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Libri: Storie Paesane, di Giuseppe Tontodonati Sonetti abruzzesi (Primo volume)

Storie Paesane Vol. Idi Raimondo Giustozzi

Storie Paesane, edizione in due volumi, con prefazione di Italo Ghignone, contengono cento ottantuno sonetti in dialetto abruzzese, vergati dal poeta Giuseppe Tontodonati. La prima edizione di Storie Paesane fu pubblicata dal poeta nel 1968, una seconda edizione, riveduta, ampliata e corretta, venne data alle stampe, a Pescara,  nel 1979, quando già da tempo Peppino, come chiamato dagli amici, risiedeva a Bologna. La lontananza dal paese natio, Scafa, in provincia di Pescara, comune situato nella media valle del fiume omonimo, il desiderio di ripensare ai luoghi della propria infanzia e giovinezza, si colorano di nostalgia. Gli avvenimenti narrati, i luoghi, la vita materiale della gente, pur desunti dalla realtà, vengono reinventati dalla fantasia in chiave realistico – giocosa e lirico – elegiaca (Vittoriano Esposito, Poesie inedite di Giuseppe Tontodonati, Regione Abruzzo, Consiglio regionale, Collana di “Studi abruzzesi”, N°. 16).

La trama narrativa è assicurata da  Ndunducce, Cecore e Dommusè. La divisione dei sonetti segue il racconto dei tre personaggi, distribuiti nei due piccoli volumi, raccolti in un elegante cofanetto. Ndunducce, Cecore e Dommusè sono visti come gli antichi cantastorie che amano intrattenere il proprio pubblico con l’affabulazione. Il luogo che fa da sfondo agli incontri tra chi racconta e chi ascolta è la cantina. Possiamo immaginare anche che, nelle sere d’inverno quando magari fuori nevicava, la vecchia stufa alimentata a legna assicurava il tepore necessario. Di tanto in tanto, anche per rischiarare la propria voce, i tre ricorrono a qualche bicchiere di vino, mai sorseggiato in modo smodato.

Ndunducce (sonetti I – 83)

“Ndunducce ciarfajjève certe sere, / tra vucale di vine e le castagne, / de fatte ggià success’ a la mundagne / e spirgiurève ch’ère tutte vere” (Giuseppe Tontodonati, Storie Paesane, vol I, Sonetto N° 1, pag. 19, Pescara 1979). Traduzione: Nduntuccio narrava durante certe sere / tra un bicchiere di vino e le castagne / di fatti già successi sulle montagne / e spergiurava che erano tutte vere. Nduntuccio è diminutivo di Antonio. Ciarfajjève sta per raccontava, quasi fantasticando. Si picca di essere un grande novellatore con le sue storie di sbirri e di briganti, che riconducono il lettore al clima infuocato dei primi anni dell’Italia postunitaria, quando:

“Gna cascò Francischìlle de Bburbone / e rradecò la strìppia Savujarde / ce fu chi appèse fore lu stannarde / e ffece feste a lu nòve padrone // e cchi, pe persunale uppunihone, / spennénne da lu chiove la spengarde, / se jìs’ a ffa’ bbrehande e ffu n’azzarde / ‘ddò se jucò la pell’ e la priggione. // E ffu pe ddà lu corz’ a lu distine / che sscìsse da lu bbosche Cola Janne / e Cola Felle e Necola Marine!… / Ma gna chi porte scritte na cundanne, / lu prime restò mbese pe nu ngine / e l’àttre ddu’ lu mbèrne mo’ le danne” (Giuseppe Tontodonati, Storie Paesane, vol. 1, Sonetto N° 3, pag. 21, Pescara 1979).

Traduzione: “Quando cadde Franceschiello dei Borboni / e mise le radici la stirpe dei Savoia / ci fu chi appese fuori lo stendardo / e fece festa al nuovo padrone // Chi (invece) per personale opinione / staccando dal chiodo la spingarda, / diventò brigante e fu un azzardo / perché si giocò la pelle e la prigione. // E fu per dare corso al destino / che uscisse fuori dal bosco Colajanne / e Colafelle e Nicola Marino!… / Ma come chi porta scritta una condanna, / il primo restò impiccato ad un gancio / e gli altri due sono ancora dannati all’Inferno”.

