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L’eredità di Giuseppe Di Vittorio: Unità del Sindacato, cultura e formazione dei lavoratori

Giorgio Benvenuto

Giorgio Benvenuto

di Raimondo Giustozzi

 

Venerdì 27 ottobre 2023, alle ore 21,00, presso l’aula consiliare di Civitanova Marche, si è tenuto il convegno proposto dalla lista “Futuro in Comune”sulla centralità di Giuseppe Di Vittorio nel lavoro, nel sindacato e nella democrazia. La serata si è aperta con la proiezione di un video, curato dalla Camera dei Deputati, dove viene delineata brevemente la biografia del grande sindacalista, che ha speso la propria vita perché all’operaio venissero riconosciuti dignità, giusto salario e diritti sindacali. Giuseppe Di Vittorio non proveniva dal mondo operaio ma da quello contadino – bracciante, di cui aveva conosciuto fin da piccolo la precarietà e la povertà.

Il dott. Tommaso Claudio Corvatta, capogruppo del Gruppo Consiliare “Futuro in Comune”, ha ringraziato per la loro presenza l’onorevole Giorgio Benvenuto, già segretario dell’U.I.L. e grande estimatore di Giuseppe Di Vittorio, Aldo Caporaletti, promotore dell’incontro, Daniele Principi, segretario provinciale della C. G. I. L. La presenza di un pubblico numeroso è stata la testimonianza che le figure del passato non muoiono mai fino a quando vivono nel ricordo di molti. Altri possono ascoltare le sirene di quanti fotografano solo la triste realtà del presente ma senza impegnarsi in nulla. E’ troppo facile scrivere sul mondo sotto sopra o al contrario. La politica è l’arte del saper fare, non l’annuncio di una profezia quale essa sia.

Giuseppe Di Vittorio, ha detto il dott. Tommaso Claudio Corvatta, ci lascia in eredità alcuni punti fermi. Era capace di usare un linguaggio semplice per elaborare concetti anche difficili ma compresi dai lavoratori. Credeva che i padroni avevano la meglio sui contadini e sugli operai perché li tenevano nell’ignoranza. Additava allora agli operai e ai contadini di studiare, come aveva fatto lui da autodidatta. Anche oggi, pur in un contesto storico diverso, c’è tanta incapacità di discernere la verità dall’errore. Le Fake News, propagate ad arte da chi ha interesse a farlo, invadono la vita di ognuno. Ci insegna che bisogna avere sempre la schiena diritta e condannare il sopruso, come aveva fatto contro l’invasione dell’Ungheria. Altra grande eredità che Giuseppe Di Vittorio ci lascia: il sindacato deve essere libero, autonomo e indipendente.

Aldo Caporaletti, promotore dell’incontro, ha relazionato sul tema: la presenza del sindacalista Giuseppe Di Vittorio nelle Marche. Le visite di Giuseppe Di Vittorio nelle Marche (cinque, tra il 1945 e il 1954) hanno lasciato una traccia profonda nella storia della Cgil e del sindacato della nostra regione. La prima visita di Giuseppe Di Vittorio nelle Marche è ad Ancona, nel novembre 1945, durante la crisi del governo di Ferruccio Parri, cui succederà il primo governo De Gasperi. Entra in crisi l’unità antifascista e del CLN, ma c’è pieno impegno della Cgil unitaria per la Costituente e la Repubblica. La presenza ad Ancona, di domenica mattina, è dovuta ad una manifestazione dei mezzadri, mentre è in corso un’importante vertenza nazionale. Ne dà conto il giornale “Bandiera Rossa”. Di Vittorio appoggia la richiesta di una diversa percentuale di quote tra proprietari e mezzadri, ma afferma che l’aumento della produzione agraria e l’abbassamento dei prezzi è interesse generale.

