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Dialighi in corso – La secessione attraverso la scuola?

Piero Calamandrei. Fonte Internet

Piero Calamandrei. Fonte Internet

di  DOMENICO GALLO

C’è una cattiva notizia che non compare nei telegiornali perché la politica la tiene rigorosamente riservata, quando, al contrario, dovrebbe diventare oggetto di un dibattito vivacissimo prima che sia troppo tardi e vengano compiute scelte irreversibili.

Tutto è iniziato con i referendum leghisti svoltisi in Lombardia e nel Veneto nell’ottobre del 2017 con i quali le due Regioni hanno attivato l’iniziativa, ai sensi dell’art. 116 della Costituzione, per ottenere l’attribuzione di maggiore autonomia nelle materie (23) riservate alla legislazione concorrente. All’iniziativa si è aggiunta la Regione Emilia Romagna. Per essere più chiari la prospettiva è quella di giungere ad una regionalizzazione completa in settori fondamentali come l’istruzione, l’università e la ricerca, la sanità, le reti di trasporto e di comunicazione, la previdenza complementare ed integrativa, la tutela e la sicurezza del lavoro, il governo del territorio ed altro ancora. Dopo il referendum il Governo Gentiloni – in articulo mortis – a poche settimane dal voto del 4 marzo, stipulò un accordo preliminare con le tre regioni. Con l’avvento del nuovo governo, la prospettiva non si è arenata ma ha fatto un balzo in avanti. Il contratto di governo specifica l’obiettivo di portare a «rapida conclusione le trattative già aperte tra Governo e Regioni» per l’attribuzione di maggiori funzioni, con le «risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse».

Le trattative fra il Governo e le tre Regioni interessate sono portate avanti dalla ministra leghista Erika Stefani. Le trattative sono a buon punto, come ci ha informato Salvini (Repubblica, 30 agosto) che non vede l’ora di firmare l’accordo con le Regioni e tradurlo in legge. Per essere valido l’accordo deve essere approvato dal Parlamento con legge a maggioranza assoluta; una volta approvata la legge sarà difficilissimo tornare indietro, anche se cambiasse la compagine politica, perché occorrerebbe il consenso delle Regioni interessate.

Adesso stanno cominciando a venir fuori gli scenari che emergono dal fumo delle trattative riservate. Quello più inquietante riguarda la regionalizzazione della scuola pubblica. Ora se c’è un bene pubblico che non può essere frazionato e sottoposto a logiche localistiche questo è il bene pubblico dell’istruzione. Se c’è un’istituzione che non può essere divisa o spezzettata questa è la scuola pubblica. La scuola, anche se rende un servizio al pubblico, non è un servizio pubblico che può essere gestito in sede locale dalle comunità che ne usufruiscono, bensì una funzione pubblica, come la difesa, come la giustizia. Ciò ha fatto dire a Calamandrei che: “la scuola è un organo costituzionale, ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quegli organi che formano la Costituzione.”  La sua funzione è fondamentalmente quella di produrre la cittadinanza, di dare la parola a tutti perché tutti possano divenire sovrani, di rompere il muro delle diseguaglianze dando a ciascuno gli strumenti formativi e culturali, la lingua appunto, per consentirgli di partecipare, in condizioni di parità, all’organizzazione politica economica e sociale del paese, così come richiede l’art. 3, II comma della Costituzione. La scuola pertanto è una funzione pubblica, essa costituisce una istituzione, anzi la principale istituzione della cittadinanza e dell’eguaglianza. Poiché costruisce la cittadinanza, formando i cittadini, la scuola è anche la principale funzione pubblica che garantisce l’unità del paese. Se si vuole avviare una secessione delle Regioni del Nord, il primo passo è quello di spezzettare la scuola pubblica e introdurre livelli differenziati nell’istruzione per aree geografiche a cui seguirà una narrazione differenziata della nostra vita come comunità politica ed una declinazione differenziata dei diritti fondamentali, come insegnano le esperienze pilota delle scuole di Adro e di Lodi.

“Qui si fa l’Italia o si muore”, è il celebre aforisma attribuito a Garibaldi dallo scrittore Giuseppe Cesare Abba. Oggi, alla luce degli intendimenti leghisti si potrebbe declinare al contrario: qui o si disfa l’Italia o si muore.

Domenico Gallo

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