 

“Cola Marine, llu chiappe de mbese, / fu lu bbrehande tìpiche nustrane… / Cola Janne dell’Abruzze aquelane / e Cola Felle caramanechèse. // Nu tipe primitive… rucculane, / succhiò da piccirille da le sese / da n’urzacchiòtta bbruna murrunese / la forze che je sscève da le mane. // Armate de trumbone e dde curtelle, / muzzev’ a ttrenda passe,  gne lu bburre, / na cocce a ttònne nghe la mmannarelle. // Braccate da li sbirri de Cavurre, / fa done de lu scurce a la Majelle / jittènnese da li ripe de Turre” (Sonetto N° 4, pag. 22).

Traduzione: “Cola Marino, il pendaglio da forca, / fu il brigante tipico nostrano… / Cola Janne dell’Abruzzo aquilano / Cola Felle di Caramanico. // Un tipo primitivo… roccolano, / succhiò da piccolo dalle mammelle / di una orsacchiotta bruna del Morrone / la forza che gli usciva dalle mani. // Armato d trombone e di coltello, / mozzava a trenta passi, come il burro, / una testa a tondo come usasse una mannaia. // Braccato dagli sbirri di Cavour, / volge lo sguardo verso la Majella / gettandosi dalle ripe di Turri”.

Note al testo: i tre briganti si chiamano tutti Nicola, che in dialetto diventano Cola. Caramanico è un paese poco lontano da Scafa, posto dopo San Valentino. E’ un rinomato luogo per le cure termali. Fino a pochi anni fa nella frazione di Rocca Caramanico viveva una sola persona molto anziana. Salendo ancora la Majella si giunge a Sant’Eufemia a Majella. Turri sta per Turrivalignani, un paesino posto a 312 m. s. l. del mare, con 786 abitanti. Si sale verso il paese percorrendo una strada con tante curve. Qua e là si notano le ripe, i burroni che scendono a precipizio dalla sommità del paese. Dal Belvedere si gode di un panorama unico. Lo sguardo spazia a trecento sessanta gradi, dalla Majella, al monte Morrone, alle gole di Popoli, al Gran Sasso; guardando in basso si vede chiaramente tutto l’abitato di Scafa, l’Italcementi chiuso da una decina d’anni, la Tiburtina Valeria, la ferrovia Roma – Pescara e l’autostrada A25 Roma- Pescara. Il trombone era un fucile. Caratteristica principale era data dalla forma della canna che si allargava dalla metà verso la bocca in modo da assomigliare ad una campana o ad una tromba.  Era l’arma preferita dalle bande dei briganti e dei rivoltosi che solevano caricarla con proiettili minuti di ogni genere: sassi e dadi di ferro (Wikipedia).

Feste paesane, affetti, ricorrenze, descrizione della natura

Non solo avvenimenti storici lontani o vicini ma anche affetti umani e familiari, tradizionali feste paesane, sacre ricorrenze, frequenti descrizioni della natura costituiscono materia del canto. “Desott’ a stu cepresse, gne nu dende / piehat’ accape pe lu troppe tire, / stu coll’ aperte cacce nu suspire / tra nu fiume de làgreme e lamende. // La neva bbianghe renne cchiù lucende / sta cerchie de mundagne ‘n gire ‘n gire: / è un canducce fatte pe’ ddurmire / stu colle suletarie de lu vende. // Mamme, da tande, dorm’ e ssa repose / sott’a sta vicchia croce, cunzumate / dall’acq’ e da lu tembe, senza pose. // Ji’ o ma’, le sende ssu core de fate / che vvatte, tra le bbocce de le rose, / nu pàlpete d’amore scunfenate!” (Sonetto N° 51, pag. 69).

Traduzione: “Sotto questo cipresso, come un dente / piegato in cima per la troppa altezza, / questo collo aperto emette un sospiro / tra un fiume di lagrime e lamenti. // La neve bianca rende più lucente / questa cerchia di montagne in giro in giro; / è un cantuccio fatto per dormire / questo colle sgombro dal vento. // Mamma, da tanto, dorme e si riposa / sotto questa vecchia croce, consumata / dall’acqua e dal tempo, senza posa. // Io, mamma, lo sento il tuo cuore di fata / che batte, tra i boccioli delle rose, / un palpito d’amore sconfinato!”.

“Da la mundagne appene se fa sere / fischie lu vend’ e ccale lu terrore, / na fenestrelle sbatt’ e ffa remore / mendre da greche arrive la bbufere. // Ogge stu monne tè na bbrutta cere / chiuse da la turmende fora fore, / me sembre na tombe che schelore / dendr’ a li mure de nu cemetere. // Varde che bbrutte tembe sa crihate / pe Sande Biàsce! … bbone stì taralle / ‘mmezz’ a sta neva fitte sfarenate. // All’ombre de li lume, pe le stalle, / ji vede tra le bbestie aredunate / la bbona ggende a gòdese lu calle” (Sonetto N° 45, pag. 63).

