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Libri. Lo sviluppo. Una fake news?

Fonte MicroMega

Fonte MicroMega

di Pierfranco Pellizzetti

Nella raggiunta presa d’atto che non possiamo attenderci soccorso dall’economia e neppure dalla benevolenza dei signori del mondo, chi ci salverà?

La poesia o una nuova consapevolezza?

Il tempo stringe, ribadisce Hickel.

 

– Daron Acemoglu, James A. Robinson, Perché le nazioni falliscono, il Saggiatore Milano 2013

– Jason Hickel, The Divide – guida per risolvere la disuguaglianza globale, il Saggiatore, Milano 2018

 

Due libri, due verità

 

Il Saggiatore come esempio di ecumenismo editoriale, in oscillazione tra il panglossismo e il terzomondismo? Cinque anni fa la casa editrice milanese diffondeva il best-seller di due distinti politologi bostoniani secondo cui l’indigenza endemica di vaste aree del mondo va attribuita a cause interne; insomma, è sostanzialmente colpa loro («i paesi poveri sono tali perché chi detiene il potere fa scelte che producono povertà»[2]). Oggi viene pubblicato il saggio di un antropologo dall’aria non troppo accademica (però fellow della Royal Society of Arts), che arriva dallo Swaziland sostenendo esattamente il contrario: la frattura tra paesi ricchi e paesi poveri non dipende da cause endogene e neppure sarebbe inevitabile: è stata creata, «quando le potenze occidentali hanno avvinto il resto del mondo in un unico sistema economico internazionale».

Operazione che ha necessitato di reiterate narrazioni che edulcorassero la realtà e la creazione di quella che Hickel chiama “l’industria dello sviluppo”; ossia l’apparato preposto alla propaganda del mito fondante di un’inarrestabile processo volto a estirpare fame e povertà da ogni angolo del mondo. Grazie al ruolo svolto dai paesi sviluppati quali “fari di speranza” per l’intero pianeta e le sue disuguaglianze, le sue immense ingiustizie. Un’industria enorme, che vale centinaia di miliardi di dollari, quanto la somma dei profitti di tutte le banche degli Stati Uniti messi insieme; investiti non nella missione sbandierata (la lotta alla miseria), bensì nella spettacolarizzazione della generosità di privilegiati vogliosi di salvarsi l’anima a buon mercato e ad audience plaudente.

«Ancora oggi la storia dello sviluppo continua a esercitare una forza irresistibile nella nostra società. La si incontra ovunque si volga lo sguardo: nei negozi equi e solidali, negli spot televisivi di Save the Children, nei rapporti annuali pubblicati dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale e ogni volta che guardiamo le classifiche delle nazioni del mondo in base al PIL. La sentiamo ripetere da rockstar come Bono e Bob Geldof, da miliardari come Bill Gates e George Soros, da attrici come Madonna e Angelina Jolie, con i suoi abiti coloniali e uno stuolo di bambini africani accalcati smaniosamente»[3]. Sempre intendendo come condizione necessaria e sufficiente per uscire dalla penuria delle nazioni la crescita materiale; in base ai precetti del pensiero Neo-liberista, che è venuto accentuando il peso del proprio fondamentalismo predicatorio a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso.

