa

 

pa’ ciorse indrìo ‘a vita, el cuor.

Moeàdhe ‘e bici che ‘à fat sigsag

fra i piastri; al só posto ‘e moto

enduro, ‘e Alfa e ‘e Golf che òni

tant finìa contro un platano duro.

 

 

Poi fummo spinti dentro

alla furia produttiva, volenti o nolenti.

Formiche del nord-est, del grande

miracolo; ore e straore, soldi e

sudore, il sabato sera una corsa

 

per riprenderci indietro la vita, il cuore.

Abbandonate le bici che zigzagarono

fra i pilastri; al loro posto le moto

enduro, le Alfa e le Golf che ogni

tanto si schiantavano contro un platano duro.

 

***

 

Sbàre, crose

 

(Visitare le fabbriche è come visitare le prigioni)

Czesław Miłosz

 

Ma ‘lora ‘ndov’ée ‘ndadhe ‘e sbare

che ‘vea da èsser fisse qua te ‘sti quari

scuri, incrosàdhe e rùdhene? Chi ‘o

 

che le ‘à stacàdhe via, che ‘l se ‘e ‘à

portàdhe casa, sora ‘e spàe, tel calvario

dee scàe, a sgrafàr i muri drio i coridòi,

 

far cristi in serie mai stadhi boni de far

miràcoi, a scontàr ‘na colpa che no’ i sa,

che no’ i capisse? Che ‘na fabrica ‘a ghe

 

somejiésse a ‘na presón, quel sì che i ‘o

savèa, mai i ‘varàe pensà de ‘verla drento

de lori, ‘na volta ‘assàdha, ‘na volta liberi.

 

 

Sbarre, croci

 

Ma allora dove sono finite le sbarre

che dovevano esserci qui, fitte, in questi finestroni

neri, incrociate e arrugginite? Chi mai

 

le avrà staccate, se le sarà

portate a casa, sulle spalle, nel calvario

delle scale, a graffiare le pareti lungo i corridoi,

 

creare cristi in serie mai stati capaci di compiere

miracoli, a scontare una colpa che non sanno,

e non possono comprendere? Che una fabbrica

 

fosse simile a una prigione, quello sì che lo

sapevano, mai avrebbero immaginato di conservarla dentro

di sé, una volta lasciata, una volta liberi.

 

***

 

Co’ste man

 

(Tanta fatica s’è fatta

per arrivare sin qua)

Franco Fortini

 

Co’ste man, ‘e stesse che ‘dèss scrive,

‘ò segà, fresà, ciapà in man panèi

de legno, invidhà, sbusà, scocetà,

incoeà, inpacà, sièlt e scartà, bordà,

stucà, ritocà, segnà, fregà e inbaeà

par pì de trenta àni. Co’ste man

‘ò carezhà mé fémena e mé fiòi,

‘a front de mé pare co’ l’é mort.

 

‘Dèss me ‘e mete contro el muso,

davanti ‘i òci. No’ò pì nianca

el coràjo de vardàrme al spècio,

nianca el coràjo de farme ciao.

 

 

Con queste mani

 

Con queste mani, le stesse che ora scrivono,

ho segato, fresato, afferrato pannelli

di legno, avvitato, forato, bloccato col nastro adesivo,

incollato, impaccato, scelto e scartato, bordato,

stuccato, ritoccato, segnato, levigato e imballato

per più di trent’anni. Con queste mani

ho accarezzato mia moglie e i miei figli,

la fronte di mio padre quando è morto.

 

Adesso me le premo contro il viso,

davanti agli occhi. Non ho più neanche

il coraggio di guardarmi allo specchio,

nemmeno il coraggio di salutarmi

 

***

 

Miràcoi?

 

Vegnerà el vero Cristo, operajo

Pier Paolo Pasolini

 

El vegnarà, sì. Vero davéro?

mah. E sarà za massa tardi.

 

Sora i busi dei ciodi guanti

e scarpe col puntàl de fèro.

Sora quei dee roe un casco

de plastica zàea; a ‘scónder

el sbrègo vèrt tel costato

‘na felpa blè, un marchio.