Traduzione: “Dalla montagna appena scende la sera / fischia il vento e cala il terrore, / una finestrella sbatte e fa rumore / mentre dal vento greco arriva la bufera. // Oggi questo mondo ha una brutta cera / chiuso fuori dalla tormenta, / mi sembra come una tomba appena illuminata / dentro al muro di un cimitero. // Guarda che brutto tempo è arrivato / per San Biagio!… buoni questi taralli / in mezzo a questa neve fitta sfarinata. // All’ombra dei lumi, per le stalle, / vedo tra le bestie radunate / la buona gente che si gode il calore”.

Note al testo. San Biagio cade al due febbraio di ogni anno. A Scafa, ancora oggi si usa mangiare i taralli. In Brianza mangiavo il panettone avanzato dal Natale. Zia Faustina e zia Lena, non erano parenti ma chiamate così per affetto, quando abitavo a Giussano in Brianza, nei giorni dopo il Natale erano solite conservare fette di panettone, che poi mangiavano e ne offrivano a San Biagio, il protettore della gola. Il due febbraio era ed è ancora la festa della Candelora. Nelle case contadine, dove si aspettava con ansia che i giorni si allungassero, si recitava anche: “Candelora dell’inverno siamo fuori ma se piove o tira vento dell’inverno siamo dentro”. Serve imparare usi e costumi diversi e ci si arricchisce anche nell’animo.

La tormenta dei nostri tempi è data dal Covid 19 che non ci dà tregua da quasi due anni. Il mondo sì che ha una brutta cera. Chissà cosa ci direbbero i nostri cari, che non ci sono più, se potessero parlare. Nei lunghi mesi invernali, nelle case coloniche o nelle cascine brianzole, la stalla diventava il luogo più frequentato. I grandi intrecciavano canestri di vimini, le donne rammendavano, i bimbi facevano i compiti di scuola, i vecchi raccontavano fiabe. In tante zone del Nord si era soliti chiamare questi momenti di aggregazione con il termine di veglia o filò. Il termine filò era dato alle veglie invernali che la gente contadina passava nelle stalle delle case  coloniche, per stare al caldo, risparmiando legna e usufruendo del calore animale.

Feste paesane e sacre ricorrenze

I sonetti sono solo numerati (vanno dal numero uno all’ottantatré), non hanno nessun titolo. I titoli sono stati scelti liberamente da chi scrive, per facilitarne la lettura.

Il presepe

“Quande l’albe le stelle mballidissce / e ssa remmore l’ucchie de lu fare, / pure la lune ‘n gele ca sparissce / pe jìss’ a culecà ‘rret’ a lu mare. // E mendre ‘n gire l’arie sa ‘ddulgissce, / tra vej’ e ssonne, da li zambugnare / vole lu sone de lu ciufellare / che ffa da ninna nanne a li bardissce. // E’ a st’ora preste che te torne mmende / pasture di ggissitte culurate, / la stella d’ore a còde relucende, // lu muschie verde, ciundel’ argendate, / li Magge… che cavàlche da l’uriende / d’avand’ a lu presepie nginucchiate” (Sonetto 80, pag. 98).

Traduzione: “Quando è l’alba, le stelle impallidiscono / e si affievolisce l’occhio del faro, / pure la luna in cielo scompare / per andare a coricarsi dietro al mare. // E mentre in giro l’aria si addolcisce, / tra veglia e sonno, dagli zampognari / si alza il suono del pifferaio / che fa da ninna nanna ai bambini. // E’ a questa ora presto che ti ritornano in mente: / pastori di gesso colorati, / la stella d’oro con la coda splendente, / il muschio verde, ciondoli argentati, / i Magi… che cavalcano dall’oriente / davanti al presepe inginocchiati”.

 

Il focaraccio di San Giovanni

“Lu fucaracce fatt’ a San Giuvanne / caccève da le Scafe la tristezze. / Ere lu cande de la giuvinezze / sta festa saturnale a piazza ranne. // Mbracciate se facev’ a mezz’altezze / li prime zumbe nghe lu core ‘n ganne / tra l’ùrle de la foll’ e tra l’usanne / gna le lèngue de foche ta ‘ccarezze. // Liggire gne falene, a mill’a mmille, / vulàvene le vispe munachelle / tra tùrbene di fiamm’ e ddì sscindille! // Su le nevaje ‘n cim’ a la Majelle / arlucen’, assunnate da li rilli, / stì ssciame megrature gne le stelle” (pag. 50).