Assolutamente sintonici con l’ideologia dominante, Acemoglu e Robinson ci propinano la sentenza perentoria in base alla quale «i paesi del mondo hanno una diversa capacità di sviluppo economico per via delle loro differenti istituzioni, delle regole che influenzano il funzionamento dell’economia e degli incentivi che motivano i singoli individui»[4]. Dunque, si tratterebbe di una questione squisitamente di politica interna. Cui gli autori fanno seguire la costruzione di un modellino, a onor del vero non particolarmente originale (si veda ad esempio lo straordinario affresco sulle centralità nel sistema-Mondo – in questo caso senza alcun intento giustificazionista – del braudeliano Immanuel Wallerstein nella sua trilogia Il sistema mondiale dell’economia moderna[5]), basato sulla diade antagonistica inclusione vs. estrazione. Sicché sono istituzioni economiche “inclusive” nella misura in cui incentivano l’iniziativa imprenditoriale, “estrattive” in quanto sottraggono risorse al resto della società; istituzioni politiche “estrattive” se accentrano il potere, “inclusive” quando redistribuiscono il potere orientando al cambiamento l’agire sociale. Sempre con il retropensiero shumpeteriano della “distruzione creatrice” (il processo selettivo con cui si rinnova costantemente il sistema capitalistico industrialista), ispirato al principio che «che la rivoluzione industriale creò una congiuntura critica, che trasformò il mondo intero nel XIX secolo e oltre: le società che permisero e incentivarono gli investimenti in nuove tecnologie crebbero rapidamente»[6]. Ennesima riproposizione della tesi molto consolatoria – almeno per chi vive nelle cosiddette “nazioni avanzate” – che l’egemonia occidentale deriva dal pesante fardello di un’eccellenza economica e tecnologica di cui fare dono benevolo al resto del mondo. Sotto forma di sviluppo.

Mentre aleggia il dubbio impertinente sulla questione del perché la ricchezza e il potere mondiali si siano distribuiti nel modo tuttora attuale: la risposta «implica la glorificazione dell’Europa e dell’America, nonché una tacita accettazione della supremazia occidentale. Non è possibile che il nostro primato sia effimero?»[7].

Un’invenzione occidentale?

Difatti già da tempo nel resto del mondo c’era chi si poneva la domanda blasfema: «e se lo sviluppo facesse parte della nostra religione moderna?»[8]. L’effetto dell’arroganza occidentale di considerare la società moderna come diversa dalle altre, in quanto secolarizzata e razionale.

Quanto già assai prima di Hickel altri ci avevano detto. Ad esempio Gilbert Rist, docente all’IUED di Ginevra, il quale nel 1996 osservava che, dal punto di vista concettuale, «lo sviluppo celebrato dalle dichiarazioni più solenni non esisterà mai, perché la crescita infinita che esso presuppone è impossibile»; perché la sua storia «è quella di una credenza condivisa dalla maggior parte dei potenti dell’epoca. […] Credenza che ha permesso in primo luogo di giustificare l’incredibile progresso della prosperità dei paesi del Nord»[9]. Gli entusiasmi missionari nella generalizzazione di un benessere materiale ricalcato su quello dei paesi “sviluppati”.

Quanto con maggiore enfasi aveva detto ben prima – nel 1961 – Franz Fanon, il medico e filosofo della Martinica teorico della liberazione anticoloniale algerina: «La ricchezza dei paesi imperialisti è anche la nostra ricchezza. L’Europa è letteralmente la creazione del Terzo mondo. Le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati»[10].

 

Senza dimenticare l’immortale battuta del Mahatma Gandhi: «cosa ne pensa della civiltà occidentale?», «se ci fosse non sarebbe una cattiva idea».

Semmai l’originalità di “Divide” consiste nella ricostruzione delle operazioni illusionistiche, vere fate morgane al servizio di obiettivi mimetici, con cui la cattiva coscienza dei Paesi “avanzati” si ammanta di caritatevole buonismo. Sotto forma di parametri truccati. A partire dal fatidico settembre del 2000, quando i capi di Stato di tutto il mondo, riuniti nella sede newyorkese dell’ONU, siglarono uno dei più importanti accordi internazionali dell’era moderna: la Dichiarazione del millennio, in base alla quale veniva presa la solenne decisione che la povertà e la fame mondiali sarebbero state dimezzate entro il 2015. Una mela avvelenata dalla definizione del parametro di soglia della povertà fissata e mantenuta nella disponibilità giornaliera di risorse al di sotto di 1,02$. Criterio che ha consentito per anni di annunciare che ci si stava rapidamente avvicinando all’obiettivo fissato a inizio millennio. A conferma –così facendo – dell’assunto retrostante che lo status quo capitalista risultava la migliore terapia per i mali del pianeta. E – per inciso – la crescita poteva mandare nel dimenticatoio le spinose questioni chiamate disuguaglianza e contestuali istanze per politiche equamente distributive.