 

No’ lo riconosserà nissùn,

e nissùn pì lo ‘spetéa, romài,

drento ‘ste quatro mura grise,

fra ‘ste machine che sufia.

 

I ‘o metarà là a ciapàr tòchi.

Òto, dièse dì de contràto.

 

Dopo un fià se ghe spiega

che ‘e prediche el vàe pur

a farle da ‘n’antra banda,

che no’ven tenpo da pèrder.

 

Miràcoi? seh! saràe za tant

se i ne tignésse qua fin nadhàl

 

 

Miracoli?

 

Verrà, sì. Vero davvero?

mah. E sarà già troppo tardi.

 

A coprire i fori dei chiodi guanti

e scarpe con la punta di ferro.

Sopra quelli delle spine un casco

di plastica gialla; a nascondere

lo squarcio aperto sul costato

una felpa blu, un logo.

 

Non lo riconoscerà nessuno,

e nessuno più lo attendeva, ormai,

fra queste quattro mura grigie,

fra questi macchinari che ringhiano.

 

Lo metteranno là a prendere pezzi.

otto, dieci giorni di contratto.

 

Dopo un po’ gli spiegheremo

che le prediche vada pure

a farle da un’altra parte,

che non abbiamo tempo da perdere.

 

Miracoli? sì! sarebbe già tanto

se ci tenessero qui sino a natale.

 

***

 

Inverno del ‘18, Fronte Occidentàe

 

Un sècoeo dopo Caporéto, no’ l’é

pì drio sentieri ièrti in fra ‘e cròdhe,

rive de fiumi zheèsti o rossi de sangue,

fra bufere de neve te stepe infinìdhe

 

che se vede ‘a disfàta de un pòpoeo,

ma tee stazhión dee nostre cità, tee

piazhe desoeàdhe dei paesi, davanti

ae vetrine inpolveràdhe dee botéghe

 

seràdhe, tee panchine mèdhe rote

de parchi intitoeàdhi a chissàchi

che ‘sto esercito de sbandàdhi se

cura ‘e ferìdhe. E come un sècoeo

 

fa, mandàdhi al fronte co’ divise

da poc: i pì zóvani co’ felpe o pail

cioti in saldo aa Decathlon, gins

coi risvoltini o braghe cargo bèis

 

de l’A&M; i pì veci, giè inbotìdhi

co’a marca de l’azienda che li ‘à

‘assàdhi casa, caschi de lana scura,

scassèe colme de siénzhi e scontrini.

 

Òmini ferìdhi a colpi de spred,

cascàdhi drento agenzie interinài,

da l’ultima manovra de ‘utùno,

o persi parché el grosso dea trupa

 

l’é stat spostà in Poeònia o Romania.

Soldàdhi restàdhi indrìo, che no’ sa

pì star al passo dea marcia. Armàdhi

sol de bire e ansie. Amàdhi da nissùn.

 

 

Inverno del ‘18, Fronte Occidentale

 

Un secolo dopo Caporetto, non è

più lungo sentieri erti fra le rocce,

rive di fiumi azzurri o rossi di sangue,

fra bufere di neve in steppe infinite

 

che si scorge la disfatta di un popolo,

ma nelle stazioni delle nostre città, nelle

piazze desolate dei paesi, davanti

alle vetrine impolverate di negozi

 

chiusi, nelle panchine malconce

di parchi intitolati a chissà chi

che questo esercito di sbandati si

lecca le ferite. E come un secolo

 

fa, mandati al fronte con misere

uniformi: i più giovani con felpe o pile

acquistati in saldo alla Decathlon, jeans

coi risvoltini o pantaloni cargo beige

 

dell’A&M; i più maturi gilè imbottiti

col logo dell’azienda che li ha

licenziati, caschi di lana scura,

tasche colme di silenzi e scontrini.

 

Uomini feriti a colpi di spread,

caduti dentro agenzie interinali,

dall’ultima manovra d’autunno,

o persi perché il grosso delle truppe

 

è stato dislocato in Polonia o Romania.

Soldati di retrovia, che non sanno

più stare al passo della marcia. Armati

solo di birre e ansie. Amati da nessuno.

