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Il racconto russo delle vicende del continente dimostra la contraddittorietà di un Paese che dice di agire in nome di una visione del mondo contro un Occidente privo di riferimenti ideali
L’imboscata di Donald Trump al presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha riportato al centro del dibattito (il peggiore, quello online) le tensioni razziali tra la popolazione nera e la minoranza bianca dei boeri. Una questione particolarmente spinosa che sicuramente non può essere riassunta con la formula del presunto genocidio bianco, storico cavallo di battaglia dell’ultradestra che popola siti come 4chan e affini, adesso adottata anche dalla Casa Bianca (che come i migliori troll di Internet sbandiera immagini decontestualizzate, nel caso specifico quelle raccolte in Congo dall’agenzia Reuters lo scorso febbraio, per argomentare la propria tesi).
L’iniziativa trumpiana ha dato il via all’ennesima campagna social, dove una miriade di account hanno iniziato a stracciarsi le vesti per i diritti dei sudafricani bianchi, lanciando allarmi sull’incombente guerra razziale non dissimili dai deliri di Charles Manson. Tra questi ce n’è uno degno di interesse. Sasha Meets Russia è il nome della pagina di un’influencer americana trasferitasi in Russia per «sfuggire al woke» e «raccontare la Russia agli statunitensi al di là delle bugie della propaganda occidentale»; se queste parole possono risultare familiari, è perché si tratta dello stesso identico format di altri travel vlogger al servizio del Cremlino di cui abbiamo scritto.
Poco dopo l’incontro tra Ramaphosa e Trump, l’influencer Sasha pubblica sul fu Twitter: «Cari contadini sudafricani, perché non vi trasferite in Russia? Qui è pieno di terreni! (e nessuno vi ucciderà per prenderveli)». Al di là delle naturali obiezioni che si possono fare a una dichiarazione del genere, questo esempio (molto grezzo) di propaganda filorussa si riallaccia al filone più contorto e incoerente della stessa: il rapporto tra Russia e Africa. Il racconto russo delle vicende africane è un esempio perfetto per evidenziare la contraddittorietà e l’inconsistenza di un Paese che pretende di essere una potenza ideologica in assenza di una vera ideologia. Una Russia che, stando alle parole del suo capoclan e dei suoi volenterosi fiancheggiatori, agirebbe in nome di una visione del mondo contro un Occidente privo di riferimenti ideali.
Quando Putin parla sembra essere più interessato a rivolgersi agli occidentali che ai russi stessi, ed è per questo che il suo registro cambia a seconda della platea di riferimento: per i putiniani di destra, Putin è l’uomo forte che con la sua visione imperiale intende restaurare la tradizione contro l’Europa globalista; per quelli di sinistra è l’erede dell’Unione Sovietica che con le sue azioni – invasione dell’Ucraina in primis – conduce una lotta antifascista contro il capitalismo euroamericano.
Se già questi due filoni, molto popolari tra le distinte tifoserie filorusse italiane, appaiono ambigui, è con l’Africa che l’approccio russo smette di essere semplicemente incoerente e scade nella schizofrenia. Torniamo al Sudafrica. Il post di Sasha Meets Russia si riallaccia al filone che dipinge Putin come salvatore della razza bianca, uomo forte di destra il cui compito sarebbe quello di tutelare (su scala globale) gli europei minacciati dalle popolazioni ostili; l’esempio degli afrikaner – un tempo appannaggio esclusivo del neonazismo europeo – compare su tantissimi profili, giornali e podcast legati, sotto forme diverse, alla galassia filorussa.
Eppure, proprio in Sudafrica, Putin adotta tutt’altro registro. Poco tempo fa, Julius Malema, capo dell’Economic Freedom Fighters (partito che fonde marxismo e suprematismo nero) urlava alla folla di suoi sostenitori: «Noi siamo Putin e Putin è noi, e noi non supporteremo mai l’imperialismo contro Putin». Malema – passato alle cronache per aver intonato, anni fa, la canzone “Spara al boero”, episodio che gli è costato una condanna per incitamento all’odio – è solo uno dei tanti capipopolo di sinistra che ha aperto la strada alla propaganda (e ai soldati) di Putin nel continente, nello specifico quella che lo vuole benefattore della lotta anticolonialista africana.
C’è infatti un altro filone molto popolare della propaganda russa: quello che strizza l’occhio alle frange terzomondiste e anti-imperialiste della sinistra, secondo le quali la Russia sarebbe impegnata attivamente nella lotta di indipendenza africana. Ne è un esempio il caso del Burkina Faso, emblematico dell’imperialismo russo nel continente africano.
Negli ultimi mesi, militanti di sinistra e analisti geopolitici più o meno consapevoli della propria malafede, hanno iniziato una campagna a favore di Ibrahim Traoré, dittatore burkinabè elevato a figura rivoluzionaria e anti-imperialista. Nelle scorse settimane, infatti, membri della comunità burkinabè e attivisti della sinistra extraparlamentare si sono riuniti in alcune città italiane per manifestare a favore del “nuovo Sankara”.
Ibrahim Traoré sale al potere dopo il colpo di stato del 30 settembre 2022 ed è nel periodo immediatamente successivo al suo insediamento che il presunto eroe anti-imperialista inizia a svendere la sua nazione alla Federazione russa: in Burkina Faso arrivano, già alla fine del 2022, truppe e consulenti militari russi, che danno alla giunta viveri e armi in cambio di una presenza fissa nel territorio. Su spinta dell’apparato militare russo nascono diverse realtà culturali: Russian House (Rossotrudnichestvo), emanazione del ministero degli Esteri russo speculare a Casa Russa (della quale abbiamo già scritto), il programma radiofonico Russian Time che diffonde notizie sia in francese che in russo, e African Initiative, autodefinitasi «un’associazione di burkinabè e russi il cui obiettivo è rafforzare l’amicizia, la conoscenza reciproca, la pace e l’armonia tra la popolazione del Burkina Faso e della Russia».
Queste sigle sono solo una porzione delle realtà che propagandano l’immagine di Traoré all’estero – un dittatore che, nella realtà, non governa buona parte del suo Paese – e quella di una Russia amica delle popolazioni locali, schiacciate dall’imperialismo europeo e statunitense. Quest’ultimo è un retaggio ereditato da Evgenij Prigozhin, l’allora capo del gruppo Wagner, il quale ha condotto una missione di infiltrazione in Africa dove i proclami dei suoi fedelissimi (Kémi Séba, opinionista panafricano legato a Wagner, reso celebre in Italia da Alessandro Di Battista con la storia del Franco Cfa) coprivano le operazioni militari dei suoi mercenari e l’appropriazione criminale delle risorse locali. Nonostante questo, i fiancheggiatori europei del regime di Mosca continuano a parlare (alle volte credendoci sinceramente) del presunto anti-imperialismo russo affiancandosi ai loro soci che inneggiano a Putin come alfiere della lotta al marxismo. Nessuna delle due visioni è vera ed è forse guardando all’Africa che l’opinione pubblica può rendersene conto, realizzando che la propaganda dei russi in occidente non è semplicemente ipocrita, è totalmente sconclusionata.
Linkiesta, Esteri, 27 maggio 2025
di Antonio Pellegrino
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