Purtroppo la promessa reaganiana dell’effetto “sgocciolamento in basso” (trickle down) di una cornucopia capitalistica svincolata da qualsivoglia impedimento regolativo, dunque a vantaggio anche dei meno abbienti, si è rivelata un diabolico meccanismo di trickle up; le faraoniche concentrazioni di ricchezza ai vertici della piramide sociale internazionale. Difatti, aggiornando i parametri con cui si classificano i dannati della terra, portandoli a un ragionevole 4,5$ quotidiani – come indica la New Economics Foundation di Londra, citata dal nostro Hickel – «scopriremmo che in totale nel mondo ci sono 4,3 miliardi di poveri; più del quadruplo di quello che la Banca mondiale e la Compagnia del millennio vorrebbero farci credere, e più del 60% della popolazione mondiale»[11]. Una situazione in peggioramento. Mentre dilagano deforestazioni, fughe di capitali in paradisi fiscali in crescita esponenziale, disuguaglianze macroscopiche perfino nelle società auto-proclamatesi “avanzate”. Mentre incombe sempre più ravvicinata la catastrofe ambientale. Tanto da far dire con sufficiente credibilità che «il sistema economico che abbiamo posto in essere negli ultimi decenni potrebbe averci resi incapaci di rispondere ala sfida più impegnativa del XXI secolo»[12].

Ma qui scatta subito il gioco alla scarica-barile mimetico, suffragato dalla teoria economica ortodossa (?) secondo la quale le disuguaglianze internazionali sarebbero sempre esistite (per quelle nazionali ci pensa la dottrina puritano-paleocapitalistica di matrice anglosassone e intimamente razzista, secondo cui è il povero a doversi vergognare della sua condizione). In entrambi i casi, tesi fatte a pezzi da una minima analisi storica: le disuguaglianze sono state deliberatamente create. Per quanto riguarda il sistema-Mondo, basta pensare cosa è stata l’ascesa dell’Occidente agli albori dell’età moderna. Secondo l’ormai classica ricerca del bio-geografo Jared Diamond, la vera ragione dell’egemonia del presunto “affardellato” uomo bianco è riconducibile alla sacra trimurti “armi, acciaio e malattie”; cioè l’apparato bellico di conquista e il silenzioso supporto epidemico di malattie contro cui i popoli conquistati non avevano sviluppato anticorpi immunitari.

«La colonizzazione europea non fu dovuta alle differenze tra occidentali e africani, come i razzisti vogliono farci credere. Furono gli accidenti della geografia e della biogeografia a determinare l’esito finale»[13].

Tornare a Bandung?

 

Davanti alla catastrofe umanitaria e non solo, prossima futura, l’auspicio di Hickel sarebbe quello di una radicale inversione di tendenza ad opera del mondo svantaggiato. L’utopia che prese corpo nell’aprile 1955 a Bandung nella conferenza convocata su iniziativa di India, Pakistan, Ceylon, Repubblica Popolare Cinese e Indonesia, a cui parteciparono 29 Paesi in rappresentanza del “Sud del mondo”. Lo scopo era quello di creare coesione per divincolarsi dalla morsa della Guerra Fredda e i suoi modelli egemonici: il capitalismo occidentale e il socialismo sovietico. Si definirono “i non allineati”. Operazione al tempo molto mediatizzata ma di brevissimo respiro. Visto che la divisione del mondo tra poveri e ricchi è molto più rispondente alla realtà di quella tra buoni e cattivi. Non a caso, in buona parte dei paesi usciti proprio in quegli anni dall’obbrobrio della colonizzazione occidentale arrivarono al potere quanto l’intellettuale jugoslavo eretico Milovan Gilas definiva “la nuova classe”: la casta degli espropriatori di democrazia e di risorse materiali a danno dei propri stessi popoli. Indubbiamente su questo personale rapidamente corrotto gravava il lascito dei regimi coloniali abbattuti (cui succedevano forme decolonizzate largamente vassalle nei confronti degli interessi imperialistici, tutelati da quisling mimetizzati). Ma anche laddove gli occidentali erano stati definitivamente espulsi con le armi, la dinamica oligarchica si rivelò ineluttabile. E mentre Fanon scriveva parole appassionate sul principio che «possiamo fare tutto oggi, a condizione di non imitare l’Europa. […] L’umanità aspetta altro da noi che quest’imitazione caricaturale e nell’insieme oscena», come monito per gli ancien moujahidin algerini (i resistenti nella guerra di liberazione), l’autore di queste note vedeva con i propri occhi concretizzarsi a Orano, Algeri e Costantina la caricatura oscena dei dominatori francesi in forma di nuova classe: la saldatura rapace tra militari politicizzati e alti funzionari dei groupements d’achat ministeriali, con conto in Svizzera, nanà occidentale (la mantenuta possibilmente bionda) e possesso tramite prestanome di appartamenti e alberghi; prevalentemente nella Parigi dei già odiati coloniali.