La seconda visita è a Civitanova Marche, nel settembre 1951, per la Festa del tesseramento della Cgil. Civitanova è la principale sede operaia della provincia di Macerata: c’è la Cecchetti, l’industria metal meccanica che chiuderà i cancelli dopo oltre un secolo d’attività (1892-1994). La Prefettura nega il permesso alle corriere di portare i lavoratori della provincia a Civitanova, ma la manifestazione ha successo. Di Vittorio parla nel pomeriggio, sotto un temporale, richiama l’unità dei lavoratori ed evidenzia la linea della Cgil, incentrata sul Piano del lavoro.

La terza visita nelle Marche è a Cabernardi, sull’Appennino anconetano, nel luglio 1952. E’ al culmine la lotta dei lavoratori – in corso da quaranta giorni – della miniera di zolfo. Prima del comizio, un lungo corteo, con tante bandiere rosse, percorre la via principale della cittadina. Di Vittorio parla nel pomeriggio, chiede di evitare la smobilitazione della miniera, che però sarà compiuta. Resta il forte significato della lotta dei “sepolti vivi”. La grande manifestazione è stata celebrata a Cabernardi (sede di un Museo), nel luglio 2006, dal segretario della Cgil, Epifani.

La quarta visita è ad Ascoli Piceno, nell’agosto dello stesso anno, quando Di Vittorio partecipa al Congresso provinciale della Federmezzadri. La Camera del lavoro di Ascoli aveva promosso un concorso per festeggiare i sessant’anni anni del segretario generale della Cgil. Per il suo compleanno Di Vittorio – che tiene un grande comizio in Piazza del Popolo – riceve il regalo più gradito: l’aumento del numero dei tesserati. Il segretario generale premia con un’automobile la Camera del lavoro, per le oltre 3000 famiglie di mezzadri iscritte alla Cgil.

La quinta e ultima visita è di nuovo ad Ancona, nel luglio 1954, per il decimo anniversario della Filp, il sindacato dei marittimi. Si svolge ad Ancona il Convegno nazionale dei lavoratori dei porti, del mare, della pesca. Di Vittorio, a chiusura dei lavori, tiene un discorso in Piazza Cavour. Secondo il segretario generale, il convegno deve promuovere un’azione della Cgil per lo sviluppo dei traffici e della produzione ittica, nell’interesse dei lavoratori e dell’economia nazionale, senza blocchi controproducenti, peraltro esclusi da grandi paesi come Gran Bretagna e Francia (Aldo Caporaletti).

L’onorevole Giorgio Benvenuto, già segretario della U. I. L. (1976 – 1992), ha appassionato i presenti, raccontando il suo primo incontro con Giuseppe Di Vittorio: “Il primo ricordo risale alla metà degli anni ’40, immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ero molto piccolo. La guerra aveva costretto la mia famiglia ad una grande peregrinazione per l’Italia. Mio padre, Giuseppe, era un ufficiale di Marina. All’inizio della guerra (sono nato nel 1937 a Gaeta) eravamo a Pola. Nell’estate del 1943 eravamo venuti nel mese di agosto a Pescara, per essere vicini ai nonni che abitavano a Chieti.

L’armistizio dell’Italia con gli alleati, l’8 settembre 1943, sorprese mio padre, reduce da una improvvisa e grave polmonite, a Chieti. Si nascose. Entrò in contatto con altri ufficiali e militari. Per un mese rimase in clandestinità. Riuscì a passare il fronte. Era la linea Gustav che da Cassino e Vasto divideva l’Italia in due. Mio padre raggiunse avventurosamente Bari e si mise a disposizione delle autorità alleate. Dopo pochi mesi venne trasferito a Messina per contribuire alla riorganizzazione della Forze Armate Italiane. Noi rimanemmo a Chieti nel territorio controllato dai fascisti e dai tedeschi. Sapevamo che mio padre era vivo ma non riuscivamo a comunicare con lui. Vivemmo nove mesi pieni di angoscia e di paura, fino alla Liberazione di Chieti, nel giugno del 1944. Ho un ricordo incancellabile della ritirata delle truppe tedesche e dell’ingresso a Chieti degli alleati con alla testa i bersaglieri.

