
Corriere.it
di Alessandro Trocino (Corriere.it)
Perché si parla dell’Insurrection act, negli Stati Uniti: la psicosi sul 20 aprile (e la progressiva pericolosità delle proteste)
Da giorni si sono diffusi timori sulla possibilità che il 20 aprile l’amministrazione Trump voglia ricorrere all’Insurrection Act per reprimere il dissenso interno: ecco di che cosa si tratta
Perché si parla dell’Insurrection act, negli Stati Uniti: la psicosi sul 20 aprile (e la progressiva pericolosità delle proteste)
Un chiaro segnale del declino delle democrazie è la paura. Intesa come il clima di timore che viene alimentato verso l’esterno nella popolazione, con i governanti che si trasformano in imprenditori della paura, ponendosi come tutori dell’ordine e della sicurezza. Ma anche come quella sensazione di insicurezza che provano i cittadini nei confronti del loro stesso Stato, delle forze dell’ordine e della magistratura. La paura di essere arrestati ingiustamente, arbitrariamente, senza habeas corpus, senza garanzie.
Sfortunatamente, entrambi i segnali sembrano contagiare gli Stati Uniti d’America. Donald Trump ha diviso il mondo in due. Tra i nemici non ci sono solo gli immigrati, ma anche cittadini americani, avversari politici o persone sospette di non adeguarsi al nuovo corso. Da tempo non succedeva che la gente avesse così paura di manifestare le sue idee. La democrazia americana è forte ma le ultime mosse di Donald Trump stanno erodendo lo stato di diritto, la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura.
E ora si aggiunge questo dato impressionante: chi manifesta, in questi giorni, lascia a casa i telefonini e ogni strumento che possa consentire un’identificazione. Molti si presentano indossando una mascherina chirurgica, non per paura di contagi, ma per non farsi riconoscere. Molti altri rinunciano a scendere in piazza.
Gal Beckerman, su The Atlantic, ragiona sulle proteste di questi giorni e sulle differenze rispetto a quello che è successo nel primo mandato di Trump. Allora ci furono dimostrazioni oceaniche. La marcia delle donne che salutò il suo insediamento porto in strada 4,6 milioni di persone. La «marcia per le nostre vite», dopo la sparatoria di Parkland del 2018 ne portò 1,2 milioni. Le dimostrazioni del Black Lives Matter, dopo l’omicidio di George Floyd, mobilitarono da 15 a 26 milioni di persone. Ora, le persone in strada sono molto meno, nonostante un aumento negli ultimi giorni.
Perché? Davvero la società civile è sparita e non vuole opporre resistenza a Trump? Il Crowd Counting Consortium di Harvard, che tiene conto di ogni atto di dissenso, sostiene di no. Dai loro calcoli, a febbraio 2025 si sono svolte il doppio delle proteste rispetto a febbraio 2017, durante l’inizio del primo mandato di Trump: 2.085 contro 937. La percezione pubblica è diversa, perché spesso sono piccole proteste. E qui Beckerman si pone una domanda: «Una singola protesta di 100.000 persone equivale a 1.000 azioni con 100 persone a ciascuna?». Erica Chenoweth, docente di Harvard e co-direttrice del Consortium, non ha una risposta. Ma la prima cosa che nota è che se una protesta è numericamente limitata, sarà composta soprattutto da attivisti. La gente comune si muove soltanto quando sente l’impatto emotivo di una dimostrazione di massa. Stare insieme mobilita e rafforza la voglia di esserci. Il sociologo francese Émile Durkheim la chiamava «effervescenza collettiva». Altro elemento a svantaggio, tante piccole proteste non fanno notizia come una grande.
Ma perché ce ne sono di meno e comunque più sparse sul territorio? Una prima motivazione è che lo choc del primo mandato è stato riassorbito. Allora Trump aveva contro molta parte dell’establishment. Persino tra i repubblicani non c’era unanimità. La vittoria nel voto popolare lo ha reso più forte. E ha demoralizzato gli oppositori. Poi nell’opposizione mancano i leader. Gli unici che sono riusciti a mobilitare un po’ di folla sono stati Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez nel loro tour «Fighting Oligarchy».
Ma è solo questo? Per Beckerman c’è un altro motivo fondamentale: protestare è diventato pericoloso. Trump ha annunciato che non si farebbe scrupoli a usare l’esercito per affrontare «il nemico interno». E le tattiche di controllo sono diventate pervasive, ossessive: il riconoscimento facciale, il tracciamento con la geolocalizzazione, l’identificazione attraverso l’intelligenza artificiale. Sembra un ritorno drammatico agli anni ’50 e ’60, quando l’Fbi avviò il programma CointelPro contro il Partito comunista e poi il Black Panther Party. Le operazioni finirono nel ’71, con l’accusa di avere violato il primo emendamento.
Oggi le tecniche sono diventate più brutali e più sofisticate a un tempo. Abbiamo visto portare via Mahmoud Khalil, lo studente algerino della Columbia University che guidò le proteste filo palestinesi. Nonostante avesse la Green card e nonostante non ci siano accuse formalizzate nei suoi confronti, Khalil è stato arrestato. E con lui molti altri. Per questo si sta creando un clima di paura nei manifestanti. Un organizzatore ha diffuso alcune regole di sicurezza, con lo slogan «Non dare per scontato di essere al sicuro»: «Indossa la mascherina, disattiva la posizione, la biometria e i dati sul tuo telefono. Fai scrivere i tuoi contatti di emergenza sul tuo corpo». Sembra un’esagerazione ma è la realtà. E naturalmente anche solo avere a che fare con queste precauzioni spaventa un cittadino normale, che magari ha un contratto statale o è esposto pubblicamente.
L’amministrazione si sta muovendo anche con le leggi. Da gennaio sono state presentate 41 proposte di legge anti-protesta in 21 stati e al Congresso. Tra queste una contro chi ostacola il traffico (ricorda qualcosa?) e una che propone il divieto di indossare la mascherina. Ogni protesta è considerata dai trumpiani come una rivolta violenta.
E non è finita qui. Perché, secondo alcuni organi di stampa, Trump starebbe valutando di giocare nuovamente la carta dei poteri speciali, avvalendosi dell’Insurrection Act del 1807, che sarebbe pronto a invocare preventivamente già dal 20 aprile, data in cui i ministri della sicurezza e della difesa presenteranno un rapporto sulla «messa in sicurezza» delle frontiere. Facile pensare che la «necessità» di difendersi dall’esterno possa servire come pretesto per usare il pugno duro contro il dissenso interno. Sui social corre un tam tam che il 20 aprile Trump non si limiterà a quello, ma dichiarerà la legge marziale. L’hashtag #martiallaw è stato utilizzato in 21.500 post su TikTok. Newsweek scrive che non ci sono evidenze che non si tratti solo di una diceria da social.
Ma basterebbe l’Insurrection act, almeno a leggere quel che scrive l’Independent: «Quando invocato, l’Insurrection Act conferisce al presidente l’autorità di schierare l’esercito statunitense o la Guardia Nazionale all’interno del Paese per reprimere eventi quali ribellioni, insurrezioni e disordini civili o per far rispettare la legge». L’ultima volta fu usato nel 1992, da George H.W. Bush, dopo le rivolte per l’uccisione di Rodney King a Los Angeles.
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