Il fatto è che l’umanità è una specie animale ottusa, cieca e irresponsabile, nevrotizzata dalla contraddizione tra una mente incapace di pensare il proprio “mai più” ospitata in un corpo “a scadenza”, come le uova o lo yogurt. Cultrice di un individualismo incontenibile quanto feroce. Avido.

I processi di civilizzazione, l’insegnamento di uomini fuori dalla norma come Erasmo, Immanuel Kant o Bertrand Russell, avevano in qualche misura addolcito le pratiche di dominio in base alle quali l’Occidente reggeva il mondo; ma non al punto di rimuovere la sua naturale tendenza all’accaparramento prevaricatore. L’apertura del vaso di pandora dei vizi capitalistici ad opera dei fondamentalisti liberisti, nell’ultimo quarto del secolo scorso, ha notevolmente accelerato la corsa distruttiva/autodistruttiva della nostra specie. Di cui il deserto che avanza è icona non meno del bimbo dagli immensi occhi spalancati in un corpicino ischeletrito dalla denutrizione. Sintetizzata dall’efficace battuta di Naomi Klein «il nostro sistema economico e il nostro sistema planetario sono oggi in conflitto». Per cui – sempre per la giornalista canadese, profetessa del No-Logo – solo una rivoluzione ci dovrebbe salvare. Ma non arriverà certo dalle bubbole consolatorie del duo Acemoglu&Robinson e neppure dall’illusione dell’arrivano i nostri.

Nel frattempo il pianeta muore, tanto da indurre il pensiero che il virus assassino siamo proprio noi. Tanto da far scrivere al poeta Giorgio Caproni “versicoli quasi ecologici”: «Non uccidete il mare,/ la libellula, il vento./ Non soffocate il lamento/ (il canto!) del lamantino/ il galagone, il pino:/ anche di questo è fatto/ l’uomo. E chi per profitto vile/ fulmina un pesce, un fiume/ non fatelo cavaliere/ del lavoro. L’amore/ finisce dove finisce l’erba/ e l’acqua muore. Dove/ sparendo la foresta/ e l’aria verde, chi resta/ sospira nel sempre più vasto/ paese guasto: come/ potrebbe tornare a essere bella/ scomparso l’uomo, la terra».

Nella raggiunta presa d’atto che non possiamo attenderci soccorso dall’economia e neppure dalla benevolenza dei signori del mondo, chi ci salverà?

La poesia o una nuova consapevolezza?

Il tempo stringe, ribadisce Hickel.

 

NOTE

 

[1] G. Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano 1996 pag. 263

 

[2] D. Acemoglu e J. Robinson, cit. pag. 79

 

[3] J. Hickel, cit. pag. 18

 

[4] D. Acemoglu e J. A. Robinson, cit. pag. 85

 

[5] I. Wasllerstein, Il Mulino Bologna Vol. I 1974, Vol. II 1982. Vol. III 1995

 

[6] Ivi pag. 257

 

[7] J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino pag. 7

 

[8] G. Rist, Lo sviluppo – storia di una credenza occidentale . Bollati Boringhieri, Torino 2014 1997 pag. 29

 

[9] Ivi pag.

 

[10] F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007 pag. 56

 

[11] J. Hickel, cit. pag. 58

 

[12] Ivi pag. 241

 

[13] J. Diamond, Armi, acciaio, cit. pag. 311

 

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