Fummo così in grado di riprendere i contatti con mio padre a Messina. Non c’era nell’immediato la possibilità di raggiungerlo. Non esisteva ancora un sistema di trasporti sicuro ed affidabile. L’Italia era un cumulo di rovine. Terminata la guerra nell’aprile del 1945 mia madre cercò in tutti i modi di realizzare il ricongiungimento. Fu una grande, tormentata, faticosa odissea. Finalmente partimmo. Viaggiammo su un treno merci che trasportava sale. Era diretto in Puglia. Facemmo poca strada. Dovemmo fare tappa a Serracapriola, in provincia di Foggia ove una mia zia, Gertrude, aveva delle proprietà terriere. Rimanemmo lì per alcuni mesi. Sostenni l’esame per essere ammesso alla quarta elementare, per regolarizzare la mia frequenza scolastica. Non avevo, infatti, potuto studiare con regolarità a causa degli eventi bellici. Ricordo che mia zia era molto conosciuta e rispettata in quel paese. Era la vedova di Antonio Gatta, il medico condotto del paese, molto amato dai suoi concittadini prevalentemente occupati nell’agricoltura. Quando feci l’esame di ammissione diretta alla quarta elementare ero preparato. Avevo studiato molto. L’esame fu però singolare. Mi venne fatta una sola domanda: “Sei il nipote del dottor Gatta?” Lo ammisi. Il maestro disse: “Complimenti, sei promosso”. È una vicenda che non dimenticherò mai. È stata per me una lezione di vita.

Mia zia, pur essendo una proprietaria terriera, era politicamente vicina al Pci e al Psi. Aveva uno splendido rapporto con i suoi contadini e in tutti i modi cercava di aiutare le loro famiglie. Un giorno volle portarmi ad una riunione per sentire, come diceva lei, un grande uomo. Partimmo con il calesse. Arrivammo in un paese vicino a Serracapriola, credo San Severo. Nella piazza centrale c’erano tanti contadini, tanti “cafoni” con i loro mantelli neri. Sdruciti. Consunti. Si distinguevano tra la folla alcuni cartelli con scritto in modo elementare “pane, lavoro, pace”. Alcuni contadini erano scalzi. I visi erano sofferenti, dolenti, invecchiati. Guardavo le loro schiene con le spalle massicce deformate dalla fatica, i colli nodosi, le mani incallite: capivo che portavano avanti la propria vita piegati dal lavoro precoce, dalle fatiche, dalle privazioni, dai sacrifici. C’erano anche le donne con i loro scialli neri e i vestiti lunghi.

C’era su un palco arrangiato un uomo robusto che parlava. La sua voce era calda, viva, tonante, forte. Si esprimeva con semplicità ed efficacia. La sua oratoria era impetuosa, diretta, convincente. Le sue parole erano dotate di una potente carica magnetica. Rimasi affascinato. Mi colpì quella piazza nella quale le bandiere rosse spezzavano l’uniformità del nero degli mantelli e, garrendo al vento, esprimevano grande forza fisica. Mia zia mi disse che quell’oratore era Giuseppe Di Vittorio, un contadino che era evaso dal mondo dell’ignoranza, che si batteva per il riscatto dei lavoratori” (Giorgio Benvenuto Claudio Marotti, Giuseppe Di Vittorio. Una storia di vita essenziale, attuale, necessaria; prefazione di Susanna Camusso, Morlacchi editore, 2016).

Giuseppe Di Vittorio dava grande importanza alla conoscenza, che si raggiunge con lo studio. Era solito soffermarsi sulle parole in Italiano per tradurle nella lingua dei “cafoni”. Era riuscito a compilare un vocabolario bilingue. Amava leggere Campanella, Leopardi, Manzoni. Era solito ripetere che l’operaio e il contadino devono essere in grado di resistere, davanti alle difficoltà del momento, un minuto in più del padrone. Noi possiamo essere anche sconfitti, ma non dobbiamo mai avere paura. C’è sempre il tempo per rialzarsi. La conoscenza è il volano del cambiamento. Si conta qualcosa se si è uniti, si perde tutto se si è divisi. Credeva nel Sindacato Unitario non Unico. Era stato temporaneamente segretario dell’U. S. I (Unione Sindacale Unitaria), che vedeva assieme le tra grandi organizzazioni sindacali (C.G.I.L, C.I.S.L. e U.I.L); a seguito della scissione divenne segretario della C. G. I. L. Era solito ripetere che non decidere significa far vincere l’avversario, il padrone.