Traduzione: “Il focaraccio a San Giovanni / metteva in fuga da Scafa la tristezza. / Era il canto della giovinezza / questa festa saturnale a piazza grande. // Abbracciati si facevano a mezza altezza / i primi salti con il cuore in gola / tra le urla della folla e tra gli osanna / come la lingua di fuoco ti lambisce. // Leggere come falene, a mille a mille, / volavano le vispe monachine / tra turbini di fiamma e di scintille! //  Sui nevai in cima alla Majella / risplendono storditi dai grilli, / questi sciami sfortunati come le stelle”.

Il canto del Miserere

“Gna s’avvicina Pasque, Caitanucce / nghe Erculine e Peppe de Turriere, / arret’ a la puteche de Peppucce / fanne le prove de lu Miserere. // Che bbelle core!… – bisbìjjò Ndunducce / rattènnese nghe l’ugne la criniere- / pure le Scafe fa stu rehalucce / a Criste Morte gna cale la sere. – // Nghe ffed’ andiche, la prucissìhone / de lu Vannardissande dulurose / cummov’ angore na pupulazione. // Da stu candu sulenne… mistiriose, / nassce la forze de la riliggione… / gna la bbellezze de na rose” (Sonetto N° 82, pag. 100).

Traduzione: “Quando si avvicina Pasqua, Gaetano / con Ercolino e Giuseppe Torrieri, / dietro la bottega di Peppino / fanno le prove del Miserere. // he bel coro!… – bisbigliò Nduntuccio / grattandosi con le unghie la testa- / anche Scafa fa questo regaluccio / a Cristo Morto quando scende la sera. – // Con la fede antica, la processione / del Venerdì Santo doloroso / commuove ancora una popolazione. // Da questo canto solenne… misterioso, / nasce la forza della religione… / come la bellezza di una rosa”.

Ricordo qualche Venerdì Santo, trascorso a Scafa dai suoceri, quando partivo da Giussano (Mb) per stare nella cittadina abruzzese qualche giorno per le feste di Pasqua. Ho conosciuto di persona Peppino Torrieri, citato nella poesia, e mastro Americo. Era chiamato così in segno di rispetto. Era l’artigiano – falegname, un vero artista. Costruiva mobili su misura. Al venerdì, Peppino, Americo e altri amici si trovavano proprio dietro la bottega dei Torrieri, per provare il canto del Miserere che intonavano durante la processione della sera.

La Notte di Natale

“Gende!… avaste nghe ssa tumbulate. / Verze lu quarte de la stazzihone / du’ vote la camban’ ha ggìà sunate, / perciò smettete, e man’ a la curone! // Prima de sscì mbustete lu ceppone / ‘n cim’ a lu fuculare, che tajate / fu gna putèmme l’àvetra staggione, / fore la neve ha bbelle che ngasciate. // Ti mmende queste, nepotucce care; / La notte che nascì lu Redentore / n’ ge stave lene pe lu fuculare! … // e la Madonne se le strugnì ‘n core, / nu core ranne, gne lu mare, / e rescallò ‘ccuscì Nostre Signore. –“ (Sonetto N° 79, pag. 97).

Traduzione: “Gente!.. basta con il gioco della tombola. / Poco lontano dalla stazione / due volte la campana ha già suonato, / perciò smettete, e mano alla corona! (rosario) // Prima di collocare il ceppo / sul focolare, che tagliato / fu quando potammo l’altra stagione, / fuori la neve ha attecchito // Tieni bene in mente questo, caro nipote; / La notte che nacque il Redentore / non c’era legna per il focolare!… / e la Madonna se lo strinse al cuore, / un cuore grande, grande come il mare, / e riscaldò così Nostro Signore”. La campana è quella issata sul campanile della chiesa dedicata a Santa Maria del Carmelo, vicina alla stazione di Scafa – San Valentino, sull’altro lato della ferrovia Pescara – Roma. Il suono della campana invitava i paesani alla preghiera.  Il ceppo di quercia, che si collocava sul camino nella notte di Natale, era un’usanza comune a molte contrade d’Italia. “Murùn sul camin e besti in stala, sorgente di calore della vecchia Brianza”, scriveva Maria Adelaide Spreafico in uno dei suoi più belli articoli pubblicati sui “Quaderni della Brianza”. Il murùn in dialetto locale è il gelso.  La rivista, che leggevo avidamente, quando risiedevo a Giussano, è nata a Monza nel 1978, l’anno successivo al mio arrivo nella cittadina brianzola, su iniziativa di un comitato promotore, presieduto dal senatore Vittorino Colombo.

Raimondo Giustozzi

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