 

***

 

Sen come chee ramàzhe

 

Son ‘pena ‘tornà casa da una

de ‘ste manifestazhión contro

‘a crisi dei sindacati, i me ‘à

anca regaeà ‘na majia co’a scrita

rossa IO RESISTO tel davanti

 

i me ‘à mess in man ‘na bandiera

da sventoeàr parché par che sie

anca ‘a RAI, co’e só telecamere,

in piazha, e ‘lora bisogna far ciasso,

i dise, co’ vose, tanburi e coeóri.

 

…………………………………

 

IO RESISTO, sì, ma ‘l magón

che ‘ò drento, no’ basta slogan

de riscossa o un spritz insieme

pa’ pararlo zó, pa’ far speranza.

 

Cussì passéjie drio ‘a Livenza,

te ‘sto dì de dizhenbre, griso,

de piovéta fina, e fissa, camìne

e varde ‘e rive, l’aqua bassa,

‘e nutrie e ‘e ànere, ‘e nùvoe che

passa lente sora ‘a lastra sbusàdha.

 

Noàntri sen quei che ‘a fat serf

tea colma, quei che ‘a fat grando

el nord-est: ore e straore drento

 

i capanóni, sabo e domenega,

turni e nòt parché o cussì o cussì,

lavoro ‘a nostra scuòea, dovér

e testa bassa, dó schèi al dièse.

 

………………………………….

 

‘Dèss sen come chee ramàzhe

 

negre, longo ‘a sponda, nude

de fòjie, brute e spazhe, coeór

dea rùdhene, del paltàn, co’ tute

chee scoàzhe picàdhe, strazhe

de nàilo. Resti dea bubana che

l’aqua l’à ‘assà là, co’a magra,

 

co’a storia, ‘l destìn se ‘à revessà.

 

 

Siamo come quei cespugli

 

Sono appena tornato a casa da una

di queste manifestazioni indette

dal sindacato contro la crisi, mi hanno

anche regalato una maglietta con la scritta

rossa IO RESISTO sul davanti

 

e mi hanno messo in mano una bandiera

da sventolare perché pare sia presente

anche la RAI, con le sue telecamere,

in piazza, e allora bisogna far chiasso,

ci dicono, con voce, tamburi e colori.

 

…………………………………

 

IO RESISTO, sì, ma il magone

che ho dentro, non bastano slogan

di riscossa o uno spritz in compagnia

per digerirlo, per infondere speranza.

 

Così passeggio lungo la Livenza,

in questo pomeriggio di dicembre, uggioso,

di pioggerella fitta, cammino

e guardo le rive, l’acqua bassa,

le nutrie e le anatre, le nubi che

scorrono lente sopra quella lastra bucherellata.

 

Noi siamo quelli che hanno fatto surf

nel benessere, quelli che hanno

fatto grande il nord-est: ore e straore dentro

 

i capannoni, sabato e domenica,

turni e notti perché o così o così,

lavoro la nostra scuola, dovere

e testa bassa, due soldi il dieci.

 

………………………………….

 

Ora siamo come quei cespugli

scuri, lungo l’argine, nudi

di foglie, spenti e lerci, del colore

della ruggine e del fango, con tutta

quell’immondizia appesa, stracci

di nylon. Resti della cuccagna che

l’acqua ha deposto là, con la magra,

 

quando la storia, il destino si sono capovolti.

 

***

 

‘Ndé a dirghe

 

(copiando “I bu” di Tonino Guerra, 50 anni dopo)

 

‘Ndé a dirghe ai mé coèghi

operai che romài ‘a ‘é finìdha,

che el só lavoro no’l serve pì,

che incùo se fa prima coi robò.

 

E po’ fen fenta che ne fae pecà

pensàr aa fadhìga che i ‘à fat,

(come i bò, prima e dopo de lori)

vardàndoi ‘ndar, a testa bassa,

drio ‘a corda longa dea crisi.

 

 

Andate a dire

 

Andate a dire ai miei colleghi

operai che ormai è finita,

che il loro lavoro non serve più,

che oggi si fa prima coi robot.

 

E poi fingiamo ci faccia pena

pensare alla fatica che hanno fatto

(come i buoi, prima e dopo di essi)

guardandoli andare, a capo chino,

lungo la corda lunga della crisi.

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