Già nei primi anni Cinquanta del Novecento era riuscito ad elaborare, seppur nel suo stato iniziale,  lo Statuto dei Lavoratori, che avrà attuazione con la legge N° 300 del 20 maggio del 1970. Si adoperò non poco per la creazione della Cassa per il Mezzogiorno. Coinvolse anche l’onorevole Amintore Fanfani per affrontare i problemi dei lavoratori e superare le gabbie salariali. Nel 1948, quando ci fu la scissione del Partito Socialista dal Partito Comunista e la Chiesa Cattolica lanciava la scomunica contro i militanti comunisti, Giuseppe Di Vittorio diceva: “Dio non ha bisogno di avere un microfono” – alludeva a padre Lombardi, chiamato il microfono di Dio – “io sono il microfono dei contadini e dei lavoratori”. Certamente, ha concluso Giorgio Benvenuto, non ritorneremo mai ad essere quel che eravamo prima del Covid, ma abbiamo sempre bisogno di elaborare idee e progetti.

Daniele Principi, giovanissimo segretario provinciale della C. G. I. L. , ha riassunto così l’eredità di Giuseppe Di Vittorio per il nostro presente: Autonomia del Sindacato, staccato dai partiti politici. C’è la necessità di essere il megafono per raccogliere i problemi e sottoporli a chi deve prendere delle decisioni politiche, unità del Sindacato, cultura e formazione della classe operaia. Occorre rinverdire la passione della militanza, che può riempire una vita. Occorre combattere la sfiducia che serpeggia in ogni piega della società. Anche oggi esiste lo sfruttamento sul lavoro. Non sfugge a nessuno il pulmino carico di lavoratori, che parte al mattino, per il lavoro nei campi o nell’industria. Qual è la loro retribuzione? Sono tutelati contro lo sfruttamento? Non c’è tanta sensibilità sul tema, ognuno interessato com’è a guardare nel proprio piccolo orticello. Nel 2013 si ipotizzava un nuovo piano del lavoro. Dopo dieci anni ci si è dato il P. N. R. E’ il nuovo piano del lavoro. Nel 2016 è stata redatta la Carta dei diritti universali del lavoro. Se vogliamo fare bene il lavoro come Sindacato, non dobbiamo più parlare di difesa del lavoro ma di diritto al lavoro, fare pace con la nostra storia recente, avere la capacità di ridurre le diseguaglianze e costruire una grande alleanza sociale, giusta, umana e inclusiva.

A conclusione della serata, l’attrice Emilia Bacaro ha letto l’ultimo discorso pronunciato da Giuseppe Di Vittorio, a Lecco, il 3 novembre del 1957: “La nostra causa è veramente giusta, serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società, l’interesse dei nostri figliuoli. Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici. So che una campagna come quella per il tesseramento sindacale richiede dei sacrifici, so anche che dà, certe volte, delusioni amare. Ci sono ancora lavoratori che non hanno compreso, ma non bisogna scoraggiarsi. Pensate sempre che la nostra causa è la causa del progresso generale, della civiltà, della giustizia fra gli uomini. Lavorate sodo, dunque, e soprattutto lottate insieme, rimanete uniti. Il sindacato vuol dire unione, compattezza. Uniamoci con tutti gli altri lavoratori: in ciò sta la nostra forza, questo è il nostro credo. Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra CGIL, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire. Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere (…).

Molte le riflessioni proposte dagli interventi dei presenti. Tutti hanno portato via qualcosa della serata: Unità, condivisione e voglia di fare bene tutto quello che è nelle possibilità di ognuno.

Raimondo Giustozzi

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