Guido Petrangeli Giornalista e blogger
A cosa serve la democrazia se abbiamo i big data provenienti dalla rete? La domanda provocatoria se l’è posta Christina Larson in un articolo pubblicato sulla rivista del Mit di Boston. Intorno agli addetti ai lavori si sta facendo sempre più largo la consapevolezza di come il potere dei dati e la vastità della rete stiano incidendo in maniera irreversibile con il concetto di democrazia.
Niente ha cambiato la nostra democrazia più dell’avvento e dell’espansione del web 2.0. Le grandi corporate americane, i social media, la nascita di un’opinione pubblica digitale: è qui che bisogna scavare per capire come i fattori tecnologici degli ultimi anni abbiano accelerato il processo di trasformazione delle nostre istituzioni democratiche.
Il cittadino, sempre più connesso all’interno della rete, lascia continuamente traccia dei suoi comportamenti e delle sue opinioni sulle piattaforme sociali. In un prima fase le abitudini digitali degli utenti online, elaborate in big-data, sono state utilizzate dalle corporate per adottare strategie commerciali sempre più sofisticate.
Visualizzare la pubblicità delle scarpe sulle nostre home page, dopo aver digitato uno dei marchi americani più famosi su Google, è un esempio di questa profilazione. Ma oggi assistiamo anche a un uso dei flussi informativi che passano sui social network e sulla rete per influenzare le campagne elettorali oppure per costruire o demolire il consenso dei leader politici. Uno scenario sempre più attuale e che vede nella Repubblica popolare cinese lo specchio di cosa potrebbe accadere o già sta accadendo anche nelle nostre democrazie.
Secondo Christina Larson, per tenere sotto controllo una nazione di 1,4 miliardi di persone Xi Jinping ha inaugurato in Cina una strategia basata su una combinazione di sorveglianza dei social media, intelligenza artificiale e big data. Dall’inizio del suo mandato Xi Jinping riceve giornalmente – secondo un’autorevole fonte statunitense – un resoconto sulle principali critiche e sui trend provenienti dai social media. Nel 2016 è uscito un rapporto dell’università di Harvard che parla di un elevatissimo numero di persone, circa 2 mln, pagate per pubblicare sui social network post pro-governativi. Secondo questa ricerca gli utenti vengono pagati 50 centesimi per post e riescono a pubblicare un totale di circa 448 milioni di messaggi all’anno.
Lo scopo è ovviamente quello di creare consenso dal basso intorno alle politiche del governo, ma anche quello di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica digitale da fatti che potrebbero innescare proteste. In particolare il governo cinese è molto attento a tutto quello che passa in rete riguardo ai temi sui diritti civili e l’integrazione tra le varie etnie.
Negli ultimi anni sui social sono stati pubblicati moltissimi messaggi per creare consenso contro la minoranza musulmana (uiguri), i diritti Lgbt ed il movimento #MeToo. Non stiamo parlando di un futuro fantascientifico ma di reti ben organizzate che il prof. John Albright ha definito “organizzazioni ombra”. Con questo termine si intendono delle communities online, non ufficialmente legate a partiti, ma che sostengono in maniera radicale e aggressiva temi politici.
Grazie agli strumenti di advertsing a pagamento di facebook gli amministratori delle organizzazioni ombra riescono a profilare i loro messaggi e renderli virali ad una platea sconfinato di persone. E parliamo di numeri che superano di gran lunga quelli del quotidiano più letto o del tg più seguito di qualsiasi paese.
Gli algoritmi matematici fanno il resto: le notizie più virali create da queste organizzazioni finiscono in cima alle nostre bacheche di facebook e twitter ma anche sui motori di ricerca come google. Se pensiamo che questi network di disinformazione siano utilizzati solo nella repubblica popolare cinese commettiamo un errore. Infatti se in Cina le “organizzazioni ombra” sono istituzionalizzate nel lavoro di propaganda di regime, nelle nostre democrazie occidentali questi gruppi lavorano per movimenti “alternativi” ai partiti tradizionali.
Populisti e sovranisti si sono costruiti in rete un’enorme popolarità basata su una pianificazione del consenso dal basso, facendo largo ricorso a queste strategie. Per portare un esempio basta rileggere un nostro post sui tragici fatti di Macerata, quando un’ex candidato della Lega aprì il fuoco contro dei migranti. In quell’occasione si mobilitò una vastissima community online anti immigrazione, composta da oltre 4mln di utenti collegati a pagine non ufficiali, che attaccò in rete i partecipanti alla manifestazione antirazzista per alcuni cori sulle foibe istriane.
Questo imponente network riuscì nell’impresa di dividere gli utenti online e far diventare trending topic i temi della destra sovranista nonostante il sentire comune di sdegno verso un atto terroristico.
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