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Referendum a vuoto

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di Cinzia Sciuto Micromega

Dovevano essere cinque quesiti al traino di un sesto. Il pacchetto referendario promosso da una coalizione di forze progressiste, sindacati e associazioni, puntava infatti tutto sull’autonomia differenziata. Era quella la battaglia vera, quella capace di mobilitare consensi ben oltre i confini dei promotori, quella in grado – almeno sulla carta – di scaldare il cuore di un’opinione pubblica trasversale. Il resto, i quattro quesiti sul lavoro e quello sulla cittadinanza, si sperava potesse agganciarsi all’onda. Ma l’onda non c’è stata. Il referendum sull’autonomia differenziata è saltato perché la norma è stata di fatto svuotata dalla Corte costituzionale, rendendo il referendum superfluo. E lasciando però i promotori degli altri cinque con il cerino in mano.
Il risultato? Una campagna referendaria breve e difficile che ha condotto a un risultato piuttosto scontato: un’affluenza intorno al 30%, lontana dunque dal quorum. Peggio del risultato, però, ci sono i commenti al risultato con la solita, stucchevole, lotta per intestarselo. A sinistra c’è chi si aggrappa ai 14 milioni di votanti come fossero un patrimonio politico proprio, come se davvero quei voti si possano traslare automaticamente su una futura tornata politica senza tenere conto che invece, fra quei 14 milioni di persone che sono andati al voto domenica e lunedì, è altamente possibile che ce ne siano molte che alle politiche si asterranno. E c’è chi, a destra, si intesta con altrettanta spavalderia il 70% di astenuti, scambiandolo per un plebiscito silenzioso. Ma non funziona così. Un referendum non è un sondaggio. E meno che mai un voto a somma zero dove i non votanti valgono tutti come contrari. La verità è che questo voto ha certificato, ancora una volta, la crisi dello strumento stesso.
I referendum hanno senso infatti quando riescono a coinvolgere una larghissima parte dell’elettorato. In un contesto in cui la partecipazione politica è in calo costante – 64% alle ultime politiche, sotto il 50% alle europee – presentarsi con quesiti che – pur importantissimi – rischiano di parlare solo a una nicchia, per quanto motivata, è un suicidio annunciato.
Suicidio ancora più annunciato per il quesito sulla cittadinanza. Se quelli sul lavoro hanno raccolto, tra coloro che sono andati a votare, quasi il 90% di sì, quello sulla cittadinanza si è fermato poco sopra il 6a%. Un risultato che mostra quanto il tema sia delicato e complesso anche a sinistra. E che rischia di bloccare per molto tempo ogni ipotesi di riforma, anche da parte di un eventuale futuro governo progressista.

Su questo tema si è fatta una propaganda tanto martellante quanto fuorviante: quel referendum non riguardava i flussi migratori, né le politiche di accoglienza. Interveniva su un punto tecnico – ridurre da 10 a 5 anni il tempo minimo di residenza per chiedere la cittadinanza – perfettamente compatibile anche, in teoria, con misure molto restrittive sull’immigrazione (è esattamente quello che hanno fatto in Germania: ridurre i termini per poter presentare la domanda di cittadinanza – per dunque integrare prima e meglio chi è già qui – mentre si stringono i termini per l’accesso al paese). Eppure si è riusciti a trasformarlo nell’ennesimo referendum su una presunta (quanto inesistente) “invasione”.
Infine, la questione dello strumento. È legittimo, dopo l’ennesimo flop, interrogarsi sul referendum in quanto tale. Sul suo ruolo, sulla sua efficacia, persino sulla sua tenuta democratica. C’è chi propone di abbassare il quorum. Ma attenzione: il referendum è un meccanismo delicato che si inserisce in un impianto istituzionale di democrazia rappresentativa. Consentire a una minoranza – per quanto consistente – di abrogare norme approvate da un parlamento eletto, e dunque democraticamente legittimato, è un’operazione ad altissimo rischio. Se si vuole ragionare su una riforma dello strumento, si può certo discutere dell’abbassamento del quorum, ma solo accompagnandolo a un contestuale aumento del numero di firme necessarie per presentare un quesito. Tanto più oggi che, con la firma digitale, raccoglierle è diventato molto più semplice.
Insomma, se questo referendum ci ha detto qualcosa, è che il problema non è solo l’astensionismo. È anche la leggerezza – politica, culturale, strategica – con cui si continua a maneggiare uno degli strumenti più delicati della democrazia.

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